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Natale di speranza: il coraggio silenzioso delle madri dimenticate

In attesa del Natale, il mio cuore è rivolto a tutte le mamme che, in questo periodo, mi hanno cercato, contattato e incontrato. Sono donne che portano con sé un dolore profondo, nei cui volti si leggono i segni di una sofferenza che, a volte, sembra non avere fine. Si trovano ad affrontare momenti di grande difficoltà, segnati dalla solitudine e dalla disperazione. Sono mamme che spesso portano sulle spalle il peso insostenibile del senso di colpa, donne che si sentono inadeguate e che convivono con il cuore ferito per un figlio smarrito, inghiottito dal buio di un bosco diabolico che sembra non avere vie d’uscita.
Ho incontrato madri che vivono questo dolore in completa solitudine, lontane dalle attenzioni istituzionali, abbandonate dalle parole di conforto e, a volte, ferite ulteriormente da sguardi giudicanti. Ho sofferto con loro. Ho condiviso l’angoscia di quei lunghi momenti di attesa, aspettando un messaggio, una telefonata. Ho visto la loro disperazione mentre cercavano un figlio tra le sterpaglie di quel bosco maledetto, un luogo che sembra non conoscere speranza.
Sono state mamme che hanno provato in tutti i modi a portare i loro figli lungo un percorso di recupero, a dar loro una possibilità di salvezza, ma …. Mamme che hanno lottato, che hanno cercato aiuto, che hanno insistito per dare ai loro figli una chance di rialzarsi, senza mai arrendersi. Eppure, nonostante ogni tentativo, ogni sacrificio, si sono trovate a dover affrontare la realtà di un cammino difficile, che sembrava non portare a nulla.
Madri che hanno visto i loro ragazzi spegnersi sotto il peso della droga, della disperazione, e a quelle che non ricevono notizie dei propri figli da mesi, forse da anni. Madri che appendono volantini con le foto dei loro figli scomparsi, madri che attraversano il freddo e l’oscurità dei boschi come quello di Rogoredo, sfidando la paura e i venditori di morte, pur di intravedere ancora, anche solo per un istante, lo sguardo di un figlio amato.
Queste sono storie troppo spesso dimenticate, vite spezzate troppo presto. Eppure, quei figli restano impressi per sempre nel cuore di chi li ha amati, perché l’amore di una madre non si arrende mai. Eppure, anche in questo buio che sembra senza fine, credo ancora nella speranza. Credo che, persino nei luoghi più oscuri, possa accendersi una piccola luce, una luce capace di ricordarci che non tutto è perduto. Anche nel dolore più profondo è possibile trovare la forza di rialzarsi, di ricominciare, di sperare ancora.
A queste mamme coraggiose e sofferenti va il mio pensiero più sincero. Che possano trovare, dentro di loro, la forza di continuare a camminare, anche sotto il peso della loro croce. Che la luce di questo Natale, con il suo messaggio di rinascita, entri nei loro cuori, illumini le notti più buie e porti conforto e speranza.
A quelle madri che lottano senza tregua, che non dormono più, che si sentono sfinite e senza più forze, voglio dire con tutto il cuore: non arrendetevi mai, sono con voi! Anche quando il cuore si spezza, anche quando tutto sembra perduto, c’è sempre una ragione per sperare. Perché l’amore di una madre può vincere il buio e diventare quella luce che guida, passo dopo passo, un figlio smarrito verso casa.
Auguro a queste donne e ai loro figli, ovunque si trovino, che questo Natale porti con sé un soffio di speranza, un sorriso inatteso e una nuova forza per credere in un domani migliore. Perché, anche nei momenti più difficili, la vita non smette mai di sorprenderci con la sua capacità di rinascere.
Papa Francesco ai cardinali: mettere al centro Cristo

Nella basilica di san Pietro, Francesco ha presieduto il Concistoro per la creazione di 21 cardinali con l’invito è a non lasciarsi abbagliare dal fascino del prestigio, dalla seduzione del potere e dell’apparenza, ma a poggiare la vita sul vero ‘cardine’, che è Gesù, in questo decimo concistoro di papa Francesco, prendendo a riferimento il vangelo dell’apostolo Marco nel momento più drammatico della sua vita:
“Pensiamo un po’ a questa narrazione: Gesù sta salendo verso Gerusalemme. La sua non è un’ascesa alla gloria di questo mondo, ma alla gloria di Dio, che comporta la discesa negli abissi della morte. Nella Città santa, infatti, Egli morirà sulla croce, per ridare la vita a noi. Eppure, Giacomo e Giovanni, che immaginano invece un destino diverso per il loro Maestro, avanzano la loro richiesta e gli chiedono due posti d’onore: ‘Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra’ (Mc 10,37)”.
E’ lo scontro tra due mentalità, che mostrano l’instabilità della persona umana, citando Alessandro Manzoni: “Il Vangelo mette in luce questo drammatico contrasto: mentre Gesù sta facendo una strada faticosa e in salita che lo porterà al Calvario, i discepoli pensano alla strada spianata e in discesa del Messia vincitore. E non dobbiamo scandalizzarci di questo, ma prendere umilmente coscienza che, per dirlo col Manzoni, ‘così è fatto questo guazzabuglio del cuore umano’ (I promessi sposi, cap. 10). Così è fatto”.
E, citando sant’Agostino che invita a tornare al ‘cuore’, papa Francesco ha messo in allerta i neo cardinali: “Questo può succedere anche a noi: che il nostro cuore perda la strada, lasciandosi abbagliare dal fascino del prestigio, dalla seduzione del potere, da un entusiasmo troppo umano per il nostro Signore. Per questo è importante guardarci dentro, metterci con umiltà davanti a Dio e con onestà davanti a noi stessi, e chiederci: dove sta andando il mio cuore?
Dove sta andando il mio cuore oggi? In quale direzione si muove? Forse sto sbagliando strada? Tornare al cuore per rimettersi sulla stessa strada di Gesù, di questo abbiamo bisogno. Ed oggi, in particolare a voi, cari Fratelli che ricevete il cardinalato, vorrei dire: badate bene a fare la strada di Gesù. E cosa significa questo?”
Papa Francesco ha avvertito la necessità di mettere al centro l’essenziale: “Fare la strada di Gesù significa anzitutto ritornare a Lui e rimettere Lui al centro di tutto. Nella vita spirituale come in quella pastorale, rischiamo a volte di concentrarci sui contorni, dimenticando l’essenziale. Troppo spesso le cose secondarie prendono il posto di ciò che è necessario, le esteriorità prevalgono su quello che conta davvero, ci tuffiamo in attività che riteniamo urgenti, senza arrivare al cuore.
E, invece, abbiamo sempre bisogno di ritornare al centro, di recuperare il fondamento, di spogliarci di ciò che è superfluo per rivestirci di Cristo. Anche la parola ‘cardine’ ci richiama a questo, indicando il perno su cui viene inserito il battente di una porta: è un punto fermo di appoggio, di sostegno. Ecco, cari fratelli: Gesù è il punto d’appoggio fondamentale, il centro di gravità del nostro servizio, il ‘punto cardinale’ che orienta tutta la nostra vita”.
E’ stato un invito ad incontrare le persone: “Fare la strada di Gesù significa anche coltivare la passione dell’incontro. Gesù non fa mai la strada da solo; il suo legame con il Padre non lo isola dalle vicende e dal dolore del mondo. Al contrario, proprio per curare le ferite dell’uomo e alleggerire i pesi del suo cuore, per rimuovere i macigni del peccato e spezzare le catene della schiavitù, proprio per questo Egli è venuto. E, così, lungo la strada, il Signore incontra i volti delle persone segnate dalla sofferenza, si fa vicino a coloro che hanno perduto la speranza, solleva quanti sono caduti, guarisce chi è nella malattia. Le strade di Gesù sono popolate di volti e di storie e, mentre passa”
La prospettiva di papa Francesco è chiara e l’ha supportata con una citazione di don Primo Mazzolari: “L’avventura della strada, la gioia dell’incontro con gli altri, la cura verso i più fragili: questo deve animare il vostro servizio di cardinali. L’avventura della strada, la gioia dell’incontro con gli altri e la cura verso i più fragili… Non dimentichiamo che stare fermi rovina il cuore e l’acqua ferma è la prima a corrompersi”.
