Il papa celebra la messa a Nicosia.”Il mondo ha bisogno della croce”, “simbolo di speranza”.
E’ nella Chiesa parrocchiale latina di Santa Croce a Nicosia che il papa celebra la Santa Messa che chiude la seconda giornata di visita a Cipro. Trecentocinquanta i presenti, in una chiesa relativamente piccola, che da la possibilità a Benedetto XVI di incontrare i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, le suore e i laici impegnati.
“Il mondo ha bisogno della croce”, dice loro il papa, perché “offre speranza senza limiti al nostro mondo decaduto”. Evidentemente il papa non parla solo a Cipro, e spiega che la croce “non è semplicemente un simbolo privato di devozione, non è un distintivo di appartenenza a qualche gruppo all’interno della società, ed il suo significato più profondo non ha nulla a che fare con l’imposizione forzata di un credo o di una filosofia”.
La croce, continua, “parla di speranza, parla di amore, parla della vittoria della non violenza sull’oppressione, parla di Dio che innalza gli umili, dà forza ai deboli, fa superare le divisioni, e vincere l’odio con l’amore. Un mondo senza croce sarebbe un mondo senza speranza, un mondo in cui la tortura e la brutalità rimarrebbero sfrenati, il debole sarebbe sfruttato e l’avidità avrebbe la parola ultima. L’inumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo si manifesterebbe in modi ancor più orrendi, e non ci sarebbe la parola fine al cerchio malefico della violenza. Solo la croce vi pone fine”.
E’ forte e densa l’omelia del papa, che non esita a parlare delle ragioni che spingono in molti a osteggiare tale simbolo. “Molti potrebbero essere tentati di chiedere perché noi cristiani celebriamo uno strumento di tortura, un segno di sofferenza, di sconfitta e di fallimento – dice il papa – E’ vero che la croce esprime tutti questi significati. E tuttavia a causa di colui che è stato innalzato sulla croce per la nostra salvezza, rappresenta anche il definitivo trionfo dell’amore di Dio su tutti i mali del mondo”. In più, aggiunge, “vediamo chiaramente che l’uomo non può salvare se stesso dalle conseguenze del proprio peccato. Non può salvare se stesso dalla morte. Soltanto Dio può liberarlo dalla sua schiavitù morale e fisica”. E quindi, “il legno della croce divenne lo strumento per la nostra redenzione, proprio come l’albero dal quale era stato tratto aveva originato la caduta dei nostri progenitori. La sofferenza e la morte, che erano conseguenze del peccato, divennero il mezzo stesso attraverso il quale il peccato fu sconfitto”.
“La croce, pertanto – ammonisce il papa – è qualcosa di più grande e misterioso di quanto a prima vista possa apparire”, perché “esprime la completa trasformazione, la definitiva rivincita su questi mali, e questo lo rende il simbolo più eloquente della speranza che il mondo abbia mai visto. Parla a tutti coloro che soffrono, gli oppressi, i malati, i poveri, gli emarginati, le vittime della violenza, ed offre loro la speranza che Dio può trasformare la loro sofferenza in gioia, il loro isolamento in comunione, la loro morte in vita”.
Benedetto XVI invita tutti a farsi portatori di questo “messaggio della croce”, perché “è stato affidato a noi, così che possiamo offrire speranza al mondo”. In particolare il papa si rivolge ai sacerdoti, nell’Anno sacerdotale che ormai volge a termine, chiedendo di “imitare l’amore disinteressato di colui che offrì se stesso per noi sull’altare della croce, di colui che è allo stesso tempo sacerdote e vittima, di colui nella cui persona parliamo ed agiamo quando esercitiamo il ministero ricevuto. Nel riflettere sulle nostre mancanze, sia individualmente sia collettivamente, riconosciamo umilmente di aver meritato il castigo che lui, l’Agnello innocente, ha patito in nostra vece”.
Un pensiero forte, Benedetto XVI lo dedica ai “molti sacerdoti e religiosi del Medio Oriente che stanno sperimentando in questi momenti una particolare chiamata a conformare le proprie vite al mistero della croce del Signore”. “Dove i cristiani sono in minoranza – aggiunge -, dove soffrono privazioni a causa delle tensioni etniche e religiose, molte famiglie prendono la decisione di andare via, e anche i pastori sono tentati di fare lo stesso. In situazioni come queste, tuttavia, un sacerdote, una comunità religiosa, una parrocchia che rimane salda e continua a dar testimonianza a Cristo è un segno straordinario di speranza non solo per i cristiani, ma anche per quanti vivono nella Regione. La loro sola presenza è un’espressione eloquente del Vangelo della pace, della decisione del Buon Pastore di prendersi cura di tutte le pecore, dell’incrollabile impegno della Chiesa al dialogo, alla riconciliazione e all’amorevole accettazione dell’altro. Abbracciando la croce loro offerta, i sacerdoti e i religiosi del Medio Oriente possono realmente irradiare la speranza che è al cuore del mistero che celebriamo nella liturgia odierna”.