Italia ha pagato dei massacratori di cristiani. Chi sono davvero i carcerieri di Silvia “Aisha” Romano, convertita all’Islam?

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Musulmano, dall’arabo-persiano musliman, plurale di muslim (aderente all’Islam). Come aggettivo: di ciò che appartiene alla religione, alla civiltà, al pensiero islamici: le dottrine, la cultura, usi e credenze. Come sostantivo: seguace dell’islamismo. Maomettano è designazione comune dei seguaci dell’Islam, ma è sentita da loro come imprecisa e offensiva, mentre i termini islamico e musulmano sono ritenuti più corretti (Treccani).

Prosegue sui giornali, in rete e sui social, il dibattito sul “ritorno” della cooperante convertita all’islam, nell’odiato Occidente. Ieri ho lasciato la parola a Marco Tosatti, a Agostino Nobile e a Padre Giulio Albanese, senza aggiungere altro di mio, che certamente ne so molto meno di loro. Questa notte ho riportato una reazione di Giuliano Guzzo ad un post con cui Enrico Mentana ha fatto una bruttissima figura: “Tutto ciò per dire che, se l’intervento di Mentana era finalizzato a difendere Silvia Romano, il solo scopo che ha in realtà ottenuto è stato offendere non tanto e non solo i cattolici – categoria abitualmente azzannata dai media -, ma la verità storica”.
Quindi, questo pomeriggio propongo una riflessione di Renato Farina su chi ha incassato il riscatto pagato dall’Italia, un post Facebook di Salvo Sottile su Africa Milele e la sua fondatrice, Lilian Sora, che ha mandato «allo sbaraglio» Silvia “Aisha” Romano.

Abbiamo pagato dei massacratori di cristiani
Chi sono davvero i carcerieri
Al Shabaab, che ha incassato il riscatto, nel 2015 ha trucidato 143 studenti universitari keniani perché fedeli a Gesù
di Renato Farina
Libero, 12 maggio 2020