Percorrere la strada di Gesù vuole dire diventare ‘costruttori di unità’, in quanto è un invito a non evitare la ‘croce’: “Fare la strada di Gesù significa, infine, essere costruttori di comunione e di unità. Mentre nel gruppo dei discepoli il tarlo della competizione distrugge l’unità, la strada che Gesù percorre lo porta sul Calvario.
E sulla croce Egli compie la missione che gli è stata affidata: che nessuno vada perduto, che venga finalmente abbattuto il muro dell’inimicizia e tutti possiamo scoprirci figli dello stesso Padre e fratelli tra di noi. Per questo, posando il suo sguardo su di voi, che provenite da storie e culture diverse e rappresentate la cattolicità della Chiesa, il Signore vi chiama a essere testimoni di fraternità, artigiani di comunione e costruttori di unità. Questa è la vostra missione!”
Citando le parole di san Paolo VI nel Concistoro del 1977, papa Francesco ha invitato i cardinali a seguire Gesù: “Animati da questo spirito, cari Fratelli, voi farete la differenza; secondo le parole di Gesù che, parlando della competizione corrosiva di questo mondo, dice ai discepoli: ‘Tra voi però non è così’. Ed è come se dicesse: venite dietro a me, sulla mia strada, e sarete diversi; venite dietro a me e sarete un segno luminoso in una società ossessionata dall’apparenza e dalla ricerca dei primi posti. ‘Tra voi non sia così’, ripete Gesù: amatevi l’un l’altro con amore fraterno e siate servi gli uni degli altri, servi del Vangelo”.
Ultimo atto di questa intensa giornata è stato il messaggio per l’inaugurazione della cattedrale di Notre Dame a Parigi, letto dal Nunzio Apostolico in Francia, mons. Celestino Migliore, in cui è stato ricordato il lavoro di tutti coloro che hanno reso possibile questo momento: “Rendo omaggio a tutti coloro, in particolare ai vigili del fuoco, che hanno lavorato coraggiosamente per salvare questo monumento storico dal naufragio. Rendo omaggio al deciso impegno delle autorità pubbliche e alla grande effusione di generosità internazionale che ha contribuito alla restaurazione. Questo slancio è un segno non solo di attaccamento all’arte e alla storia, ma anche di più (e quanto è incoraggiante!) il segno che il valore simbolico e sacro di un simile edificio è ancora ampiamente percepito, dal più piccolo al più grande”.
Ed ha ringraziato anche gli artigiani, che hanno riportato alla bellezza la cattedrale parigina: “Rendo omaggio anche allo straordinario lavoro dei tanti mestieri che hanno investito, dando generosamente il meglio di sé per riportare Notre-Dame al suo splendore. E’ bello e rassicurante che il saper fare di una volta sia stato sapientemente conservato e migliorato. Ma è ancora più bello che tanti lavoratori e artigiani abbiano testimoniato di aver vissuto questa avventura di restauro in un autentico approccio spirituale. Hanno seguito le orme dei loro padri la cui fede, vissuta nel loro lavoro, è stata l’unico modo per costruire un capolavoro dove nulla di profano, incomprensibile o volgare trova posto”.
E’ stato un invito per i francesi ad apprezzare questo patrimonio quale è Notre Dame: ““La rinascita di questa ammirevole Chiesa costituisca dunque un segno profetico del rinnovamento della Chiesa in Francia. Invito tutti i battezzati che entreranno con gioia in questa Cattedrale a provare un legittimo orgoglio e a riappropriarsi del proprio patrimonio di fede. Cari fedeli di Parigi e della Francia, questa residenza, in cui abita il nostro Padre celeste, è vostra; tu sei le sue pietre vive. Coloro che ti hanno preceduto nella fede lo hanno costruito per te: le innumerevoli rappresentazioni e simboli che contiene vogliono guidarti con maggiore sicurezza verso l’incontro con Dio fatto uomo e alla riscoperta del suo immenso amore”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco ai giovani: non avete paura

“Domani il Myanmar celebra la festa nazionale in ricordo della prima protesta studentesca che avviò il Paese verso l’indipendenza e nella prospettiva di una stagione pacifica e democratica che ancora oggi fatica a realizzarsi. Esprimo la mia vicinanza all’intera popolazione del Myanmar, in particolare per quanti soffrono per i combattimenti in corso, soprattutto i più vulnerabili: bambini, anziani, malati, rifugiati, tra i quali i Rohingya. A tutte le parti coinvolte rivolgo un accorato appello affinché tacciano le armi, si apra un dialogo sincero, inclusivo, in grado di assicurare una pace duratura”: così al termine della recita dell’Angelus papa Francesco ha invitato a pregare per la pace nel Myanmar, che domani commemora l’anniversario del primo sciopero degli universitari nel 1920.
Il mondo basato sulla violenza è debole senza salvezza: “Il ‘mondo’ di Ponzio Pilato è quello dove il forte vince sul debole, il ricco sul povero, il violento sul mite, cioè un mondo che purtroppo conosciamo bene. Gesù è Re, ma il suo regno non è di quel mondo, anche non è di questo mondo. Il mondo di Gesù, infatti, è quello nuovo, quello eterno, che Dio prepara per tutti donando la sua vita per la nostra salvezza. E’ il regno dei cieli, che Cristo porta sulla terra effondendo grazia e verità…
Fratelli e sorelle, Gesù parla a Pilato da molto vicino, ma questi gli resta lontano, perché abita in un mondo diverso. Pilato non si apre alla verità, anche se ce l’ha di fronte. Farà crocifiggere Gesù, e ordinerà di scrivere sulla croce: ‘Il re dei Giudei’, ma senza capire il senso di questa parola: ‘Re dei Giudei’, di quelle parole. Eppure il Cristo è venuto nel mondo, questo mondo: chi è dalla verità, ascolta la sua voce. E’ la voce del Re dell’universo, che ci salva”.
Inoltre ha invitato i giovani a partecipare alla GMG di Seul: “Oggi si celebra, nelle Chiese particolari, la 39ª Giornata Mondiale della Gioventù, sul tema: Quanti sperano nel Signore camminano senza stancarsi (Is 40,31). Anche i giovani si stancano delle volte, se non sperano nel Signore! Saluto le delegazioni del Portogallo e della Corea del Sud, che hanno fatto il passaggio del ‘testimone’ nel cammino verso la GMG di Seoul nel 2027”.
Infine ha ribadito le date dei due santi ‘giovani’: “Come ho già annunciato, il 27 aprile prossimo, nel contesto del Giubileo degli Adolescenti, proclamerò Santo il Beato Carlo Acutis. Inoltre, informato dal Dicastero delle Cause dei Santi che sta per concludersi positivamente l’iter di studio della Causa del Beato Pier Giorgio Frassati, ho in animo di canonizzarlo il 3 agosto prossimo durante il Giubileo dei Giovani, dopo aver ottenuto il parere dei cardinali”.
E nella celebrazione eucaristica di Cristo Re dell’Universo papa Francesco ha sottolineato in cosa consiste il Regno di Dio: “E’ una contemplazione che eleva ed entusiasma. Se però poi ci guardiamo attorno, quello che vediamo appare diverso, e in noi possono sorgere interrogativi inquietanti. Cosa dire delle guerre, delle violenze, dei disastri ecologici? E che pensare dei problemi che anche voi, cari giovani, dovete affrontare, guardando al domani: la precarietà del lavoro, l’incertezza economica e non solo, le divisioni e le disparità che polarizzano la società? Perché succede tutto questo? E cosa possiamo fare per non esserne schiacciati? E’ vero, si tratta di domande difficili, ma sono domande importanti”.
