La guerra attraverso le immagini, un fotoreporter racconta il dramma in Ucraina
Nei primi giorni di aprile il fotoreporter ucraino e attivista per i diritti umani Maks Levin è stato trovato morto, come ha riportato il giornale Ukrainska Pravda. Levin, 40 anni, che aveva lavorato per diverse testate internazionali tra cui Ap, Bbc e Reuters, era scomparso dal 13 marzo scorso dalla prima linea vicino a Kiev, nel distretto di Vyshhorod dove stava riprendendo i combattimenti. Il suo ultimo post su facebook dal fronte era datato 12 marzo. Lascia 4 figli minorenni. E’ il settimo giornalista ucciso nella guerra in Ucraina, mentre sono 35 quelli feriti.
A tenere il conto degli attacchi contro la stampa è anche ‘Reporter Sans Frontieres’, che ha aperto a Leopoli il Centro per la libertà di stampa ed ha avviato la distribuzione di elmetti e giubbotti antiproiettile; mentre il segretario della Federazione europea dei giornalisti (Efj), Ricardo Gutierrez, ha denunciato la grave situazione per i giornalisti:
“La situazione per i giornalisti in Ucraina si fa ogni giorno più drammatica, siamo molto preoccupati. Riteniamo che ormai i giornalisti vengano deliberatamente presi di mira allo scopo di creare terrore e di impedire che emerga la verità”, sottolineando che “non si tratta di errori. Sono crimini di guerra quelli perpetrati nei confronti dei giornalisti e di tutti i civili. Per questo chiediamo l’istituzione di un Tribunale speciale per i crimini commessi in Ucraina”.
Al confine tra Polonia ed Ucraina è ‘in azione’ il fotoreporter calabrese, ma palermitano d’adozione, Francesco Malavolta, che documenta con la fotografia cosa sta succedendo in Ucraina, dopo aver documentato quel che accade lungo le frontiere europee nel mar Mediterraneo. Sua la fotografia alla stazione ferroviaria polacca di Przemysl, dove ‘alcune madri polacche lasciano i passeggini per le madri ucraine che arrivano con i neonati’, che è un segno di solidarietà ed un’immagine che dà speranza.
Raggiunto telefonicamente ci spiega cosa significa essere un fotografo di guerra: “In realtà giornalisticamente non ho mai ‘coperto’ i conflitti, ma ho fotografato le persone che fuggono dai conflitti o per altre ragioni. Però ti posso dire cosa significa essere un fotografo che documenta i sentimenti delle persone costrette a lasciare la propria casa, perché è vero che la maggior parte è costretta ad abbandonare la propria terra a causa della violenza della guerra come in Ucraina, non dobbiamo dimenticare che in questi anni del nuovo millennio ci sono state tante guerre che hanno causato un numero altissimo di morti e di sfollati:
Yemen con 350.000 morti e 4.000.000 di sfollati; o la Siria con altri 350.000 morti e 12.000.000 di sfollati, interni ed all’estero, secondo stime al ribasso. Poi ci sono gli sfollati nell’Africa, come in Nigeria, che in questi 12 anni il numero delle vittime ha raggiunto 40.000 morti e 2.000.000 di sfollati; oppure in Etiopia, di cui non è dato di conoscere il numero preciso. Mentre in Afghanistan la popolazione è duramente colpita da quaranta anni.
Parlo di questi Paesi, perché ho documentato la tragedia dei profughi. Questo fa capire che c’è necessità di documentare e di dar voce a quelle persone che fuggono dalle loro case e cercare di sensibilizzare. Quindi a tale domanda rispondo che essere fotografo di guerra significa fare un uso appropriato di un mezzo (in questo caso la macchina fotografica) per raccontare le sofferenze e cercare di smuovere le coscienze attraverso l’empatia dello scatto per essere accogliente con il prossimo”.
Come si fotografa un profugo?
