Evangelizzare la Cina si può?

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Nelle fluttuanti fortune della situazione della Chiesa in Cina, il 2011 sarà forse segnato come un importante anno di passaggio. È iniziato con un’apertura diplomatica di Benedetto XVI nel consueto discorso di inizio anno agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede. Dopo aver parlato del caso della Cina, Benedetto XVI aveva fatto l’esempio di Cuba, una nazione comunista che mantiene comunque da più di tre quarti di secolo relazioni diplomatiche con la Santa Sede. E poi, il Papa ha citato i positivi sviluppi avvenuti in Vietnam, dove le autorità “hanno accettato che io designi un Rappresentante, che esprimerà con le sue visite alla cara comunità cattolica di quel Paese la sollecitudine del Successore di Pietro”. Una soluzione, questa, auspicata anche tra le righe anche per la Cina: non implica relazioni diplomatiche tra gli Stati, ma il permesso dello Stato per i cattolici di avere relazioni con le gerarchie ecclesiastiche, assicurando in questo modo la libertà religiosa.

 

Una “soluzione creativa” che però si è in qualche modo arenata. Mentre sono andati avanti i rapporti con Cuba – il Papa ha visitato l’isola lo scorso marzo – e con il Vietnam – dove una delegazione della Segreteria di Stato è stata di recente in visita. E questo anche perché, proprio nel fatidico 2011, sono ricominciate le ordinazioni illegittime. L’Agenzia Statale per gli Affari Religiosi ha scelto due sacerdoti, d’accordo con l’Associazione Patriottica, e ha proceduto all’ordinazione episcopale senza l’approvazione papale – la Santa Sede infatti aveva dichiarato che quei candidati non potevano essere accettati, perché non idonei. Erano i mesi di giugno e luglio 2011. La Santa Sede ha risposto con la dichiarazione di scomunica per i due ordinati. E ha poi ammonito i vescovi che parteciparono alle celebrazioni in aperta disobbedienza alla legge canonica a spiegare e giustificare il loro comportamento, che crea imbarazzo e divisione nelle rispettive comunità. “Il pericolo è ora – ha detto padre Angelo Lazzarotto, 86 anni, missionario del Pime, in un’intervista rilasciata al mensile Mondo e missione – che le autorità comuniste, manipolando il gruppo dei cattolici dell’Associazione patriottica, riescano a ripetere questo gesto di rottura dell’unità ecclesiale, e questo a lungo andare potrebbe creare una situazione insostenibile”.

Il comunicato diramato alla chiusura della riunione della Commissione per la Chiesa di Cina – riunitasi in Vaticano dal 23 al 25 aprile – ha puntato sull’evangelizzazione, che ha bisogno di laici profondamente formati, di sacerdoti e religiosi che diano “luminosa testimonianza” evangelica e di “buoni vescovi”, e “non può avvenire sacrificando elementi essenziali della fede e della disciplina cattolica”. Ma nel comunicato veniva anche stigmatizzata la pretesa di “organismi” di “porsi al di sopra dei vescovi e di guidare la vita della comunità ecclesiale”, dalle ordinazioni illegittime di vescovi e la prigionia di alcuni di loro, alla diminuzione delle vocazioni sacerdotali.  Di vocazioni parlava Propaganda Fide sin dalla sua fondazione, e in particolare a partire dalle Instructiones di Adriano VII, che – già nel 1659 – raccomandava la formazione di clero autoctono

Ma forse oggi ci si deve chiedere soprattutto perché le relazioni di Pechino e Vaticano sono così incrinate. E perché ai tempi di Matteo Ricci l’evangelizzazione della Cina sembrava un qualcosa di possibile e vivo, mentre oggi tutto sembra essersi complicato. Nel Seicento, i missionari occidentali – specialmente gesuiti –che avevano avuto contatti con la raffinata corte di Pechino e con i ceti alti della società cinese contribuirono a diffondere in Europa una grande ammirazione per quel Paese e per quella civiltà. Poi venne la colonizzazione. Alla fine del Settecento, la Gran Bretagna introdusse in Europa un’immagine diversa della Cina: Paese arretrato, corrotto, governato da gente inaffidabile. Le affermazioni inglesi trovarono gioco facile in una Cina che viveva una fase di grande decadenza, cominciata nel XIX secolo, che porterà alla caduta della dinastia Qing e alla proclamazione delle Repubblica nel 1911.