Nell’omelia il papa ha evidenziato le accuse a Gesù: “Il Vangelo odierno ci presenta Gesù nei panni dell’imputato… Però sa che la gente lo segue, ritenendolo una guida, un maestro, il Messia, e il Procuratore non può permettere che qualcuno crei scompiglio e turbamento nella ‘pace militarizzata’ del suo distretto. Perciò accontenta i nemici potenti di questo profeta indifeso: lo processa e minaccia di condannarlo a morte. E Lui, che ha sempre e solo predicato la giustizia, la misericordia e il perdono, non ha paura, non si lascia intimidire, e nemmeno si ribella: Gesù rimane fedele alla verità che ha annunciato, fedele fino al sacrificio della vita”.
Quindi ha chiesto ai giovani di non aver paura: “Cari giovani, forse a volte può capitare anche a voi di essere messi “sotto accusa” per il fatto di seguire Gesù. A scuola, tra amici, negli ambienti che frequentate, ci può essere chi vuole farvi sentire sbagliati perché siete fedeli al Vangelo e ai suoi valori, perché non vi omologate, non vi piegate a fare come tutti gli altri. Voi, però, non abbiate paura delle ‘condanne’, non preoccupatevi: prima o poi le critiche e le accuse false cadono e i valori superficiali che le sostengono si rivelano per quello che sono, illusioni. Care giovani e cari giovani, state attenti a non lasciarvi ubriacare dalle illusioni. Per favore, siate concreti. La realtà è concreta. State attenti alle illusioni”.
L’altro monito riguarda il ‘consenso’: “E anche a voi, giovani cari, farà bene seguire il suo esempio, non lasciandovi contagiare dalla smania (oggi tanto diffusa), la smania di essere visti, approvati e lodati. Chi si lascia prendere da queste fissazioni, finisce col vivere nell’affanno. Si riduce a ‘sgomitare’, competere, fingere, scendere a compromessi, svendere i propri ideali pur di avere un po’ di approvazione e di visibilità. Per favore, state attenti a questo. La vostra dignità non è in vendita. Non si vende! State attenti”.
E’ stato un invito ad essere ‘trasparenti’: “Non siate ‘stelle per un giorno’ sui social o in qualsiasi altro contesto. Il cielo in cui siete chiamati a brillare è più grande: è il cielo dell’amore, è il cielo di Dio, l’amore infinito del Padre che si riflette in tante piccole luci: nell’affetto fedele degli sposi, nella gioia innocente dei bambini, nell’entusiasmo dei giovani, nella cura degli anziani, nella generosità dei consacrati, nella carità verso i poveri, nell’onestà del lavoro. Pensate a queste cose, che vi faranno forti, tutti voi giovani”.
Sono ‘piccole luci’ che aiutano a salvare il mondo: “Queste piccole luci: l’affetto fedele degli sposi (cosa bella), la gioia innocente dei bambini (è una bella gioia questa!); l’entusiasmo dei giovani (siate entusiasti, tutti voi!); la cura degli anziani. Una domanda: voi avete cura degli anziani? Andate a trovare i nonni? Siate generosi nella vostra vita e caritatevoli verso i poveri, nell’onestà del lavoro. Questo è il firmamento vero, in cui splendere come astri nel mondo: e per favore non ascoltate chi, mentendo, vi dice il contrario! Non sono i consensi a salvare il mondo, né a rendere felici. Quello che salva il mondo è la gratuità dell’amore. E l’amore non si compra, non si vende: è gratuito, è donazione di sé stessi”.
E’ stato un invito a vivere e non a vivacchiare: “Sorelle e fratelli, non è vero, come alcuni pensano, che gli eventi del mondo sono ‘sfuggiti’ dalle mani di Dio. Non è vero che la storia la fanno i violenti, i prepotenti, gli orgogliosi. Molti mali che ci affliggono sono opera dell’uomo, inganno dal Maligno, ma tutto è sottoposto, alla fine, al giudizio di Dio . Quelli che distruggono la gente, che fanno le guerre, che faccia avranno quando si presenteranno davanti al Signore?.. Anche a noi il Signore domanderà queste cose. Il Signore ci lascia liberi, ma non ci lascia soli: pur correggendoci quando cadiamo, non smette mai di amarci e, se lo vogliamo, di risollevarci, perché possiamo riprendere il cammino”.
E’ stato un invito, soprattutto ai giovani coreani a guardare alla Madre di Dio: “Voi, giovani coreani, riceverete la Croce del Signore, Croce di vita, segno di vittoria, ma non da sola: la riceverete con la Mamma. E’ Maria ad accompagnarci sempre verso Gesù; è Maria che nei momenti difficili è accanto alla Croce nostra per aiutarci, perché Lei è Madre, Lei è Mamma. È la nostra Mamma. Pensate a Maria.
Teniamo gli occhi fissi su Gesù, sulla sua Croce, e su Maria, nostra Madre: così, anche nelle difficoltà, troveremo la forza di andare avanti, senza temere le accuse, senza bisogno dei consensi, con la propria dignità, con la propria sicurezza di essere salvati e di essere accompagnati dalla Mamma, Maria, senza fare dei compromessi, senza maquillage spirituale. La vostra dignità non ha bisogno di essere truccata. Andiamo avanti, contenti di essere per tutti, di essere nell’amore, e essere testimoni della verità. E per favore, non perdere la gioia”.
Infine la consegna della Croce: “Tra poco i giovani portoghesi consegneranno i simboli della GMG (la Croce e l’icona di Maria Salus Populi Romani) ai giovani coreani. Questi simboli vennero affidati ai giovani da san Giovanni Paolo II perché li portassero in tutto il mondo.
E voi, cari giovani coreani, adesso tocca a voi! Portando la Croce in Asia voi annuncerete a tutti l’amore di Cristo. Abbiate coraggio! Abbiate il coraggio di testimoniare la speranza di cui abbiamo più che mai bisogno oggi. Là, dove passeranno questi simboli, possano crescere la certezza dell’amore invincibile di Dio e la fratellanza tra i popoli. E per tutti i giovani vittime dei conflitti e delle guerre, la Croce del Signore e l’icona di Maria Santissima, siano sostegno e consolazione”.
(Foto: Santa Sede)
Card. Zuppi: in Terra Santa per stare accanto a chi soffre

“Non potevano esserci luogo e giorno migliori per iniziare questo pellegrinaggio di comunione e pace con tutti i fratelli e le sorelle della Terra Santa. Sperimentiamo, come gli apostoli, l’intima gioia di essere suoi, intorno a quella mensa dove continua ad essere versato e spezzato, dove la sua Parola si fa presenza nell’eucarestia e chiede di diventare carne nella nostra vita e nel nostro oggi. La comunione inizia nella prossimità, frutto di colui che si fa prossimo per farci capire chi siamo, prima vittoria sul male che distrugge, divide, allontana, rende incomunicabili, cancella il mio prossimo tanto da renderlo solo un nemico. Il vostro dolore è il nostro dolore, il loro dolore è il nostro, le vostre lacrime sono le nostre”.
Parole pronunciate dall’arcivescovo di Bologna, card. Matteo Zuppi, all’inizio della celebrazione eucaristica al Getsemani in occasione del pellegrinaggio in Terra Santa dell’arcidiocesi di Bologna fino al 16 giugno a cui hanno partecipato circa 160 pellegrini, ribadendo il valore della preghiera di intercessione: “La preghiera di intercessione si è unita a quella dei tanti salmisti che popolano (consapevolmente o no) questa terra e nei quali la preghiera ci permette di identificarci: liberami, salvami, ascoltami, proteggimi, difendimi, aiutami, comprendimi, sollevami.
Non ci possiamo abituare al grido di dolore che giorno e notte sale a Dio, ma anche alle nostre orecchie. Ecco, oggi la comunione per grazia di Dio diventa presenza, seguendo Gesù che non resta lontano, che fa sue le lacrime di Marta e Maria e piange con loro per il loro fratello che era morto, che si unisce a quella vedova che aveva perduto il suo unico figlio, perché è sempre unica la persona amata. E’ il nostro sentimento verso di voi, verso tutti i credenti, certi che l’invocazione è ascoltata da Dio”.
