“Nel Concilio Vaticano II Tradizione e rinnovamento si sono abbracciati”
Eccellenza, lei ai tempi del Concilio aveva vent’anni, o poco più. Qual è anzitutto il suo ricordo diretto di quell’avvenimento?
Sono entrato in seminario a 19 anni. Ne ho potuto seguire qualcosa in televisione e la stessa lettura dei giornali era regolata. Un insegnante ci portava tuttavia i libri che uscivano in occasione del Concilio, ce li prestava e li leggevamo con molto interesse. Ciascun professore in classe dava poi una sua versione. Nel ’64 sono venuto a Roma e ho partecipato a qualche cerimonia pubblica, rimanendo molto impressionato dal fulgore del mondo ecclesiastico. È vero che in questa universalità c’è stata un’esplosione di presenza del mondo intero, e credo che per il mondo sia stato un segno: l’unità della famiglia umana. De Gaulle disse che la celebrazione del Concilio non era il più grande avvenimento del secolo scorso soltanto per la Chiesa cattolica, ma per il mondo, e non era il solo a sostenerlo.
Da cosa è derivato il bipolarismo interno tra una lettura progressista e una lettura conservatrice del Concilio?
Senza adattarci al gergo parlamentare, credo si possa accettare una categoria più neutra: maggioranza e minoranza, che in Concilio erano variabili. Si può dire che la maggioranza era in genere per il rinnovamento, mentre la minoranza era più sensibile all’aspetto di fedeltà alla Tradizione. Del resto sono le due grandi anime del cattolicesimo, che devono collaborare e stare insieme. Nel Concilio Tradizione e rinnovamento si sono abbracciate e questa è stata per me la sua grandezza, come espressione di un Concilio ecumenico e di una Chiesa cattolica in comunione con Roma.
Il Vaticano II non poteva svolgersi altrimenti?
Il mezzo usato per giungere a delle conclusioni in cui tutti potevano riconoscersi è stato il dialogo, il voto, l’accettazione dell’altro. “Audiatur et altera pars”, “Si ascolti anche l’altra parte”. Questo non è compromesso, termine che si usa per svilire i documenti conciliari. Per me è invece il segno della cattolicità: le due parti devono tener conto l’una dell’altra. Come diceva il cardinale Frings: non sono compromessi, ma trovare una formulazione sulla quale tutti possiamo assentire. La caratteristica principe del cattolicesimo è mettere insieme: fedeltà alla Tradizione nel rinnovamento, quello che Benedetto XVI chiama riforma, o, usando un termine di Giovanni XXIII, aggiornamento. C’erano però due estremità, importanti per le conseguenze che si sono avute nel post Concilio: da una parte Lefebvre e coloro che lo hanno seguito e, dall’altra, quanti nella maggioranza sostenevano che il Concilio si era opposto all’opera di Paolo VI, che del Concilio secondo loro sarebbe stato l’affossatore, visione predominante nel post Concilio.
La sua ermeneutica, invece, si situa da sempre nella linea della riforma nella continuità, teorizzata dal Papa in un passaggio del discorso alla Curia romana del 2005. C’è lei dietro?
No, io non ho saputo niente di quel discorso fin quando è stato pronunciato. Ma evidentemente il mio libro (“Il Concilio ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia”) era già apparso, nel giugno del 2005. E comunque in “Rapporto sulla fede” il Papa era già su quella linea, da cardinale.
Nel suo volume lei individua tre filoni dell’ermeneutica conciliare.
Benedetto XVI parla di “riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”, perché il Papa stesso dice che a diversi livelli ci può essere continuità o discontinuità. Io, pur essendo vescovo, non parlo come vescovo, ma come storico che adotta il metodo storico-critico e sostengo, fin dal 1990, che questa posizione trova il fondamento nella storia veridica. È la storia che mi dice che nel Vaticano II c’è stato questo mettere insieme, questo desiderio di rinnovamento nella continuità, questo “e” “e”, non rompere ma costruire e fare una riforma. Da qualche tempo v’è un giudizio di rottura non solamente da parte di coloro che erano la frangia estrema della maggioranza conciliare e i loro successori, ma anche nell’estremità dell’altra parte. Gli uni dicono che c’è stato il Concilio e occorre andare avanti, quasi che ci sia un Concilio permanente, come se il Vaticano II abbia solo messo qualche semente, ma adesso bisogna avere i frutti. Gli altri affermano invece che è proprio una rottura, per cui si deve tornare a prima del Concilio. Queste due posizioni non sono belle, c’è come una cecità: le convinzioni che si hanno impediscono di vedere quello che si può vedere.
Un avvenimento che comunque non lascia indifferenti…
Penso sia giusto che non lasci indifferenti, perché è un grande avvenimento, e poi per la Chiesa cattolica è un faro o, come dice il Papa, una bussola. Ma perché la bussola funzioni bisogna assicurarle certe condizioni, riguardo la storia e lo studio dell’ermeneutica.
Può illustrarci queste condizioni?
Io individuo sempre tre scansioni, cui aggiungo degli aggettivi. In primis una storia veritiera – un aggettivo che usava molto don Giuseppe De Luca –, non ideologica, in cui entra cioè un’interpretazione che non è nella linea dell’obiettività, ma della persona che ha dei pre-concetti, dei pre-giudizi e vuol piegare l’avvenimento a quello che secondo lei doveva essere il Concilio. Ancora non c’è una storia veritiera, anche perché molti, come fonti, sono andati subito ai diari personali dei Padri, piuttosto che ispirarsi agli Acta Sinodalia. Seconda scansione è l’ermeneutica, cioè l’interpretazione, che deve basarsi su una storia veritiera. L’ultimo stadio è la ricezione. Un Concilio non è che sia Concilio perché c’è una ricezione, ma affinché incida nella vita della Chiesa ci vuole la ricezione. Questa dev’essere adeguata, fedele, ma la fase della ricezione non è un altro Concilio, non è una creatività quasi senza riferimento ad esso. Ci vuole una interpretazione corretta per avere una ricezione giusta e abbiamo ancora strada da fare.
È qui che si annidano i rischi?
Penso che il fascino del nuovo abbia giocato molto. Per tanti il Concilio è quanto di nuovo è stato detto, per cui la trama, che è fedeltà e rinnovamento, si è smagliata e si è diventati parziali, non tenendo conto della sua complessità. In Concilio si sono messi insieme, dopo ciascuno ha preso da quell’insieme il suo contributo e non c’è stato più Concilio. È secondo me il dramma del post Concilio. Ma non dobbiamo accusare il Concilio, come fanno alcuni che dicono che in esso ci sono elementi ambigui. Il post Concilio non è Concilio. Il Concilio è un insegnamento straordinario del Papa unito con tutti i vescovi. Dopo il Concilio ci può essere il magistero ordinario, che dobbiamo rispettare e accogliere. Però si deve fare una distinzione tra Concilio e post Concilio.
C’è stata un’influenza del ’68?
Nel dopo Concilio c’è stata una crisi dell’accettazione del magistero, una crisi del laicato organizzato, io credo ci sia stata una crisi teologica, una crisi sacerdotale e nella vita religiosa. Questa crisi cattolica ha coinciso con la crisi della società occidentale. Qual è il rapporto tra queste due crisi? Il movimento sessantottino ha influito sul movimento di contestazione nella Chiesa. Penso che questa ostilità alle istituzioni si sia trasferita all’interno della Chiesa riguardo alle istituzioni ecclesiali, però il dissenso cattolico era anteriore, c’erano aspetti precedenti la crisi del ’68 e la crisi della Chiesa avvenuta dopo il Vaticano II.
Continua…