Sono processi da cui non sono estranee le Chiese. Se prima penetrare in Cina era difficile per i missionari, e richiedeva un grande lavoro di mediazione tra le culture, le guerre dell’oppio, dalla metà dell’Ottocento, segnano una stagione di maggiore libertà d’azione per i religiosi stranieri, e vi arrivano a frotte, cattolici e protestanti. Una libertà di azione che si inserisce in un rinnovato slancio missionario della Chiesa tutta, che tocca il suo culmine sotto Leone XIII. Sono migliaia i missionari europei che si trasferiscono in Cina. Entrano in contatto non con i ceti alti, ma con uomini e donne che non erano mai usciti dai loro villaggi e ce non avevano mai incontrato neanche cinesi di altre regioni. Ma erano anche missionari che non conoscevano la lingua, si muovevano sulla base di valutazioni inadeguate delle tradizioni religiose locali, non comprendevano neanche la struttura della società cinese. Il divario con i missionari guidati da padre Matteo Ricci era evidente. E in Cina – dove padre Matteo Ricci era addirittura venerato –  avvertirono questa differenza in maniera quasi dolorosa. Anche perché i nuovi missionari non riuscivano a familiarizzare nemmeno con i fedeli o i sacerdoti cinesi e i religiosi stranieri. Contrariamente a quanto chiesto da Adriano VII, affidavano con riluttanza le responsabilità pastorali e amministrative agli indigeni. Pensavano che l’identità cinese fosse così forte da ostacolare l’evangelizzazione.

E cosa successe dal punto di vista cinese? Gli yang guizi, i diavoli stranieri – così i cinesi chiamano coloro che vengono da fuori – assunsero per la prima volta il carattere aggressivo e minaccioso dei colonizzatori. I missionari erano arrivati con le potenze colonizzatrici, ed erano protetti dalla Francia. Facile, per gli abitanti dello Zhongguo, cioè il Paese di mezzo, ovvero il centro del mondo (così i cinesi chiamano la Cina) identificarli con i portatori degli interessi occidentali.

A tutto questo si sono aggiunte le difficoltà culturali. Padre Joseph Gabet, lazzarista e missionario in Cina, scrisse a Papa Pio IX nel 1847: “I cinesi credono comunemente che il Dio dei cristiani sia un monarca europeo e i missionari stranieri siano inviati per procurargli nuovi sudditi”. Era una credenza normale in Cina, dove l’imperatore, figlio del cielo, era la massima autorità sia politica ce religiosa, e non era per niente comprensibile la distinzione tra potere temporale e potere spirituale.

Una difficoltà che si trascina ancora oggi, e che è evidente nei problemi che ci sono nel tradurre in cinese alcuni termini cattolici. Papa, per esempio, in cinese si traduce jiaohuang o jiaozong. Ovvero, letteralmente: imperatore della religione, capo degli affari religiosi. Santa Sede si traduce con jiao ting, dove jiao significa religione e ting e il carattere usato per indicare la corte imperiale. Sono termini che richiamano una dimensione politica, e hanno in sé un’ambiguità. Così, per i cinesi la nomina dei vescovi non riguarda la libertà religiosa. Riguarda piuttosto il fatto che un capo di Stato straniero nomina i suoi rappresentanti nel territorio cinese. Se si aggiunge poi il fatto che i cinesi sono un popolo fortemente materialista (e non solo a causa dei sessanta anni di marxismo, ma anche a causa del fatto che confucianesimo e buddhismo, le due credenze più diffuse, non hanno una vera e propria dottrina dell’aldilà) si comprende la radice della difficoltà della Chiesa cattolica in Cina.

Eppure, qualcosa in Cina si è incrinato quando il governo represse la setta Falun Gong, che si ispirava a riti maoisti e buddisti e faceva presa sul degrado morale diffuso. Nel giudicare “diabolica” la setta, il governo spingeva verso le religioni tradizionali, considerate non più “l’oppio dei popoli” (come nella dottrina marxista), ma una via di conforto nelle avversità.

Sei decenni di filosofia e giogo comunista non sembrano di aver chiuso ogni ponte sulla religiosità. Un sondaggio del 2008 del Pew Forum on Religion and Public Life ha concluso che il 31 per cento della popolazione cinese considera la religione molto o in qualche modo importante nella sua vita. Quanto può la religione cattolica diffondersi in Cina? “In Cina – spiega il cardinale Zen – ci sono due tendenze: da una parte, una forte secolarizzazione, dall’altra, un senso religioso molto diffuso”.

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