E nella celebrazione eucaristica al Santo Sepolcro il presidente della Cei ha sottolineato che senza la croce non c’è resurrezione: “Non c’è resurrezione senza restare sotto la croce, senza farsi interrogare personalmente, nelle viscere, dalla sofferenza. I discepoli non seppero vegliare davanti a un dolore grande. Scappano, pensando così di scaricarsi le responsabilità, di attribuirle a qualcuno, di pianificare qualcosa, a discutere e basta su di chi è la colpa, ad accusarsi con i confronti, a coltivare l’odio, ad accarezzare la spada che così poco rimettiamo nel fodero”.
L’immagine più bella di Chiesa è quella di una madre e di un discepolo sotto la croce: “La madre che resta e un discepolo che sotto la croce solo per amore piange con lei. Bisogna restare, in silenzio, ascoltando, pregando, affidandosi al Padre e soprattutto restare, esserci, capire la sofferenza dell’altro e farla propria. Solo così inizia la pace. Si ricomincia da qui, solo così inizia la pace, perché questa viene affrontando il male non evitandolo, non restandosene in pace, ma vivendo il dolore come il proprio”.
Ricordando la tragedia dello scorso 7 ottobre ha sottolineato che dal dolore può nascere amore: “Ieri la mamma di Hersh, giovane ostaggio dal 7 ottobre scorso, ci ha affidato il suo dolore, dicendo che si unisce a quello per i tanti innocenti che sono uccisi a Gaza. Solo se due dolori diventano un amore unico, solo se le lacrime sono tutte uguali troviamo la via della pace, che inizia anche dentro di noi. Bisogna restare perché non basta qualche consiglio a distanza per capire ed essere capiti”.
E’ stato un invito a stare sotto la croce: “Esserci sotto la croce fa la differenza e promuove davvero la pace. Sembra inutile, forse i discepoli avranno sentito rimbombare il grido ‘ha salvato gli altri, salvi se stesso, faccia vedere chi è’, grido che certifica l’inutilità di perdersi amando, avranno rimpianto le barche oppure saranno andati a cercare nuovamente la spada per difendersi. Eppure la luce della pace inizia solo così, capendo la tragedia del male, delle tante complicità, l’abisso di sofferenza con la loro storia antica e recente, ma sempre scegliendo che il suo dolore sia il mio. La risurrezione non appare senza la croce, bensì la include”.
Dallo stare sotto la croce nasce la Pentecoste: “Qui capiamo dove sta la verità circa il bene e il male ma anche che il male non ha l’ultima parola, che l’amore è più forte della morte, che il nostro futuro e quello dell’umanità tutta è nella volontà di Dio che diventa la nostra volontà di pace. In questi giorni contempliamo l’amore per abbattere ogni muro di divisione dentro il nostro cuore e, come sappiamo, se il nostro cuore è in pace tanti inizieranno a vedere la pace intorno a noi. In ogni persona lo stesso volto sfigurato, quello in cui sembra non esserci niente di umano, mentre è il più umano di tutti, e che guardandolo ci rende umani, persone”.
In questi luoghi santi il dolore può trasformarsi in preghiera: “Il dolore diventa preghiera, fare nostro il grido di un’umanità profondamente ferita per uscire dalla logica dell’inimicizia, da quella che produce inimicizia e alza i muri, capire e scegliere quella del pensarsi insieme. Se non vediamo la croce, le croci, le guerre, i volti, le storie, le torture, le armi, non capiremo mai per davvero, resteremo innamorati della nostra idea e non del Vangelo di Gesù crocifisso per la vita.
E’ dalla preghiera che inizia un nuovo modo di parlare, di conoscere, di capire la vita. Solo la preghiera ci libera dalla paura perché nella preghiera ci uniamo ad un amore che ha vinto il male e ci libera dall’odio. Possiamo dire che siamo per la pace solo se coloro che sono per la guerra non hanno potere su di noi e se non ci lasciamo prendere in nessun modo dalla folla che grida contro. Combattiamo il male lasciandoci condurre come agnelli ed esserlo”.
Al termine del pellegrinaggio il card. Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, ha ringraziato l’arcivescovo ed i pellegrini di Bologna: “Quella dell’Arcidiocesi di Bologna è stata una iniziativa coraggiosa, in un tempo in cui tutti hanno paura di venire. Questo è un pellegrinaggio di solidarietà con i cristiani e le popolazioni di Terra Santa. Mi auguro che questo gesto coraggioso venga ripreso anche da altri. Noi abbiamo bisogno della presenza dei pellegrini che portano serenità per tante famiglie”.
(Foto: Arcidiocesi di Bologna)
Un racconto personale del sacerdote Albino Luciani grazie a Don Pietro Paolo Carrer

La collana ‘Io sono polvere’ delle Edizioni Messaggero di Padova, dedicata ad Albino Luciani, si arricchisce di un nuovo libro:’Un cireneo per il vescovo Albino Luciani’, scritto dalla giornalista Romina Gobbo, che ha raccolto gli aneddoti di mons. Pietro Paolo Carrer, ‘cireneo’ del futuro papa con la prefazione del card. Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano e presidente della Fondazione Vaticana ‘Giovanni Paolo I’.
L’intervista esclusiva a don Carrer, che ha prestato servizio a mons. Albino Luciani dal 1961 al 1963, fissa con delicatezza e vivacità ricordi, memorie e pensieri, molti dei quali inediti, del giovane sacerdote segretario e autista dell’allora vescovo di Vittorio Veneto. ‘Cireneo’, appellativo dato da Luciani al suo fido compagno di viaggi e di viaggio, è un termine ricercato, in linea con la profonda erudizione del futuro papa, ma soprattutto è un termine evangelico, che rimanda a quel Simone di Cirene che aiuta Gesù a portare la croce.
Attraverso i due incontri con don Pietro Paolo Carrer, che ha percorso con il vescovo di Vittorio Veneto un pezzo di strada, l’autrice riesce a illuminare la figura di Luciani da un’angolazione originale, mettendo insieme un aneddoto dietro l’altro, come ha scritto l’autrice nell’introduzione:
“Della vita e delle opere di Albino Luciani sappiamo molto. Soprattutto da quando il 23 novembre 2003 iniziò l’inchiesta diocesana per la causa di canonizzazione del papa di origini agordine, le ricerche si sono intensificate, facendo emergere particolari inediti sulla sua vita e sul suo operato. Ma, quello che risultò poi essere fondamentale per la proclamazione delle virtù eroiche prima, e per la beatificazione poi, fu la presa di consapevolezza di quanto Luciani fosse amato dai cattolici di tutto il mondo.
L’uomo, il sacerdote, il vescovo, il patriarca, il papa, che aveva fatto dell’umiltà la cifra della sua vita, improvvisamente balzava agli onori della cronaca. Chissà se tutta questa popolarità gli avrebbe fatto piacere. E’ scaturita da questa domanda di don Pietro Paolo Carrer, che di Albino Luciani fu segretario, l’idea di tracciare un ritratto più intimo degli anni in cui fu vescovo di Vittorio Veneto. Mi resi conto che sarebbe stato possibile solo ascoltando il sacerdote che per due anni gli aveva prestato un servizio fedele, e anche affettuoso. La vicinanza con Luciani, la condivisione di spazi e impegni lo rendeva un osservatore privilegiato”.
Nella prefazione il card. Parolin ha sottolineato l’originalità del volume: “Da presidente della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I, ho potuto rendermi conto del fatto che più si studiano i documenti di papa Luciani e più si comprende che l’importanza del pensiero del pontefice di origini agordine è inversamente proporzionale alla durata del suo pontificato. Ecco perché sono in molti (giornalisti e scrittori) ad averlo omaggiato con dei libri: alcuni dedicati alla sua vita, altri alla sua opera pastorale. Sono in numero minore quelli che contengono testimonianze di persone che lo hanno conosciuto e ne sono rimaste toccate. In questo sta l’originalità del libro della giornalista Romina Gobbo che, con la sua penna ormai consolidata, ama far emergere l’anima dei personaggi di cui scrive”.
