25 aprile: il martirio dei sacerdoti per la libertà

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Il 25 aprile per l’Italia è una data importante, in quanto si ricorda la ‘Liberazione’ rappresenta un giorno fondamentale per la storia della Repubblica Italiana: la fine dell’occupazione nazifascista, avvenuta il 25 aprile 1945, al termine della seconda guerra mondiale. Convenzionalmente fu scelta questa data perché il 25 aprile 1945 fu il giorno della liberazione di Milano e Torino. Entro il 1º maggio, poi, tutta l’Italia settentrionale fu liberata: Bologna (il 21 aprile), Genova (il 26 aprile), Venezia (il 28 aprile). La Liberazione mette così fine a venti anni di dittatura fascista e da cinque di guerra e simbolicamente rappresenta l’inizio di un percorso storico che porterà poi al referendum del 2 giugno 1946 per la scelta fra monarchia e repubblica prima e alla nascita della Repubblica Italiana poi.  In questa storia italiana è opportuno anche ricordare la partecipazione di tanti cattolici alla Resistenza, ma soprattutto l’uccisione di tanti sacerdoti da parte dei nazisti, dei fascisti o dei loro alleati in Europa.

In Germania furono uccisi 164 preti diocesani e 60 religiosi, molti dei quali morti nei campi di sterminio. Ci furono preti uccisi anche nella Francia di Petain e nell’Italia fascista, nell’Olanda e nel Belgio occupati dai tedeschi e in tanti altri Paesi europei. In Italia, molti preti furono uccisi per ragioni connesse alle attività pastorali proprie del loro ministero. Le loro vicende mostrano anzitutto i profondi legami che univano il clero e la popolazione: vivendo in mezzo ai loro fedeli, cercarono di proteggerli dalla violenza e di alleviarne le sofferenze. Moltissimi furono i preti uccisi per aver nascosto o salvato ebrei. L’esempio più bello, immortalato dal cinema, è stato quello di don Pietro Morosini, legato alla Resistenza romana, ma che non fu un ‘semplice’ avversario politico e militare del nazifascismo.

A tale proposito è opportuno ricordare anche il valore civile e letterario prodotto dai sacerdoti nella lotta per la liberazione, come l’esempio di don Luisito Bianchi, prete partigiano, sacerdote, scrittore e poeta, scomparso a gennaio scorso ed autore del libro ‘La messa dell’uomo disarmato’, che è diventato un caso editoriale. Nel 1975, quando la madre si ammala, don Luisito si licenzia dall’Ospedale Galeazzi per seguirla: “Lavoravo come traduttore, ma avevo molto tempo libero. È stata quella l’occasione per riflettere sugli eventi che avevano dato senso alla mia vita. Ho iniziato ad ascoltarmi, quindi a scrivere. Più di mille pagine, con un titolo provvisorio: Una Resistenza”. Il romanzo è rifiutato da molti editori e esce in un’edizione autofinanziata da alcuni amici, tra il 1989 e il 1995.

Moltissimi sono stati i lettori di questo romanzo sulla Resistenza, assai corposo, di stampo manzoniano, passato di mano in mano, al riparo dai clamori editoriali, creando una specie di ‘coro’ di estimatori di quello che si può definire ‘un capolavoro’ della nostra recente narrativa che i lettori hanno potuto finalmente conoscere grazie alla collana di Giulio Mozzi, diretta per l’editore Sironi che accetta la sfida di far conoscere il testo e lo pubblica nel 2003, suscitando subito un coro unanime di consensi da parte della critica e facendolo diventare uno dei titoli di punta del suo catalogo, una sorta di long-seller. E’ un romanzo che inizialmente don Luisito voleva intitolare ‘Grazie’, perché recuperava il valore della memoria, tema assai caro al prete-scrittore che diceva: “La memoria è il puntino impercettibile che salda il cerchio della vita e mi fa dire, come succo di queste storie di vecchio lunario: vivere, ne valeva la pena”.

Il libro si può considerare il maggiore racconto della lotta partigiana narrata dal punto di vista cristiano. E come romanzo della memoria, questa maestosa opera vuole essere in primo luogo un sincero rendimento di grazie a quanti contribuirono a rifondare l’Italia anche con il sacrificio della vita. Allo stesso modo vuole essere un invito a interpretare la Resistenza in maniera decisamente originale, ovvero come una manifestazione, sia pure faticosa, della Parola: “Tutto, ha scritto Bianchi, doveva essere ascoltato. Una parola inesauribile richiede un ascolto incessante; e la parola era dappertutto, penetrava ovunque: nell’avvenimento, con la rapidità folgorante del lampo, nella tessitura dei gesti quotidiani, violenta come un terremoto o suadente come la brezza”.

L’incipit del libro mostra la passione civile dell’autori: “La guerra scoppiò quando il frumento cominciava ad avvolgersi della sua veste di grazia e le ultime more sui gelsi morivano di troppa dolcezza. Tutta la gente del paese doveva essere presente in piazza davanti al municipio, sul cui balcone il podestà aveva acceso la radio a tutto volume. Toni non c’era, e nemmeno il fabbro, il professore, l’arciprete e Rondine, il nostro martire. Io c’ero. Dovevo rappresentare anche mio padre; due erano troppi, ma uno era necessario, mi aveva detto”. Nel libro emerge soprattutto la resistenza dei cristiani, come esperienza estrema che mette in conflitto passione umana e fedeltà alla Parola.

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