Silvia “Aisha” Romano ha comunicato la sua conversione all’islam. Viva la libertà, sono affari di coscienza. Eppure non si può ridurre quanto è accaduto sotto i nostri occhi a una questione di credo personale. La dottoressa partita per l’Africa, non ha deciso di aderire alla sezione somala degli Are Khrisna, con un barracano verde invece che color zafferano. La sua nuova fede, proprio per la natura propria di questa religione, ha la forma di chi gliel’ha comunicata: gli Al Shabaab. Sono spietati assassini.
Ricordiamocelo. Questi efferati criminali non sono una gang isterica che questo lo salva, l’altro lo brucia vivo. Non sono predoni ululanti nella foresta. Costoro sono una potenza ideologica armata, hanno negli ultimi anni trasformato l’80 per cento del territorio della Somalia in uno Stato Islamico sul modello del Califfato di Raqqa. Leggi, commerci, negozi, poste, polizia, scuole, addestramento tattico, lotta corpo a corpo: una specie di paradiso per musulmani radicali che galleggia sul sangue degli sgozzati.
Ne è consapevole Silvia? Le testimonianze di chi è stato in mano a lungo a questa gentaglia assassina (vedi Domenico Quirico ostaggio per mesi di Al Qaida, ma si veda su Netflix la serie “Califfato”) ha sperimentato la loro abilità nel plasmare le coscienze altrui come argilla. Non do pertanto alcun giudizio sull’intimo traumatizzato di questa giovane donna, sarebbe temerario. Evitiamo però di trattare questa storia come se ci trovassimo davanti ad Alice balzata fuori dal paese delle meraviglie, come ella cinguetta felice. La realtà è un’altra.
Silvia è diventata una costola occidentale, una testimonial spaventosa del jihadismo più estremo, forse suo malgrado, ma forse con cognizione di causa. Ci sono tante domande. Alcune le diamo senza rispondere.
1) Se si è convertita liberamente, perché la si è dovuta liberare? Da che?
2) Non è che in fin dei conti siamo stati noi a sequestrarla alla sua “umma”, portandola via dalla Casa dell’islam (come diceva il non rimpianto Al Baghdadi)?
3) Non è che è stata liberata contro il suo desiderio, consegnandola all’Occidente, con esiti per la propaganda islamista più potenti di una bomba?
4) Da quando in qua i musulmani fanno schiavi i convertiti alla loro religione? I giannizzeri, erano battezzati convertiti all’islam, ed erano i più fedeli, custodivano il corpo del Califfo…
A una domanda siamo in grado di rispondere molto precisamente. Che cosa fanno gli Shabaab (che vuol dire “Giovani”) ai cristiani, qualora non abbiano alle spalle la borsa di uno Stato ricco.
Sarà bene che qualcuno lo racconti a Silvia, anche se crediamo che da neofita abbia assistito per obbligo di precetto a lapidazioni o sgozzamenti inflitti dal tribunale della Sharia, spettacoli in cui donne e bambini partecipano (anche coi sassi) a scopo pedagogico.
Qualcuno per favore abbia la faccia tosta o il coraggio civile di mostrare una fotografia alla convertita, è importante farsi un’idea della statura umana e spirituale dei propri padri spirituali, cara Aisha. Eccellenti macellai, dal cuore indomito, non c’è dubbio. Fa un po’ impressione, però. È un cortile coperto di cadaveri di ragazzi come lei, senza l’opportunità di discutere la tesi come fece l’allora Silvia. È un lavoretto che fecero gli Al Shebaab, il 2 aprile 2015, nel campus universitario di Garissa in Kenia, a duecento chilometri da dove la nostra connazionale tre anni dopo sarebbe stata portata via con modi tanto affabili. Ci sono 143 studenti cristiani, ragazzi e ragazze, assassinati perché non in grado di pronunciare qualche versetto del libro sacro che la incantò e che a lei fu donato da quella stessa masnada responsabile dell’eccidio. Aisha dice di costoro: “Mi hanno spiegato le loro ragioni e la loro cultura”. Le hanno spiegato anche le ragioni e la cultura di questo massacro che più vile non si può?
Ricordo che allora ci fu una forte indignazione degli atenei europei, nel documento – notò un professore universitario, Gian Enrico Rusconi, sulla Stampa – mancava un particolare: che i trucidati erano cristiani, e che proprio per questa colpa erano rei di morte, e che i carnefici erano islamici. Be’, li ricordiamo noi ora questi particolari. Gli Al Shabaab hanno questo carattere permaloso. Ammazzano i cristiani. Salvo appartengano a Stati disponibili a chiudere un occhio, se a essere stuprate e schiavizzate sono poverecriste yazide o cristiane africane, ma pronti a ingaggiare 007 turchi e a caro prezzo se la poverina è una islamica italiana.