Quindi dall’autrice ci facciamo spiegare il motivo per cui Albino Luciani chiese a don Carrer di essere il suo cireneo: “Albino Luciani, vescovo di Vittorio Veneto, chiese ad un sacerdote della diocesi, don Pietro Paolo Carrer, di essere il suo ‘cireneo’. Usò questa parola evangelica invece di ‘segretario’ perché stava chiedendo un impegno importante, di aiutarlo a portare la croce di un incarico, come quello di vescovo, che aveva accettato per obbedienza, ma che riteneva fin troppo impegnativo. Il 30 agosto 1978, qualche giorno dopo l’elezione al soglio pontificio, in un discorso ai cardinali elettori, disse: ‘Spero che i miei confratelli cardinali aiuteranno questo povero cristo, vicario di Cristo, a portare la croce con la loro collaborazione, di cui io sento tanto bisogno’. ‘Figuriamoci che cosa deve aver pensato quando è stato eletto papa’, dice don Carrer. Ed i vittoriesi, che avevano imparato a conoscere bene il loro vescovo, quando fu eletto al soglio pontificio, dissero: A furia di tirarsi indietro, è diventato papa”.
Quale è stata l’occasione per cui ha scritto questo libro?
“ Ho scritto questo libro, perché ho avuto il privilegio di incontrare don Pietro Paolo, per tutti don Paolino. Ed ho ritenuto che la sua preziosa testimonianza dovesse essere fatta conoscere. In questo libro-racconto di due anni di convivenza stretta, ci si accorge che protagonista e co-protagonista si assomigliano molto”.
Quale figura di papa Luciani emerge dal racconto?
“Una figura sicuramente molto complessa. Fu un uomo umile, ma deciso, per niente incline alla carriera, ma con grandissime competenze e capacità. Quando assumeva un ruolo, si preparava per rispondere al meglio ai suoi doveri. Fu anche un uomo colto: leggeva libri e riviste, conosceva l’inglese, aveva una biblioteca vastissima. E scriveva per i giornali. Usava concetti chiari, diretti, per spiegare in modo semplice la dottrina ai fedeli. Così le omelie, così gli articoli. Il suo capolavoro resta ‘Illustrissimi’, dove dà voce a personaggi della storia. Ma era anche un uomo ironico. La sorella lo definiva un ‘burlone’. Don Paolino racconta di come Luciani facesse sorridere le suore raccontando barzellette e usando giochi di parola”.
Per quale motivo chiese ai cardinali elettori di aiutarlo a portare la Croce?
“Albino Luciani è passato alla storia con appellativi, quali il ‘Papa del sorriso’, ‘Il sorriso di Dio’, sicuramente vezzeggiativi dettati dall’affetto. Ed effettivamente nelle sue foto, il sorriso balza subito all’occhio. Non esiste una sua immagine senza quel sorriso. D’altra parte, quando si affacciò per la prima volta da papa dalla finestra che dà su piazza san Pietro, il suo sorriso parlò per lui, che invece non poté farlo per via del protocollo. Quel brevissimo mese di pontificato è stato chiamato ‘lo spazio di un sorriso’”.
Come arrivò Luciani a quell’Angelus, dove affermò ‘Dio è padre e madre’?
“Ce lo spiega don Paolino: ‘L’ambiente in cui visse Luciani era prevalentemente formato da donne, perché in quell’epoca gli uomini erano spesso emigrati all’estero per mantenere la famiglia. Quindi, il piccolo Albino aveva davanti a sé figure femminili importanti, in primis la madre, che lo formò alla fede. E fu sempre lei a convincere il marito a lasciare entrare il figlio in seminario’.
Non va poi dimenticato che quando nacque, Albino rischiò di morire per il cordone ombelicale attorcigliato attorno al collo; la levatrice che lo fece nascere in fretta, gli somministrò anche il battesimo. ‘C’è, poi, un altro elemento, ecco ancora le parole di don Paolino. In un’omelia, il parroco di Luciani ragazzo, don Filippo Carli, parlava dell’amore di Dio come fosse quello di una madre. Ed erano gli anni Venti. Io sono propenso a credere che Albino Luciani avesse raggiunto la sua consapevolezza di un Dio che è anche madre, grazie anche all’apertura mentale del suo parroco’”.
(Tratto da Aci Stampa)
Novara ha beatificato don Giuseppe Rossi, martire della carità cristiana

Più di 1.300 pellegrini, 150 sacerdoti concelebranti, numerosi rappresentanti della società civile nella Cattedrale di Novara, avvenuto domenica 26 maggio per il rito di beatificazione di don Giuseppe Rossi, processo iniziato nel 2002 da mons. Renato Corti, ucciso ‘in odio alla fede’, come ha sottolineato a conclusione del rito di beatificazione il vescovo diocesano, mons. Franco Giulio Brambilla:
“La beatificazione di don Giuseppe Rossi è quella di un martire. Vi chiedo di fermarvi tutti un momento a pensare a queste parole che don Giuseppe ha scritto: ‘Gesù non lo si segue fino ai piedi della croce, ma occorre salire con Lui sulla croce!’
Sono le parole più semplici e più radicali che leggiamo nei suoi quaderni. Il giovane parroco di Castiglione era sicuro nell’indicare che il segreto della sua fedeltà, cioè il motivo per cui non ha abbandonato il suo gregge, non era anzitutto la battaglia per la liberazione, ma la fedeltà all’ideale cristiano, alla legge morale, umana e sociale. Egli ha voluto stare tra la sua gente per consolare, aiutare, educare, animare quel barlume di vita ancora possibile nel travaglio dell’ultima guerra mondiale”.
Per l’occasione il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha inviato un messaggio, in cui ha sottolineato il clima d’odio contro la Chiesa: “Parroco in un piccolo comune della Val d’Ossola, venne massacrato dai fascisti in una rappresaglia della Brigata nera ‘Muti’, nel 1945, a due mesi dalla Liberazione, costretto a scavarsi con le mani la fossa in cui sarebbe stato frettolosamente sepolto. Nessuna pietà accompagnò quell’assassinio: il luogo della sepoltura venne indicato solo giorni dopo da uno dei carnefici.
I valori di solidarietà, di rispetto dei diritti dei più umili ebbero in don Giuseppe Rossi espressione esemplare, con la manifestazione della virtù del dono supremo per la sua gente. Alla sua figura, così significativa per la comunità civile, rivolgo un pensiero commosso e riconoscente, unendomi a quanti oggi onoreranno il ricordo del giovane parroco di Castiglione d’Ossola, vittima del clima di odio nei confronti della Chiesa e dei sacerdoti da parte del regime fascista”.
La celebrazione di beatificazione è stata officiata dal card. Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi, con il vescovo di Novara, mons. Franco Giulio Brambilla, il metropolita di Vercelli, mons. Marco Arnolfo, e il vescovo emerito di Biella, Gabriele Mana; il quale prefetto ha sottolineato il significato di ‘immolazione’:
“C’è, in questa ‘immolazione’, la sua propria e personale imitazione di Cristo, al quale già era stato incorporato con il Santo Battesimo e poi configurato con il sacramento dell’Ordine Sacro. Una volta papa Francesco ha detto che i santi sono ‘persone attraversate da Dio’ alla maniera delle ‘vetrate delle chiese, che fanno entrare la luce in diverse tonalità di colore’… Il beato Giuseppe Rossi lo ha fatto come trasparenza del Christus patiens”.
Nella solennità della Santa Trinità il card. Semeraro ha invitato alla somiglianza di Gesù nell’amore: “Il nostro somigliare a Cristo, donatoci nel Battesimo, non può essere qualcosa di parziale o di provvisorio, ma deve essere totale. Nel martire, poi, questa imitazione diventa perfino corporale. Ma è proprio l’accettazione delle sofferenze per amore di Cristo, al fine di somigliargli in tutto che fa il martire.
San Tommaso d’Aquino insegna che, inverando le parole di Gesù: ‘Nessuno ha amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici’, il martirio è nel suo genere il più perfetto tra gli atti umani ed è il segno della più ardente carità”.
