Cosa è il giornalismo per davvero?

Condividi su...

Martedì 26 ottobre 2021, quando ho visto l’articolo Giornalismo, esiste davvero lo scoop?, pubblicato dell’amico e collega Andrea Gagliarducci poco prima, alle ore 23.21, sul suo blog italiano Vatican Reporting [QUI], erano già le ore 23.58. Troppo tardi e stavo per andare a letto. Mi era proposto di condividerlo il giorno dopo, degno di nota e di riflessione, su un temo di cui ci siamo occupati già più volte in passato. Poi, non c’è stato il tempo, rimasto indietro con sempre nuovi argomenti che sollecitavano attenzione. Quindi, è rimasto lì, sospeso.

Mentre stavo dando comunque una lettura veloce a quel pezzo di Andrea, mi era venuto in mente – per quel modo particolare in cui funziona il mio cervello [“Pensare” come “spalatore di nuvole”], difficilmente spiegabile, anche se è plausibile perché Andrea è un librofilo – mi è venuto in mente “Book Story”, i libri che ci guardano, attraverso le illustrazioni dell’artista Jonathan Wolstenholme. Questo illustratore freelance di successo brittanico, che ha lavorato per importanti agenzie pubblicitarie, editori e diverse riviste, ha esplorato l’universo dei libri e ciò gli ha consentito di fare una sorprendente scoperta. Accanto al nostro mondo vive, in uno spazio collaterale, imbricato con il nostro, quello dei libri, modellato sul nostro. Ovviamente, è sempre possibile che sia avvenuto il contrario. Ma non è inverosimile, che siano cresciuti assieme, influenzandosi reciprocamente. Esiste dunque una quotidianità dell’esistenza libresca, molto simile alla nostra (ci osservano?), e che Wolstenholme documenta con spirito analitico, da perfetto antropologo.

Come in “Toy Story” i giocattoli hanno una vita segreta, Wolstenholme immagina dei libri animati. Le sue illustrazioni surreali, beffarde e umoristiche, intelligenti e antropomorfe si fanno entrare in un mondo dei libri che vivono una loro vita, che ricalca quello dei lettori. Libri che scrivono o leggono, che viaggiano o giocano a carta, che partecipano ad un torneo letterario o sono dei ghostwriter… I libri che animano la fantasia e le opere di Wolstenholme sono dei libri intellettuali, ovviamente. Sono tomi belli, di spessore, vecchi e consunti, con l’odore di antico e le pagine ingiallite. Che sono amati da coloro che non si fanno risucchiare nel mondo degli e-book.

Poi, allo stesso modo misterioso, mi è venuto in mente: «Sic vos non vobis» (così voi non per voi), le parole iniziali di quattro versi, che, secondo la tradizione, Virgilio avrebbe scritto – dopo un primo verso introduttivo: «Hos ego versiculos feci, tulit alter honores» (Ho fatto io questi versetti, un altro ne ha riportato gli onori) – per rivendicare la paternità di altri due suoi versi, che aveva lasciato sulla porta di casa di un potente e di cui un certo Batillo si era preso i meriti e gli elogi affermando di averla scritta lui, ricevendone lodi da Augusto. Infine, perché nessuno riusciva a capirne il senso, completò:

  • Sic vos non vobis nidificatis aves (Così voi ma non per voi fate il nido uccelli)
  • Sic vos non vobis vellera fertis oves (Così voi ma non per voi producete la lana pecore)
  • Sic vos non vobis mellificatis apes (Così voi ma non per voi producete il miele api)
  • Sic vos non vobis fertis aratra boves (Così voi ma non per voi portate l’aratro buoi)

Si ripete la frase «sic vos non vobis» talvolta per esprimere delusione nel constatare che altri hanno ricavato vantaggio dal lavoro fatto, ma anche per esprimere l’essenza della vita morale, intesa come sforzo e abnegazione, che ha per fine non il proprio utile ma il bene del prossimo.