“Sicuramente la cosa più importante per un fotografo, a prescindere dal soggetto che si fotografa, cioè una persona vulnerabile che fugge da un conflitto, è che l’approccio deve essere sempre empatico e soprattutto rispettoso della persona che si fotografa. E’ molto importante di instaurare con la persona, soprattutto quando c’è la possibilità di fare un dialogo. Per esempio quando una barca carica di profughi arriva in porto, allora c’è bisogno di documentare la notizia.
Quando, invece, le storie sono più intime o di vicinanza, allora diventa molto importante è molto importante il rispetto. Ogni volta che un fotografo fa una fotografia deve domandarsi se essa è necessaria e quanto può ledere la dignità del fotografato.
Per fortuna in questo lavoro non ho ricevuto dalle persone che ho fotografato tanti dinieghi; ma quelle volte che ho ricevuto il diniego ho ringraziato ugualmente, perché ho compreso la motivazione. In questi casi si depone la macchina fotografica e si cercano altre storie”.
Cosa racconta la fotografia in guerra?
“Il fotografo dovrebbe raccontare esattamente quello che succede all’interno di quel Paese, cercando soprattutto di fotografare chi subisce l’invasione, come in questo caso in Ucraina. Purtroppo non c’è possibilità di fotografare l’altra parte del confine; ma anche in Ucraina molti fotografi, giornalisti e cameramen stanno facendo un lavoro straordinario, però ci sono molte fotografie delle conseguenze della guerra, ma non quelle dal fronte.
L’esercito ucraino, naturalmente, vieta assolutamente ogni avvicinamento al fronte. Rispetto alle tante foto, viste negli anni passati, dove c’erano fotografi ‘assoldati’ dagli eserciti in prima linea, ora si sta documentando in maniera importante le conseguenze causate dall’invasore ed anche la mancanza del rispetto al diritto di documentare il bombardamento sulle scuole ed ospedali, perché, come in ogni guerra, la maggior parte delle vittime è civile.
In questa guerra ancora non abbiamo visto fotografie dal fronte. Un fotografo racconta i fatti ed attraverso la fotografia cerca di denunciare quello che succede”.
In quale modo fotografare il volto di una persona in fuga dalla guerra?
“Le persone che ho fotografato vanno via dalle guerre, che non sono di belligeranza come questa in Ucraina, o quella in Siria, dove c’è una guerra interna. Sì l’aspetto è sempre lo stesso, perché il rispetto per le persone, che sono fotografate, è quella restituzione della dignità: non cambia se la persona fugge dalla guerra e non cambia se la persona fugge da un Paese per la mancanza dei diritti umani; non cambia se si fugge da luoghi interessati dai cambiamenti umani.
Quindi l’approccio è sempre lo stesso: con tanta dignità, con tanta voglia e necessità di raccontare storie di vita. E con tanta responsabilità: ogni volta che un fotografo scatta un’immagine od un giornalista scrive ha grande responsabilità sull’opinione pubblica. C’è necessità di grande responsabilità, anche se lo scatto cambia secondo la persona fotografata”.
Lei ha fotografato i passeggini alla stazione di Przemysl: quale impatto può avere una fotografia nell’opinione pubblica?
“Al mio arrivo alla stazione dei treni ho trovato una lunga fila di passeggini. Ho subito scattato una foto. All’inizio credevo fossero ‘parcheggiati’ lì dalle stesse mamme ucraine, ma ben presto ho capito che venivano portati dalle donne del luogo.
Ho nel cuore un’immagine ben precisa: una mamma polacca, tirato fuori il figlio neonato, ha lasciato il proprio passeggino ad un’altra mamma ucraina che dalla guerra era appena arrivata dal valico. In un momento ho compreso il valore di questo lavoro: per me fotografare significa raccontare, e fermare questi momenti in un’immagine; vuol dire poter far conoscere a tutti queste incredibili storie.
L’impatto di una fotografia è quello di risvegliare in chi guarda un po’ di umanità nei confronti dei profughi, da qualunque parte del mondo provengano”.
(Tratto da Aci Stampa)