Il post Facebook di Salvo Sottile
12 maggio 2020

Si chiama Karen Blixen, ma ha poco dell’esotismo africano che incantò la scrittrice danese: è la pizzeria degli italiani a Malindi, il ritrovo d’expat e di pettegolezzi. Ventilatori sospesi, wi-fi a manetta, spaghetti all’aragosta. Per mesi è stato anche l’ultimo deposito dello zainetto di Silvia Romano. Poche cose lasciate lì, qualche sera prima di partire per Chakama e per il suo destino di rapita.
Come le altre volontarie dell’onlus Africa Milele, la ragazza spesso passava dal Karen Blixen a vedere qualcuno. «Le chiamavamo le ragazze con la valigia», dice un assicuratore veneto in pensione: «Atterravano dall’Italia con queste borse piene di medicinali e di latte in polvere da portare a Chakama. Facevano un po’ da postine. Perché lavoravano per un’organizzazione piccola e, insomma, dovevano arrangiarsi…».
Arrangiarsi, la parola giusta. Africa Milele e la sua fondatrice, Lilian Sora, 42 anni, fanese di Falcineto Castracane, così sono sempre state percepite nel mondo del volontariato. Ultime arrivate, poco conosciute, un filo improvvisate. Anche un po’ troppo sorde ai consigli di chi già lavorava da anni in Kenya e predicava prudenza, nell’adozione di misure di sicurezza e nella scelta dei collaboratori: «Io per esempio smisi nel 2013 d’accettare volontari, perché sono pericolosi», fu il commento a caldo di Popi Fabrizio, dopo il sequestro. Lui è un ex discografico che collaborava con Renato Zero e che a Chakama aveva aperto una fattoria solidale, prima d’avere discussioni proprio con Lilian Sora e d’andarsene.
Esiste una responsabilità di chi manda questi ragazzi e una tendenza di molti volontari a mettersi nei guai, è sempre stato il pensiero di Fabrizio. Perché sono «pericolosi per la loro leggerezza, per la loro ingenuità, per la mancanza assoluta di rispetto delle regole del Paese che li ospita, per l’esagerato amore nei confronti dei bambini, solo perché sono scalzi, sporchi, affamati e fanno tanta tenerezza. Pensano a una bella vacanza, pensano alla novità, pensano alle foto, ai milioni di video che poi di sera postano sui social. Pensano di essere immuni da tutto e quasi ogni giorno, senza saperlo, rischiano grosso. Sono pericolosi e controproducenti, anche se apprezzo il loro grande impegno, che riconosco spontaneo e genuino».
Spontanea e genuina, la figlia diciannovenne coinvolta, la bambina di tre anni e due cagnolini a trotterellarle intorno, Lilian in questi anni ha messo tutta se stessa nel progetto africano. «Devo dire che s’è data molto da fare», le riconosce un’elegante signora romana che da quindici anni frequenta Malindi e che per un po’ aveva collaborato con Africa Milele: «Anch’io ho portato queste famose valigie. Poi ho smesso. A un certo punto — ride —, qualcuno malignava che assieme agli aiuti servissero a trasportare anche qualche prosciutto…». Cattiverie della comunità italiana, probabilmente, che un po’ sospettosa soprannominava «la Sora Lella» quest’esuberante marchigiana piombata dal nulla in vacanza a fine anni Zero, ancora con l’ex marito italiano, e poi folgorata dal Kenya e dall’amore per un masai, Joseph, messo subito a capo della missione a Chakama.
Il progetto d’un orfanotrofio, l’educazione dei piccoli, la raccolta di cibo, il sostegno a distanza, le bomboniere solidali. «Lilian ha aiutato decine di bambini — racconta l’ex volontaria romana —. Una volta ne ho incontrato uno in Italia, che aveva portato per curarsi: felice, ben accudito, amato…». Proprio quest’entusiasmo di Lilian aveva forse attratto Silvia, giunta via Facebook pochi mesi prima del sequestro e dopo un’esperienza con un’altra onlus, la Orphan’s Dream.
Senza troppa attenzione ad alcune possibili leggerezze organizzative, come ipotizzano i Ros che in questi mesi hanno ascoltato più volte «la Sora Lella» e hanno riscontrato, per esempio, come Silvia fosse in Kenya senza nemmeno uno straccio d’assicurazione per le malattie e gli infortuni («non c’era stato ancora il tempo materiale di fare la polizza», la spiegazione).
La mamma della volontaria milanese non vuole più sentir parlare di Lilian Sora, «da mo’», e la famiglia Romano ha chiesto alla Farnesina di fare qualcosa contro questa onlus che ha mandato «allo sbaraglio» la figlia, lasciandola sola nella savana la notte del sequestro. Lei, Lilian, ha tentato in mille modi e inutilmente di parlare con l’appartamento di via Casoretto: si difende, spiegando che Silvia era rimasta in compagnia di Joseph e d’un altro masai fino al giorno prima, che solo un contrattempo aveva creato quelle ore di buco organizzativo, d’abbandono solitario, in cui s’erano infilati rapidamente gli otto banditi.

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