Infine, al terzo posto mi è venuto in mente, l’esperienza che ho avuto mezzo secolo fa con Alternatief, il bimestrale fiammingo per giovani intellettuali che avevo fondato nel 1973 e di cui sono stato il primo caporedattore, che si occupava principalmente di temi sociali e politici, uscito per cinque anni. Paul Belien, il terzo caporedattore, scrisse: «La pubblicazione ha subito un grosso handicap: la pubblicazione era troppo avanti rispetto ai tempi. E questa è una delle prese di posizione più ingrate da prendere. Chi è troppo in anticipo sui tempi, è sempre accusato di essere superato dai suoi tempi». Alternatief allora fu accusato da Don Felix Dalle, il caporedattore di Kerk en Leven, settimanale della Comunità ecclesiale fiamminga, di occuparsi di temi di cui nessun’altra pubblicazione parlava. Non si trattava di pubblicare “scoop”, anzi. Era, in fondo, come conclude Gagliarducci: «Si tratta di dare profondità ad ogni notizia. Il lettore, in fondo, si eccita se vede qualcuno che dà una notizia prima, e in effetti molti giornalisti sono diventati abili promotori di loro stessi, e utilizzano i social media per mostrare dove sono, chi intervistano e persino per far vedere di avere qualche notizia in anteprima. Quella, però, è un po’ roba per dilettanti, dal mio punto di vista. Perché chiunque fa questo mestiere almeno una volta nella vita, chi prima o chi dopo, si trova nella condizione di dare una notizia prima degli altri. Il gioco, ora, è di sapersi scegliere le fonti vere. Quelle che non ti danno le notizie, ma ti danno gli scenari. Quelle che ti insegnano a guardare oltre i singoli fatti, ma li tematizzano. Sta lì lo scoop. Magari il resto può essere più utile per la carriera, ma non aiuta il lettore ad andare in profondità. E non aiuta nemmeno il giornalista ad andare in profondità. E, come dire, se questo mestiere non ci permette di guardare alle cose con occhi nuovi, è un mestiere un po’ sprecato».

Giornalismo, esiste davvero lo scoop?
di Andrea Gagliarducci
Vatican Reporting, 26 ottobre 2021

Quando si comincia a lavorare come giornalisti, si vive con il mito dello scoop. Si cerca la notizia che nessuno ha mai dato, la rivelazione che nessuno è stato in grado di svelare, la notizia che nessuno ha dato prima. Lo si fa perché si pensa che in quello si manifesti la bravura del giornalista, perché se un giornalista non dà le notizie, allora non sta facendo il mestiere. Ma è davvero così?

Ultimamente mi è capitato di parlarne spesso, e in particolare ne ho parlato lo scorso 16 ottobre in un incontro on line che concludeva la settimana dell’editore Città Nuova, per cui ho scritto due libri quest’anno. Si parlava di “Media e bene comune”, e con me, oltre al moderatore Giulio Meazzini, c’erano la direttrice del Quotidiano Nazionale Agnese Pini, e presidente e co-presidente del Movimento dei Focolari Margaret Karram e Jesùs Moràn.

C’è bisogno prima di tutto di una premessa: io lavoro nell’informazione religiosa, e scrivo di Vaticano. Ho la necessità, se non l’obbligo, di guardare ad ogni cosa che succede attraverso le lenti della tradizione e della storia, perché è solo così che posso dare profondità ad una notizia.

Quello che io dico, però, lo ritengo valido anche in altri settori del giornalismo, anche perché è un pensiero che ho cominciato a sviluppare quando ho iniziato questo mestiere da improvvisato cronista di politica nella redazione romana del quotidiano La Sicilia di Catania.

Il mio punto è questo: più andavo studiando, più mi rendevo conto che non esiste davvero quello che noi chiamiamo scoop. Certo, ci sono le notizie dirompenti, le grandi anticipazioni, ma queste non sono novità assolute nella storia. Hanno radici precedenti, quasi sempre sono ripetizioni di qualcosa che è già successo.

Non solo. Lo scoop arriva perché c’è una fonte. Ma quante volte la fonte manipola il giornalista, dà solo una lettura parziale della storia? Quante volte vediamo scoop di cronache giudiziarie che prendono semplicemente il punto di vista dell’accusa, perché è da lì che vengono le carte?

Persino il caso Watergate nasce da una serie di inchieste giornalistiche che in realtà originavano tutte da una imbeccata di Deep Throat, Gola Profonda, che alla sua morte fu rivelato essere Mark Felt. Ed è evidente che è la fonte a guidare i giornalisti, e non i giornalisti ad investigare. Le cronache del Watergate – si possono leggere anche in traduzione italiana, nel libro Sette pezzi d’America – non sono altro che la cronaca, molto scarna, di una ricerca fatta con il rigore del giornalismo anglosassone. Un rigore metodologico che, però, permette di dare una notizia, ma non di raccontare una storia.

Il fatto è che, nel momento in cui questo scoop si scrive, diventa solo una notizia se non viene accompagnato da un vero apparato critico. L’apparato critico, la famosa analisi che sembra mancare ormai sempre più dai media, è quello che fa la differenza.

Ma l’apparato critico porta alla consapevolezza che, al di là della notizia, nuda e cruda, niente è davvero nuovo, niente è così dirompente. Ed ecco perché dico che lo scoop non esiste. Perché tutto ciò che spacciamo per novità, e spesso scriviamo che sono novità, in realtà si possono rivelare in buona parte dei casi come un già detto riproposto sotto altra forma.

