Dopo l’arresto di Paolo Gabriele. Rimettiamo insieme i tasselli

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“Ci sono diversi punti di vista attraverso i quali si può leggere la vicenda. Si possono immaginare motivi di interesse, dispute che stanno a monte della vicenda, e questa è una cosa di cui si parla molto e riguardo la quale ci sono valutazioni diverse. Addirittura, c’è chi la interpreta in modo molto pesante, strutturato in lotte personali di potere. Ma c’è anche chi lo fa con prudenza, e si attiene ai fatti. Ma c’è anche un altro punto di vista: quello che riguarda i documenti posseduti in modo illecito, e tutto quello che comporta la diffusione di questi documenti, e dell’uso che si fa di questi documenti quando vengono diffusi”. A parlare è padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, durante il briefing in cui riporta delle novità riguardo le indagini vaticane su Vatileaks. Non ci sono particolari novità. Ma Lombardi fa capire ai giornalisti che sta monitorando gli articoli. Che nota le ricostruzioni. E, senza dirlo mai esplicitamente, sembra invitare tutti a non farsi strumentalizzare, a guardare al cuore della vicenda.

È il momento di andare oltre l’arresto di Paolo Gabriele, aiutante di Camera di Sua Santità. Perché il suo arresto  è solo il primo dei vari tasselli che gli inquirenti vaticani stanno rimettendo insieme sin dalla prima fuga di documenti dalla Santa Sede. Il fatto che Gabriele abbia detto di voler collaborare, come annunciato dai suoi avvocati e confermato da padre Lombardi porta a delineare scenari più ampi. Da subito si è compreso di essere in presenza non di una normale fuga di documenti, ma di documenti presi direttamente dall’appartamento papale e dalla Segreteria di Stato di Sua Santità. Però i documenti già pubblicati non sarebbero bastati a costituire un vero e proprio atto di accusa. Se è vero che la Città del Vaticano è un mondo piccolo in cui tutti conoscono tutti, altra cosa è accusare qualcuno di aver trafugato documenti dalla casa del Papa e di averli dati a giornalisti. Quando il libro Sua Santità di Gianluigi Nuzzi è stato pubblicato la Santa Sede era pronta a fare i suoi passi. Passi che dovevano essere fatti per la protezione del Papa. E quindi di tutta la Chiesa.

Paolo Gabriele non è “il” colpevole. È il tassello di una operazione sofisticata, che coinvolge in molti, tra le seconde linee della Curia (quelle “eminenze grigie” che restano sempre ai loro posti) e tra quelli che un posto di potere ce l’avevano, e ora non più. L’eredità dei ventisette anni di Giovanni Paolo II è stata particolarmente pesante per Benedetto XVI. Perché chi per anni – con un Papa malato – ha in pratica gestito il potere, poi ha tutto l’interesse a fare sì che il potere rimanga nelle proprie mani.

Mentre gli inquirenti vaticani – coordinati dalla commissione composta dai cardinali Herranz, Tomko e De Giorgi – continuano le loro indagini, è ora di mettere insieme i tasselli. Raccontano che a caldeggiare l’assunzione di Paolo Gabriele sia stato Stanislao Dziwisz, il potente segretario di Giovanni Paolo II. Gabriele è entrato al servizio dell’appartamento come secondo aiutante già alla fine degli anni Novanta, e quando Angelo Gugel è andato in pensione ne ha ereditato l’incarico e l’abitazione in Vaticano. Dziwisz continua ad avere una sua influenza, anche grazie alle carte private di Wojtyla. Prima di morire, il defunto Papa per testamento gli aveva ordinato di bruciarle. Ma l’arcivescovo di Cracovia si era subito affrettato a dire di averle tenute per sé.

C’è chi fa notare che tutte le carte fatte trapelare vanno contro il cardinal Bertone, segretario di Stato di Sua Santità. Bertone è sempre stato sotto attacco. Il Papa ne dovette annunciare la nomina già a giugno del 2006, per superare le pressioni interne, anche se Bertone sarebbe entrato in carica solo a settembre. E si parla di parti della Curia oggi che sono dichiaratamente anti-Bertone. È logico, se queste premesse sono vere, che anche in quella direzione si stanno orientando le indagini.

È sotto gli occhi di tutti che c’è una catena di persone che si dicono fedeli al Papa, ma che allo stesso tempo remano contro il governo della Chiesa. È tra il segretario del Papa, il segretario di Stato, il prefetto della Congregazione dei Vescovi e un aspirante segretario di Stato dell’ultima era Wojtyla che si giocano molte delle assunzioni vaticane degli anni finali del Pontificato di Giovanni Paolo II, abbastanza per garantire a questi personaggi l’accesso a segreti e influenza interna. Si dice che Paolo Gabriele sia solo un capro espiatorio, o un postino fedele che eseguiva ordini superiori. Eppure si vocifera anche che aveva una mole imponente di documenti in casa. “Maria”, la fonte di Nuzzi, racconta di aver cominciato a raccogliere documenti a partire dalla morte di Giovanni Paolo II. Il tempo quadra.

Di più. Il libro spiega anche il rischio che si assumeva la sua fonte a portar fuori documenti. Un eccesso di prudenza che sembrava strano in Vaticano, dove si perquisisce solo per entrare nella Basilica di San Pietro e per gli eventi in presenza del Papa in Piazza San Pietro, ma che allo stesso tempo si giustifica con il ruolo delicatissimo che occupava Gabriele. E si spiega anche il Nuzzi-pensiero, argomentazioni molto raffinate: “mi fa ridere la denuncia di uno Stato che ha inserito l’antiriciclaggio nella sua legislazione appena due anni fa”; “non esiste il reato di ricettazione di notizie”; “il Vaticano compie un’iniziativa oscurantista, dovrebbe invece rispondere alle rogatorie internazionali e non dare scandalo, come è successo nei casi Orlandi e IOR/Ambrosiano”. Tutte affermazioni che restano sospese: non c’è corrispondenza tra ricettazione e legge antiriciclaggio (che tra l’altro il Vaticano ha inserito dopo aver firmato una Convenzione Europea, mentre non era stata richiesta negli accordi bilaterali con l’Italia); non si parla di ricettazione di notizie, ma di carte private, e anche se Nuzzi non ha pagato per ottenerle, di certo sono utilizzate in una pubblicazione a scopo di lucro; i dati dicono che la Santa Sede ha risposto a tutte le rogatorie internazionali, tranne quando ha rivendicato la sua sovranità, e le rogatorie su cui insiste Nuzzi – quelle del giudice Tescaroli sul caso IOR/Ambrosiano – non sono mai arrivate a destinazione, anche perché non rispondevano ai requisiti formali di una rogatoria internazionale.

Dalla tesi difensiva di Nuzzi, sembra dipanarsi una strategia, che vede la vecchia guardia alleata con forze che vogliono solo sfruttare gli scandali della Chiesa per testimoniare che la sovranità dello Stato di Città del Vaticano è una cosa antiquata, da superare. E che il Papa sarebbe bene si rinchiudesse in una torre d’avorio (o meglio ancora che rinunciasse “per il bene della Chiesa”). Più preghiera, meno diplomazia. Anzi, niente diplomazia. Che la Chiesa parli solo ai credenti. Sarebbe davvero questo il bene della Chiesa?

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