Shlomo: la terra perduta

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A Torino all’Arsenale della Pace del Sermig, è stato  presentato in anteprima mondiale il film-inchiesta ‘Shlomo: la terra perduta’,  realizzato da due giornalisti italiani: Stefano Rogliatti, filmaker, e Matteo Spicuglia, giornalista conosciuto ai lettori di Korazym. Gli autori sono stati ospitati da famiglie di Aramei in  Turchia e in Germania per raccontare le ferite di ieri e di oggi, una fatica comune a tutte le minoranze della regione. Villaggi abbandonati e monasteri antichissimi, oggi in pericolo, decine di persone di tutte le età: il risultato è un affresco di testimonianze inedite.

 

Infatti Tur Abdin non esiste sulle carte geografiche, ma è la patria di una delle minoranze più antiche del Medio Oriente: gli Aramei, un popolo cristiano antichissimo che parla ancora l’aramaico, la lingua dell’epoca di Gesù. Tra le molte testimonianze raccolte il film racconta in particolare il caso di Mor Gabriel, il monastero più antico della cristianità, al centro di un contenzioso legale, approdato alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La comunità dei monaci è accusata da anni di proselitismo e appropriazione indebita delle terre, addirittura di aver costruito sul sito di una moschea. ‘Shlomo. La terra perduta’ abbraccia le mille pieghe della vita degli Aramei: le radici di Tur Abdin, la vita di chi ha trovato riparo in una grande metropoli come Istanbul, le attese di un popolo della diaspora, presente oggi in tutto il mondo, dall’Europa agli Stati Uniti, passando per l’Australia. E ancora: il problema dell’occupazione delle terre da parte della maggioranza curda, la speranza dell’emigrazione al contrario dei rifugiati in Europa che hanno deciso di tornare a casa, le motivazioni dei giovani che hanno scelto di rimanere a Tur Abdin.

 

Agli autori abbiamo chiesto di spiegarci il motivo per cui hanno fatto questo film: “L’idea era di dedicare parte delle ferie a qualcosa di diverso. Provare a dare voce a storie e situazioni che normalmente non trovano spazio sui media tradizionali. Tutto è nato da un lancio di agenzia che parlava del monastero più antico della cristianità, il monastero di Mor Gabriel. E’ un luogo bellissimo, al confine tra Turchia e Siria, al centro di un contenzioso legale che è approdato adesso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. In ‘Shlomo. La terra perduta’, lo raccontiamo in modo approfondito. E’ una storia pazzesca che meritava attenzione. Ci siamo incuriositi e ci siamo detti: ‘Perché non andarci?’. Da lì è nata un’avventura che si è allargata oltre ogni immaginazione. Abbiamo scoperto così la realtà degli Aramei e di Tur Abdin”.

Allora cosa è Tur Abdin?

“Tur Abdin è un fazzoletto di terra che non esiste sulle carte geografiche. Siamo in Turchia, nel sudest profondo a maggioranza curda, tra le province di Mardin e di Sirnak, a pochi chilometri dalla Siria. Da sempre, questa terra è la patria degli aramei, popolo antichissimo che abita da almeno 4mila anni l’Alta Mesopotamia. La loro particolarità è che parlano ancora l’Aramaico, la lingua di Gesù e degli Apostoli. Sono gli ultimi rimasti. ‘Shlomo’ è il loro saluto di pace. Tur Abdin, invece, in aramaico significa ‘Montagna dei servitori di Dio’. Non potrebbe essere diversamente per una terra dove dai primi secoli erano attivi decine di monasteri, chiese e villaggi”.

Gli aramei sono cristiani. Potete dirci qualcosa di più?

“Sì, sono tra i primi popoli della regione ad aver abbracciato il cristianesimo. In origine erano un popolo di pastori, pagani. Ci sono monasteri costruiti su antichi templi dedicati al culto del sole. Poi tutto cambiò con l’incontro con San Pietro e i primi cristiani di Antiochia. Nasce da lì la chiesa degli aramei, la chiesa siro ortodossa, raccolta oggi intorno al patriarca Ignazio Zakka I, che vive a Damasco. E’ una chiesa primitiva orgogliosa della propria fede e cultura. I riti e la liturgia sono antichissimi”.

Perché gli Aramei hanno subito tante persecuzioni?

“Gli Aramei hanno condiviso il destino di tante minoranze in Medio Oriente. Sotto l’Impero Ottomano riuscirono a vivere con una certa tranquillità. Poi, cambiò tutto con il Novecento. Nel 1915, furono vittime insieme agli Armeni dei massacri compiuti dall’esercito e dalle bande paramilitari turche e curde. Con la nascita della Turchia moderna, nel 1923, pagarono il prezzo del nazionalismo e della modernizzazione laica di Kemal Ataturk. Il paese cambiò radicalmente, facendo passi in avanti oggettivi, ma i diritti delle minoranze non furono considerati. Il modello di laicità turca infatti non è basato sul concetto di ‘libera chiesa in libero stato’, ma sul controllo della religione da parte dello stato. Il nazionalismo ha fatto il resto. Agli inizi, sembrava che il profilo del cittadino ideale fosse quello del turco, musulmano, sunnita. Tutti gli altri di fatto furono discriminati. E’ successo così ai musulmani aleviti, ai curdi, alle minoranze cristiane. Gli aramei poi hanno subito una doppia beffa. Essendo radicati in una regione a maggioranza curda, si sono ritrovati coinvolti anche nella guerra tra Ankara e il Pkk. Il risultato è stata la fuga di massa. Se agli inizi del Novecento gli aramei erano oltre 500.000, oggi ne sono rimasti appena 2500”.

Cosa possono raccontare quei luoghi agli occidentali?

“Quando visiti Tur Abdin e incroci storie, volti, speranze, ti rendi conto di come possa cambiare in fretta il profilo storico, culturale, religioso di una terra. Gli aramei oggi sono dei sopravvissuti, sono diventati un popolo della diaspora in poco più di 50 anni. Chi è rimasto non è più perseguitato, ma vive una discriminazione sottile. La vita è difficile. Dall’Europa è facile parlare di riconciliazione, di dialogo. Valori sacrosanti e irrinunciabili, sia chiaro, perché l’alternativa sarebbe la guerra fratricida. Eppure, a Tur Abdin capisci che il dialogo senza il riconoscimento dei diritti non serve a niente. Non è una questione di leggi, ma di cuore, di rispetto, di riconoscimento della dignità e dell’importanza dell’altro. Ecco, in Medio Oriente questo oggi non sempre avviene. Aver raccontato la fatica degli Aramei è stato un modo per dare voce al destino di tutte le minoranze del Medio Oriente, dall’Iran all’Egitto, dall’Iraq alla Terra Santa. Il copione è quello di sempre: difficoltà quotidiane, discriminazione spesso sottile, diritti non sempre riconosciuti, dialogo impossibile da vivere. La fuga a volte è considerata l’unica scelta. Bisogna lavorare e sperare per questo. Chi ha fede può anche pregare”.

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