È per questo che io diffido sempre dagli articoli troppo sensazionalistici nei toni, o quelli troppo emozionali. Perché quello stile vuole dire al lettore cosa pensare, vuole indirizzare un pensiero. Non credo che la strada sia quella del rigore cieco del giornalismo anglo-sassone (tra l’altro, la regola delle due fonti che confermano una notizia non dà la certezza che la notizia sia vera, ma solo che ci sono due persone che vedono qualcosa allo stesso modo), ma non credo nemmeno la strada sia lo stile simil-letterario per strizzare l’occhio al lettore.

Perché ormai l’idea dello scoop è diventata un qualcosa di buono per posizionarsi sul mercato, e per guadagnarsi più lettori in un mondo dove l’informazione è diventata una galassia immensa, in cui tutti cercano di guadagnare il proprio posto al sole.

Ed ecco così che l’idea dello scoop oggi è diventata parte di quella necessità di entrare nella mente del lettore e di invogliarlo a leggere. Ma questa affermazione porta con sé il rischio di cercare di scrivere solo quello che il lettore vuole. Diventa marketing, non giornalismo.

Il dio del giornalista non è il lettore, è la verità. Si può sbagliare cercando la verità. Ma non si può sbagliare perché si cerca di scrivere ciò che il lettore vuole, forzando le interpretazioni.

Cosa è allora lo scoop? Lo scoop sta nel saper mettere le cose in contesto. Lo scoop non sta nel raccontare una notizia, ma nel saperla spiegare, anche disilludendo il lettore dal falso sensazionalismo. Se una cosa è nuova, non è detto che sia buona. Ma se una cosa ha una storia, che va molto al di là del fatto che si racconta, allora perlomeno c’è una profondità. Non c’è niente di più dirompente della realtà, e la realtà è sorprendente solo se ci lasciamo sorprendere.

E lasciarsi sorprendere significa anche realizzare che, in fondo, le cose vanno relativizzate, vanno comprese nel lungo periodo, vanno analizzate. Si devono dare analisi, perché le analisi permettono di sviluppare un pensiero. Si deve comprendere che non c’è niente di più nuovo di un passato che resta in qualche modo nascosto tra le pieghe della storia.

Ho trovato più dirompente scrivere “Cristo Speranza dell’Europa” (a proposito, qui il sito) che non dare in anteprima un mese fa la notizia che il presidente Biden avrebbe incontrato Papa Francesco il 29 ottobre. Perché nel secondo caso era solo qualcosa che stavo dicendo, ma nello scrivere il libro ho scoperto una storia e sono entrato in un mondo di cose sconosciute, eppure fondamentali per capire l’oggi. Scrivendo il libro, ho visto che la Chiesa non ha parlato da ora e da oggi di temi come le migrazioni o il dialogo interreligioso, ma che lo ha sempre fatto, anzi lo ha fatto persino con più profezia in passato.

Come dicevo, è un ragionamento che vale moltissimo per l’informazione religiosa, perché in fondo quando si parla di Chiesa si deve sempre fare i coni con il fatto che la vera notizia della Storia è la Resurrezione di Cristo, e che tutto si sviluppa da lì. Non c’è niente di nuovo, dopo, c’è solo una storia che cerca di comprendere come adeguare il messaggio della Resurrezione ai tempi.

Ma è un ragionamento valido sempre, perché si tratta di dare profondità ad ogni notizia. Il lettore, in fondo, si eccita se vede qualcuno che dà una notizia prima, e in effetti molti giornalisti sono diventati abili promotori di loro stessi, e utilizzano i social media per mostrare dove sono, chi intervistano e persino per far vedere di avere qualche notizia in anteprima.

Quella, però, è un po’ roba per dilettanti, dal mio punto di vista. Perché chiunque fa questo mestiere almeno una volta nella vita, chi prima o chi dopo, si trova nella condizione di dare una notizia prima degli altri.

Il gioco, ora, è di sapersi scegliere le fonti vere. Quelle che non ti danno le notizie, ma ti danno gli scenari. Quelle che ti insegnano a guardare oltre i singoli fatti, ma li tematizzano. Sta lì lo scoop. Magari il resto può essere più utile per la carriera, ma non aiuta il lettore ad andare in profondità. E non aiuta nemmeno il giornalista ad andare in profondità. E, come dire, se questo mestiere non ci permette di guardare alle cose con occhi nuovi, è un mestiere un po’ sprecato.

Free Webcam Girls
151.11.48.50