Ricordando le parole del suo vescovo nel giorno dell’ordinazione sacerdotale del nuovo beato (‘sacerdote e vittima’) il prefetto del dicastero ha sottolineato lo stile attraverso gli scritti della sua agenda (‘Allora soffro con gioia perché unito al mio Dio sulla croce. Così io rivivo alla nuova vita che è nella morte del corpo. Comprendo le eroiche pazzie dei Santi nel cercare la croce, la sofferenza: erano anime assetate di vita, quella vita sgorgata dal sangue versato sul Golgota che è lavacro di tutte le colpe, che è un farmaco di tutte le ferite’):
“Sono parole da inquadrare, certo, nelle iniziali difficoltà d’impostare una azione pastorale nel nuovo contesto; al tempo stesso, però, esse ci rivelano una disposizione di fondo che maturerà fino alla notte del 26 febbraio 1945, facendo di lui, giorno dopo giorno, un parroco per tutti, un parroco per ciascuno e un parroco per i poveri, come ha scritto il vostro Vescovo. Questa via lo ha condotto a essere un parroco martire”.
Entrato nel 1925 in seminario, don Rossi fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1937, diventando parroco a Castiglione Ossola, in cui si dedicò alla formazione dei giovani, alla direzione spirituale dell’Azione Cattolica femminile e delle Conferenze di San Vincenzo, all’assistenza dei poveri e malati. Il 26 febbraio 1945 i militi della ‘Brigata Nera Ravenna’ ebbero uno scontro con i partigiani accanto a Castiglione, riportando due morti e una ventina di feriti.
Questo provocò un’immediata rappresaglia contro la popolazione, in cui furono bruciate delle case e vennero presi degli ostaggi, tra cui don Rossi, che però vennero rilasciati lo stesso giorno. Ritornato a casa, durante la cena, fu ripreso dai fascisti che lo portarono fuori il paese. Dopo essere stato costretto a scavarsi la fossa a mani nude, fu percosso, colpito alla testa con un masso che gli provocò lo sfondamento del cranio, quindi finito con una coltellata e un colpo di arma da fuoco.
(Foto: Diocesi di Novara)
Da Ancona la proposta di mettersi all’ascolto della Croce

Per la festa di San Ciriaco, patrono dell’arcidiocesi di Ancona-Osimo e della città di Ancona, nel capoluogo marchigiano si è svolta la manifestazione ‘InCanto sulle vie di Francesco’: un’edizione speciale di una serie di eventi che da 11 anni si svolgono in Umbria e nel Centro Italia, percorrendo a piedi antichi percorsi francescani mentre i cori attendono i camminatori con esecuzioni canore.
Dal porto di Ancona è partito san Francesco per il Medio Oriente e al porto di Ancona è arrivato il patrono, san Ciriaco, come ha ricordato mons. Angelo Spina, arcivescovo di Ancona-Osimo: “Il suo corpo giunto da Gerusalemme ad Ancona 1606 anni fa, dono di Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio, è segno di una presenza viva e di una protezione costante della Città e dell’intera Arcidiocesi di Ancona-Osimo. Il dono del corpo del santo venuto da Gerusalemme unisce due mondi: oriente ed occidente. Ancona è la porta d’oriente e la via della pace. Oggi più che mai abbiamo bisogno di guardare a San Ciriaco perché i santi sono i campioni della fede e dell’amore e creano unione e non divisione”.
Brevemente ha raccontato la storia del santo: “La storia del santo, come sappiamo, ci rimanda alle vicende vissute a Gerusalemme, all’anno 326 dopo Cristo, quando Elena, madre dell’imperatore Costantino era alla ricerca della vera Croce di Cristo. Un certo Giuda, ebreo, sapeva dove era. Su invito pressante di Elena, Giuda svelò dove era nascosta la Croce, ci fu l’inventio crucis. Giuda si convertì, si fece battezzare e prese il nome di Kuryakos, Ciriaco, che tradotto significa ‘del Signore’. Fu vescovo di Gerusalemme e non esitò ad affrontare il martirio per rendere testimonianza della sua fede, sotto Giuliano l’Apostata, con la convinzione ferma che gli ‘uomini possono uccidere il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima’. Il martirio di san Ciriaco rimanda alla Croce”.
Riprendendo le parole di san Paolo l’arcivescovo di Ancona ha sottolineato che ‘la parola della croce è potenza di Dio’, secondo la definizione di san Paolo: “San Paolo considera la Croce come Parola! E’ un’espressione fortissima. La Croce parla. Oggi c’è un linguaggio sempre più aggressivo; un linguaggio superficiale, frettoloso, che non tiene conto della fase di ascolto. Il cammino sinodale che la Chiesa ha intrapreso invita tutti ad ascoltare e poi a parlare, per costruire la comunità e percorrere strade di unità e di comunione”.
E’ un invito all’ascolto della Croce: “A noi viene chiesto di metterci in ascolto della Croce. Perché la Croce parla! Purtroppo non tutti l’ascoltano! E’ lo stesso san Paolo a spiegarlo con un binomio irriducibile: ‘La parola della Croce è stoltezza per quelli che non credono, ma per noi è potenza di Dio’. Da una parte, questa parola è ‘stoltezza’; potremmo dire senza significato, senza logica. E se questa parola non ha sapore, non ha significato, non ha logica, tanto vale non sentirla. In altri passi, egli dirà che la croce per alcuni è «scandalo» che significa ostacolo, pietra d’inciampo”.
Il pensiero corre verso coloro che sono stati addossati dalle croci: “La parola di queste innumerevoli e tremende croci, se non ascoltata, semina conflitti e morte, e rende ‘cimitero’ la nostra terra e il ‘mare nostro’, come più volte ci ha ricordato papa Francesco. Gesù, con la sua morte sulla croce, ha portato nel mondo una speranza nuova e lo ha fatto alla maniera del ‘seme’. Si è fatto piccolo, come un chicco di grano: ha lasciato la sua gloria celeste per venire tra noi, è ‘caduto in terra’. Ma non bastava ancora. Per portare frutto Gesù ha vissuto l’amore fino in fondo, lasciandosi spezzare dalla morte come un seme si lascia spezzare sotto terra”.
Però dalla Croce è nata la speranza: “Guarda la Croce, guarda il Cristo Crocifisso e da lì ti arriverà la speranza che non sparisce più, quella che dura fino alla vita eterna. E questa speranza è germogliata proprio per la forza dell’amore: perché l’amore tutto spera, tutto sopporta, l’amore, che è la vita di Dio, ha rinnovato tutto ciò che ha raggiunto. Sulla croce Gesù ha trasformato il nostro peccato in perdono, il nostro odio in amore, la nostra paura in fiducia, la nostra morte in resurrezione”.
Ugualmente dalla croce scaturisce la pace: “Se dalla croce fiorisce la speranza è dalla croce che viene donata la vera pace, perché il Signore Gesù, nel suo gesto di amore infinito, sacrificando se stesso, ci riconcilia con Dio e tra di noi. Dà il via a una nuova umanità che guardando a lui mette fuori dalla porta del cuore e della propria casa l’individualismo, la superbia, l’invidia, la gelosia, l’aggressività; per coltivare la giustizia e, insieme, la solidarietà, la condivisione di gioie e fatiche, di sofferenze e speranze; per tendere al dono di sé e non al possesso egoistico”.
E’ un invito alla città portuale ad essere accogliente: “Ancona, con il porto, è per sua natura una città che accoglie. Nel tempo ha saputo costruire inclusione, reciprocità, pur nella fatica e nelle contraddizioni. Nel corso della storia le tante ferite, alcune dovute a calamità naturali di lontana memoria e recenti, non hanno mai fermato lo spirito di solidarietà e di inclusione sociale, con l’attenzione ai più bisognosi”.
E’ un invito ad accorgersi dei ‘poveri’: “In questo momento storico non possiamo distogliere lo sguardo da ciò che sta avvenendo nel mondo intero, con la più grande emergenza umanitaria. Così come non possiamo assistere inerti al rischio continuo che tante persone in questa città scivolino nuovamente e silenziosamente in povertà che speravamo superate per sempre: infatti, quando qualcuno bussa per la prima volta ai Centri di Ascolto delle nostre Caritas, si sono già consumate gran parte delle risposte di dignità e di intraprendenza personali”.
Ed ha proposto tre tappe per una nuova visione della città: “Come sarebbe auspicabile se, abbandonate le forme continue di lamentela, ci fosse una prima tappa per fare memoria della storia di carità e giustizia della nostra città. Una seconda tappa che guardi al presente, evidenziando le capacità e i talenti a servizio delle diverse condizioni di povertà. Una terza tappa rivolta al futuro, orientata allo sviluppo di pratiche di lotta alla povertà da realizzare con i poveri stessi”.
