La testimonianza: l’editoriale di Communio

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È da pochi giorni nelle principali librerie cattoliche il quaderno  che  la rivista teologica Communio ha dedicato al tema della “testimonianza”. Per gentile concessione dell’editore Jaca Book pubblichiamo ampi stralci dell’editoriale.

Editoriale

di

Aldino Cazzago

Il tema della testimonianza è certamente un argomento che si presta a un arricchente affronto di carattere interdisciplinare. Filosofia, teologia, arte, storia – ognuna secondo il proprio punto di vista – offrono a questo soggetto un originale contributo di riflessione e di chiarimento. Il primo torto che si può fare, soprattutto in ambito ecclesiale, è quello di ridurlo al cosiddetto “buon esempio”. La storia dei discepoli di Cristo è per sempre segnata – forse anche come salutare ammonimento per i posteri – dal rinnegamento di Pietro, una autentica contro-testimonianza, al quale non si addice certo la qualifica di «buon esempio». «Gli dissero: “Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?”. Egli lo negò e disse: “Non lo sono”» (Gv 18,25); «Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: “Non conosco quest’uomo di cui parlate”» (Mc 14,71). La «crisi della testimonianza al momento della prova»verrà riscattata da Pietro con il pentimento e la totale offerta al Signore della propria vita («Signore, tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene». (Gv 21,17).

 

 

In verità la posta in gioco, connessa al tema della testimonianza, è molto più grande. […].

La testimonianza: la sua natura e la sua dinamica

Cosa intendiamo, allora, per testimonianza? In via assolutamente generale la testimonianza è l’atto, la modalità per mezzo del quale un fatto, un evento, già accaduti, continuano a trasmettersi e ad essere presenti nel tempo. La Sacra Scrittura è la testimonianza nella forma della parola scritta di una storia di alleanza tra Dio e il suo popolo. Nella Chiesa questa alleanza continua a offrirsi a tutti gli uomini come spazio e possibilità, cioè come testimonianza, di vita nuova.

L’atto della testimonianza, nelle sue più diverse forme, si caratterizza per una duplice funzione e può essere letto secondo una dinamica di tipo sacramentale: quella cioè di comunicare una realtà che sta prima del testimone (e con la quale questi vive una legame di totale comunione), quella di essere per ogni uomo luogo di incontro con una realtà, la cui origine sta “oltre”.

Le parole della liturgia spiegano bene questa dinamica quando, soprattutto nel tempo di Pasqua, chiedono con insistenza che il Padre conceda di «testimoniare nella vita il mistero che celebriamo nella fede». Il mistero, «celebrato nella fede», si comunica e vive, fa sentire i suoi effetti – se è lecito esprimersi così – non in un vuoto pneumatico, ma nella concretezza di una vita intessuta di fede, speranza e carità, e una vita cambiata è per tutti una possibilità di incontro e di apertura a quello stesso mistero di salvezza che solo in un secondo momento e nella libertà sarà dato di «celebrare nella fede».

Volendo offrire un’altra possibile spiegazione della natura della testimonianza, si potrebbe far ricorso alla verità di cui vive l’icona. In essa è il prototipo raffigurato che si fa presente ed è grazie ad essa che il fedele entra in comunione con colui che è rappresentato. Il teologo russo Sergej Bulgakov spiegava il primo aspetto, affermando che «l’icona è il luogo di una presenza di grazia».

e Giovanni Damasceno illustrava il secondo, scrivendo: «Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che è diventato materia a causa mia, nella materia ha accettato di abitare e attraverso la materia ha operato la mia salvezza».

Il genio di un pittore continua a vivere e a parlare grazie alla testimonianza dei suoi quadri e quello di un compositore lo è ogni volta che le sue musiche vengono eseguite.

La testimonianza, quando accade, è sempre anche una «pro-vocazione» alla libertà di chi la incontra. La risposta può essere di accoglienza, di rifiuto o di indifferenza. La storia di molte conversioni e la violenza di tanti persecutori di ieri e di oggi lo mostrano a sufficienza. Oggi, però, si impone una domanda un po’ fastidiosa: «Perché così frequentemente la testimonianza del soggetto ecclesiale sembra destare scarsa o nessuna reazione?».

Il testimone

Resta da affrontare brevemente la questione dell’identità del testimone cristiano. Innanzitutto egli vive una intensa comunione con colui che testimonia o con la verità che è a fondamento della sua vita. Nella logica sacramentale sopra descritta, egli non pretende di sostituire Cristo, il testimoniato, e tuttavia egli può dire con verità le parole di Paolo «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Il testimone è abitato e posseduto dall’amore di Cristo (2Cor 5,14) e mentre fa della sua esistenza un luogo epifanico per il testimoniato, non smette di porsi alla sua sequela. La sua testimonianza è riverbero e irraggiamento della sua sequela.

Ciò che più sta a cuore al testimone è che colui che è al centro della sua vita sia conosciuto e amato; per questo non pensa e non agisce per se stesso. Per lui tutto è occasione di offerta, anche della propria vita, se è necessario. Ieri San Massimiliano Kolbe e ai nostri giorni Shahbaz Bhatti lo hanno mirabilmente mostrato. Ha scritto Bhatti: «Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù. […] Voglio vivere per Cristo e per lui voglio morire».

Nella consapevolezza della distanza che sempre lo separerà da colui che vuole testimoniare, il testimone cristiano troverà un punto di forza per non cadere nel narcisismo e in una riduzione soggettivistica del messaggio che vuole comunicare. Se così non facesse, la sua testimonianza si trasformerebbe in proselitismo, come scriveva nel 1946 Henri de Lubac.

Nel capitolo di Paradossi, intitolato Testimonianza, De Lubac ha scritto: «Niente di eccellente può venir fuori da chi si rivolge dapprima ad un “pubblico”. Il “pubblico” non è un interlocutore. Indirizzandosi ad un “pubblico” non si parla a qualcuno. In ogni ricerca del “pubblico” c’è un artificio, un’insincerità di fondo che vizia in anticipo l’opera trasmessa».

Soggetto primario dell’azione del testimone cristiano non è il «pubblico», ma il singolo uomo, la persona. La Beata Madre Teresa o San Padre Pio hanno incontrato folle di miserabili e semplici uomini, ma la loro unica preoccupazione era di far percepire l’amore di Dio ad ogni singola persona che incontravano. «Non si raggiungono veramente gli uomini – scrive ancora De Lubac – se dapprima non si raggiunge l’uomo».

Quanto abbiamo detto del singolo testimone, vale ancor prima per la comunità cristiana, «il soggetto primario della testimonianza». Anch’essa diviene credibile, quando è luogo in cui Cristo si fa presente; anch’essa testimonia se è posseduta dall’amore per colui che è morto e risorto per tutti (Ef 5,25-29); anche la sua testimonianza non deve avere altra preoccupazione che l’annuncio delle grandi opere di Dio. Infine anche la sua testimonianza condurrà gli uomini a Dio, ma solo se la luce di Cristo risplenderà sul suo volto (Lumen gentium, n. 1).

Alla Chiesa e al discepolo di Cristo che fanno della testimonianza la loro prima vocazione,  si addicono le parole di Hans Urs von Balthasar: «Il rendere testimonianza è ciò che conferisce la forma unitaria a tutto il nostro essere ed agire cristiano».

Communio- Giugno 2012

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