E’ una proposta di costruire relazioni sotto la guida di san Ciriaco: “Nella città c’è un desiderio latente, quasi una necessità, di ricostruire relazioni forti tra singoli, corpi sociali e istituzioni. Abbiamo una grande opportunità: prendersi a cuore gli ultimi, dando loro spazio e voce, è infatti quanto di più nobile e nobilitante ci sia per rimettersi insieme tra tanti soggetti diversi, senza polemiche e senza secondi fini. E’ possibile? La risposta è: ‘sì’, se ci lasciamo guidare dal nostro patrono, san Ciriaco, ad abbracciare la croce gloriosa di Cisto salvatore, la croce che parla ai nostri cuori, unica nostra speranza e nostra pace”.
(Foto: arcidiocesi di Ancona-Osimo)
Venerdì Santo: sulla croce Io Sono

Oggi pomeriggio nella Basilica Vaticana papa Francesco ha presieduti nella Basilica Vaticana la celebrazione della Passione del Signore, ma la riflessione è stata svolta dall predicatore della Casa Pontificia, card. Raniero Cantalamessa, sul tema ‘Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono’, parola “che Gesù pronunciò al termine di una accesa disputa con i suoi contraddittori… Dice semplicemente ‘Io Sono’, senza specificazione. Ciò dà alla sua dichiarazione una portata assoluta, metafisica”.
Il card. Cantalamessa ha sottolineato che Gesù offre una nuova visione di Dio, che si manifesta al mondo sulla croce: “Siamo dinanzi a un totale rovesciamento dell’idea umana di Dio e, in parte, anche di quella dell’Antico Testamento. Gesù non è venuto a ritoccare e perfezionare l’idea che gli uomini si sono fatti di Dio, ma, in certo senso, a rovesciarla e rivelare il vero volto di Dio. L’idea di Dio che Gesù è venuto a cambiare, purtroppo, ce la portiamo tutti dentro, nel nostro inconscio”.
Dio sulla croce si mette a ‘disposizione’ dell’uomo: “Ci vuole poca potenza per mettersi in mostra; ce ne vuole molta, invece, per mettersi da parte, per cancellarsi. Che lezione per noi che, più o meno consciamente, vogliamo sempre metterci in mostra! Che lezione soprattutto per i potenti della terra!”
Il mistero della Croce è preceduto dal kerygma: “All’inizio c’è sempre il kerygma, cioè la proclamazione del mistero della Croce, visto ogni volta in una delle sue infinite virtualità e in rapporto ai problemi storici ed esistenziali del momento; da esso scaturisce ogni volta la parenesi, cioè l’applicazione morale alla vita del cristiano, sul modello delle Lettere paoline, specie di quella ai Romani”.
La Passione narra che la morte è vinta: “La sua morte era stata vista da una grande folla e aveva coinvolto le massime autorità religiose e politiche. Da risorto, Gesù appare soltanto a pochi discepoli, fuori dai riflettori. Con ciò ha voluto dirci che dopo aver sofferto, non bisogna aspettarsi un trionfo esteriore, visibile, come una gloria terrena. Il trionfo è dato nell’invisibile ed è di ordine infinitamente superiore perché è eterno! I martiri di ieri e di oggi ne sono la prova”.
La Resurrezione, al contrario della crocifissione, avviene nel ‘silenzio: “La risurrezione avviene nel mistero, senza testimoni… Dopo aver sofferto non bisogna aspettarsi un trionfo esteriore, visibile, come una gloria terrena. Il trionfo è dato nell’invisibile ed è di ordine infinitamente superiore perché è eterno! I martiri di ieri e di oggi ne sono la prova”.
Ecco il motivo per cui attraverso la croce Gesù salva: “Vieni tu che sei anziano, malato e solo, tu che il mondo lascia morire nella miseria, nella fame, o sotto le bombe; tu che per la tua fede in me, o la tua lotta per la libertà, languisci in una cella di prigione; vieni tu, donna, vittima della violenza. Insomma tutti, nessuno escluso: Venite a me e io vi darò ristoro!”
Riflessione che rispecchia le meditazioni di papa Francesco della Via Crucis al Colosseo, dove si sottolinea il cammino di preghiera verso il Calvario compiuto da Gesù, che chiede di vegliare: “Una cosa sola ci hai domandato: restare con te, vegliare. Non ci chiedi l’impossibile, ma la vicinanza. Eppure, quante volte ho preso le distanze da te! Quante volte, come i discepoli, anziché vegliare ho dormito, quante volte non ho avuto tempo o voglia di pregare, perché stanco, anestetizzato dalle comodità, assonnato nell’anima. Gesù, ripeti ancora a me, a noi tua Chiesa: ‘Alzatevi e pregate’. Svegliaci, Signore, destaci dal torpore del cuore, perché anche oggi, soprattutto oggi, hai bisogno della nostra preghiera”.
Proprio per questa compassione per il mondo Gesù salva nella ripetizione di quattordici invocazioni: “Signore, ti preghiamo come i bisognosi, i fragili e i malati del Vangelo, che ti invocavano con la parola più semplice e familiare: con il tuo nome. Gesù, il tuo nome salva, perché tu sei la nostra salvezza. Gesù, sei la mia vita e per non perdere la rotta nel cammino ho bisogno di te, che perdoni e rialzi, che guarisci il mio cuore e dai senso al mio dolore…
Gesù, prima di morire dici: ‘è compiuto’. Io, nella mia incompiutezza, non potrò dirlo; ma confido in te, perché sei la mia speranza, la speranza della Chiesa e del mondo. Gesù, ancora una parola voglio dirti e continuare a ripeterti: grazie! Grazie, mio Signore e mio Dio”.
(Foto: Santa Sede)
Domenica delle Palme: la Passione del Signore

Il cammino quaresimale oggi ci introduce nella Settimana Santa nella quale la Liturgia ci propone il ricordo della passione, morte e risurrezione di Cristo Gesù. Una giornata caratterizzata da due momenti che vanno del canto della folla ‘Osanna’ al grido blasfemo della stessa folla, aizzata dai Capi e dal Sinedrio, che grida ‘Crucifige’.
Il primo momento liturgico di oggi è gioioso: palme e rami di ulivo in segno di esultanza al grido: ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore: il Re di Israele’. E’ la domenica del trionfo di Gesù che viene accolto nella città di Gerusalemme; Gesù appare il vero Messia atteso da secoli. Il secondo momento è il ricordo drammatico della sua passione e morte descritto nel Vangelo: è l’iter del sacrificio annunziato da Gesù: “se il chicco di grano non muore, non diventerà una spiga”. Grazie infatti al sacrificio di Gesù sulla croce sono state aperte a noi le porte del regno dei cieli; inizia la nuova Alleanza tra Dio e l’uomo, grazie al sacrificio di Cristo Gesù.
Ma la domanda è spontanea: chi sono i veri responsabili della passione e morte di Gesù? Sono stati gli Ebrei o sono stati i Romani? Gesù ha subìto due processi: uno religioso e l’altro politico. Due tribunali con accuse diverse; nel processo religioso è stato accusato di avere bestemmiato perché ha affermato di essere ‘figlio di Dio’: al Sommo Sacerdote, che lo aveva interrogato: “Se tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?”, Gesù aveva risposto: “sì, lo sono” e tutti gridarono: “è reo di morte”. Il secondo processo è stato impiantato in chiave politica: davanti al governatore romano; a Ponzio Pilato che interroga Gesù: “Sei tu il re dei Giudei?”, Gesù risponde: “Sì, sono Re, ma il mio regno non è di questo mondo!”. Pilato si convince che Gesù è innocente, ma, dietro le grida della folla: “Se non lo condanni a morte, ti accuseremo a Cesare”, Pilato se ne lava le mani, libera Barabba ed accontenta la folla e i Capi del Sinedrio.
Due tribunali, due accuse diverse, due condanne a morte. Chi è il vero responsabile della condanna a morte di Gesù? Nel racconto del Vangelo si inseriscono vari episodi: Giuda, che lo aveva tradito si è andato ad impiccare; Pietro che lo rinnega davanti ad una cameriera, piange il suo peccato. A questi fatti eclatanti fanno riscontro fatti positivi: Un Cireneo aiuta Gesù a portare la croce; Maria e le pie donne seguono Gesù piangendo; il Centurione romano, visto Gesù spirare, esclama: “davvero costui era figlio di Dio” mentre il velo del tempio si squarcia in due. Chi è il vero responsabile della morte in croce di Gesù?
Certamente al di là del racconto storico, i veri responsabili, senza alcun forse, non sono né gli Ebrei, né i Romani, il vero responsabile è l’uomo e il suo peccato, sei tu, sono io, siamo tutti perché Cristo si è offerto al sacrificio della croce per salvare l’uomo peccatore. Gesù ha portato i nostri peccati sulla croce per salvare l’uomo peccatore: “Egli è stato schiacciato per le nostre iniquità”. Dietro Giuda, che vendette Gesù per trenta denari (baratto terribile), ci sei tu, ci sono io, che tanta volte facciamo di peggio. Gesù era passato ‘sanando e beneficando tutti’, noi barattiamo e vendiamo Gesù per molto meno di trenta denari; tradiamo l’amore di Dio per soddisfare un capriccio, per la nostra stupida superbia ed orgoglio e talvolta ci vergogniamo di apparire cristiani davanti ad avversari della fede. L’uomo peccatore è peggio di Pilato, che se ne lava le mani.
Dall’alto della Croce Gesù prega: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato (recita un salmo), non è un grido di disperazione, non è un rifiuto della Croce e le sue ultime parole sono: “Padre, perdona loro, non sanno quello che fanno”. Gesù, abbassato il capo, spira; il velo del Tempio si squarcia in due mentre il centurione romano esclama: “davvero costui è Figlio di Dio”. La quaresima acquista un senso solo se si attua l’invito di Gesù: ‘convertitevi’, cambiate testa, prendete coscienza che davanti a Dio vivere è amare, amare è servire, come il buon Pastore che dà la sua vita per salvare le sue pecorelle.
I crimini del silenzio di fronte all’ingiustizia degli oppressi

Dice il proverbio arabo: Chi tace dinanzi all’ingiustizia è un diavolo muto. Il diavolo taciturno è il peggior tipo di demone, perché il silenzio di fronte all’ingiustizia, all’abuso e all’oppressione è una partecipazione passiva che contribuisce alla continuazione della situazione, perfino alla sua giustificazione, e spesso la esacerba e peggiora. Il silenzio di fronte a situazioni ingiuste spinge gli oppressori a persistere, li incoraggia a mantenere le loro posizioni sbagliate e in molti casi li spinge a giustificare a sé stessi quelle posizioni vergognose, fino a considerare le loro ingiustizie motivo di orgoglio e di vanto.
Mentre, dire la verità, costi quel che costi e qualunque siano i risultati, è una delle caratteristiche delle persone nobili, giuste e dotate di principi, morali e valoriali, ed è l’unica via di chi sceglie la strada della fede, dell’umanità, dell’integrità e della rettitudine morale.
Infatti, esistono diversi tipi di persone: il primo tipo è quello di coloro che dicono la verità per vantarsi e per sentirsi migliori degli altri e, così facendo, esprimono solo la loro arroganza e la nauseante sensazione di essere migliori degli altri e di avere il diritto di condannarli e giudicarli. Qui Gesù Cristo gli dice: ‘Con la stessa misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi’ (Mc 4, 24). Cristo mette in guardia contro questo tipo di persone che condannano gli altri che si vantano e si arrampicano sulle spalle degli altri con il pretesto di ‘dire la verità’, non ‘per amore della verità’.
Il secondo tipo è quello di coloro che tacciono di fronte all’ingiustizia degli altri e li giustificano dicendo che non vogliono condannare nessuno, dimostrando così la loro paura e codardia. Nascondono la testa nella sabbia come se nulla fosse successo. Questo tipo di persone spesso tacciono quando si tratta di dire la verità davanti ai potenti e alle persone influenti per paura della loro vendetta e per ottenere il loro compiacimento e approvazione e per evitare la loro malvagità.
Queste persone spesso si comportano come Ponzio Pilato, che si lava le mani di fronte all’ingiustizia dell’Innocente, credendo così di essersi esonerato dalla responsabilità nonostante abbia detto: ‘Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?’ (Gv 19,10). Questo tipo di ipocrisia è il tipo più spregevole di evasione dalle responsabilità, è di facciata, di giustificazione e persino di vanto che arriva sino a sfruttare i versetti della Bibbia per giustificare un silenzio vergognoso ed evitare di prendere posizione o dire la verità.
Il terzo tipo è di quelli che restano in silenzio fino a quando la tempesta non è passata e appena raggiungono la certezza dei risultati gridano come se fossero i più valorosi dei cavalieri. E’ un tipo di essere umano caratterizzato da opportunismo, meschinità spirituale e umana. Scelgono di tacere finché non sono certi dei risultati e appena appare la ‘visione’ il troviamo tra i primi a congratularsi con il vincitore e consolare il perdente. Commerciano anche nel dolore, versano lacrime di finzione e simulano di essere compassionevoli e generosi, ma in realtà pensano solo a sé stessi e ai loro guadagni, esprimendo così la bassezza e la fragilità dei loro principi e della loro vita morale.
Il quarto tipo è di quelli che credono di adottare la moderazione come approccio e si vantano di parlare diplomaticamente per non ferire nessuno, ma in realtà sono come camaleonti che cambiano colore a seconda delle circostanze cosicché nessuno possa scoprire il loro vero colore. Agiscano con tatto ed educazione per sostenere il loro cambio di posizione secondo le circostanze, dimenticando che Gesù Cristo ci insegna: ‘Siano le vostre parole sì, sì, no, no. E tutto il resto viene dal male’ (Mt 5:37). Il tatto è necessario quando si tratta di cortesia umana, non quando si tratta di dire la verità contro l’ingiustizia e a favore degli oppressori e di rendere giustizia agli oppressi.
Il quinto tipo è di coloro che dicono la verità basandosi sulla convinzione della necessità di essere coraggiosi e di non tradire i propri principi e valori, costi quel che costi. Questo tipo di esseri umani sono come le perle preziose: non mutano colore, non cambiano le loro parole secondo la grandezza di chi hanno davanti, ma secondo l’autenticità della loro fede, della loro storia, della loro alta morale.
Esprimono le loro opinioni sia davanti ai governanti sia davanti agli oppressi. Sono come il profeta Natan che si presentò davanti al re Davide, affrontandolo, dicendogli: ‘Tu sei quell’uomo! Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone ….. e, se questo fosse troppo poco, io vi avrei aggiunto anche altro’ (2 Sam 12, 7-9).
Questo tipo di persone sanno che dire la verità è un dovere religioso, morale e umano. Ci insegnano che dire la verità deve essere fatto con educazione, rispetto e tatto, ma resta un dovere morale e di fede, in primis, soprattutto di fronte a comportamenti sbagliati, indipendentemente dalla posizione o dal rango civile o ecclesiastico delle persone ingiuste.
Oggi abbiamo tanto bisogno di uomini di questo tipo che non temono altro che il volto di Dio e il suo giusto giudizio. Uomini che dicono: basta con il silenzio, la sottomissione e la codardia. Uomini che urlano contro le rovine delle nostre coscienze mummificate per risvegliarle dalla morte e dal marciume.
Uomini con un cuore coraggioso, una lingua parlante, una coscienza pura, una storia onorevole e cuore puro. Uomini che non calcolano le cose secondo gli standard di questo mondo e l’equilibrio tra vincitori e vinti, ma piuttosto agiscono con valore e audacia. Uomini che scuotono coscienze vergognose, lingue mute, occhi ciechi e orecchie chiuse, cuori pietrificati e menti logore. Uomini che tracciano un percorso nell’oscurità, capaci di accendere la speranza. Gesù disse: ‘Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi’ (Gv 8, 32).