Giorno del Ricordo: il racconto della letteratura

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Si è svolta venerdì 10 febbraio al Quirinale, alla presenza del presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, la celebrazione del ‘Giorno del Ricordo’, aperta dalla proiezione di un video di Rai Storia, a cui sono intervenuti il presidente della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati, prof. Giuseppe De Vergottini, lo storico prof. Giovanni Orsina, ordinario di Storia contemporanea alla Luiss ‘Guido Carli’, ed il ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani. La cerimonia si è conclusa con il discorso del Presidente della Repubblica, che ha sottolineato la validità della legge che istituì nel 2004 questo ‘Giorno del Ricordo’:

“La legge sul ‘Giorno del Ricordo’ ha avuto il merito di rimuovere definitivamente la cortina di indifferenza e, persino, di ostilità che, per troppi anni, ha avvolto le vicende legate alle violenze contro le popolazioni italiane vittime della repressione comunista. Negli ultimi decenni la ricerca storica ha prodotto risultati notevoli, scandagliando a fondo gli avvenimenti e riportando alla luce una mole impressionante di fatti, documenti e testimonianze inoppugnabili. Via via sono emersi i nomi e le vicende delle vittime”.

Iniziando l’intervento il presidente della Repubblica Italiana ha invitato a ricordare un periodo di storia ‘doloroso’: “Vessazioni e violenze dure, ostinate, che conobbero eccidi e stragi e, successivamente, l’epurazione attraverso l’esodo di massa. Un carico di sofferenza, di dolore e di sangue, per molti anni rimosso dalla memoria collettiva e, in certi casi, persino negato. Come se le brutali vicende che interessarono il confine orientale italiano e le popolazioni che vi risiedevano da secoli rappresentassero un’appendice minore e trascurabile degli eventi della fosca epoca dei totalitarismi o addirittura non fossero parte della nostra storia”.

Illuminante in questo senso è il libro ‘La Foiba Grande’ in cui Carlo Sgorlon ha raccontato la ‘vita ‘secolare’ dell’Istria, dalla ‘peste nera’ fino agli anni Cinquanta del secolo scorso; ma con la Seconda Guerra Mondiale la terra istriana subisce prima dalle camicie nere, e poi dagli slavi di Tito, ogni sorta di sopruso. Gli italiani sono sostituiti dall’occupazione militare tedesca che non va tanto per il sottile. La gente comincia ad abbandonare in massa tutte le città di mare. Qualunque mezzo: carri agricoli, camion, corriere, traghetti, velieri, è buono per raggiungere Trieste, Ancona o Venezia: “L’esodo andava accelerandosi.

Era un flusso continuo. I profughi vendevano ciò che era possibile, per quattro soldi, il bestiame, la terra, la casa, che peraltro non avevano quasi valore, perché erano minacciati di esproprio, e perché i venditori erano molti e pochissimi i compratori. Spesso le offerte erano così insignificanti che i proprietari preferivano non vendere niente, neanche il mobilio. Lasciavano le loro cose a parenti e amici, che le custodissero in attesa di tempi migliori, di un improbabile ritorno.

Oppure affidavano la loro custodia agli spiriti silenziosi dei morti. Chiudevano accuratamente le imposte delle finestre, consegnavano le chiavi a qualcuno, illudendosi in tal modo di riuscire a influire sul destino della propria casa anche da lontano. Non sembravano rendersi conto che case e campi abbandonati venivano subito presi da nuovi occupanti, per una legge di natura che viene sempre rispettata.

I nuovi venuti erano slavi del sud, gente senza terra, né bestiame, che veniva su dalla Macedonia, dal Kossovo, dal Montenegro, con i capelli neri, la pelle cotta dal sole, poveri vagabondi alla ricerca di una sorte migliore, che, come noi, in modi diversi, apparteneva all’infinito esercito dei profughi, randagi e avventurieri del nostro mondo inquieto”.

Ed aumentavano gli ‘scomparsi’: “Ormai gli scomparsi erano centinaia e centinaia, anzi migliaia, e con maggiore insistenza si parlava di pattuglie di sequestratori. Alcuni erano stati prelevati per la strada, di notte. Erano usciti di casa e non vi avevano più fatto ritorno.

Di altri si diceva che erano stati sequestrati nella loro abitazione, nelle ore piccole, perché di notte la gente dormiva, s’abbandonava al sonno, indifesa e disarmata, e proprio allora qualcuno bussava alla porta, la vittima veniva prelevata, imbavagliata perché non strillasse, poi con il camion spariva nella notte, e del sequestrato non si sapeva più nulla. Come Lidia, o i carabinieri del presidio, o gli scomparsi di Trieste”.

Nelida Milani Kruljac, scrittrice nativa di Pola e già docente all’università di Pola, in ‘Una valigia di cartone’ ha raccontato l’esodo istriano: “Mio padre non era nemmeno un fermo antifascista ma, per naturale disposizione del suo sentire, assai vicino alle loro posizioni, ricche di valori umani e sociali…

La decisione del restare fu tutta sua e di sua madre, mia nonna. Era arrivato il camion per trasportare la roba al Molo Carbon, papà puntellava armadi e sbandize del letto con le traversine, c’è questa percezione acuta del martello che batte, nonna aiutava il camionista a caricare le suppellettili e tra un materasso e un comò tutti e tre si scolavano, chi qua chi là, un bicchiere di bianco. I miei avevano l’osteria alle Baracche.

Quando tutte le masserizie furono stivate, papà e nonna non erano più sobri. Imbriaghi come gli scalini. Una bella sbornia. Provocata dal desiderio inconscio di non essere presenti all’ora, indotta dalla disperazione di abbandonare quella casetta di periferia che quando nonna era arrivata da vedova con quattro figli a carico, non aveva ancora le porte e le finestre.

L’aveva comprata da due fratelli muratori e le porte e le finestre se le sarebbe messe da sola. Quanti sacrifici, quanta fame, quanta miseria sofferti per quella casetta in cui aveva aperto l’osteria e la rivendita di sali e tabacchi.

E lasciar tutto per andare in un mondo sconosciuto? La bala fu determinante, rese più facile lo scaricamento del mobilio e il congedo del camionista e del camion vuoto. Fu questo il restare dei miei. Le zie, gli zii, le cugine partirono, papà e nonna restarono. Mio fratello ed io eravamo fioi, bambini. Fu questo il nostro restare, il mio restare”.

Mentre il poeta triestino Umberto Saba ha messo in versi un ricordo della sua giovinezza, anche se più spirituale: “Nella mia giovinezza ho navigato lungo le coste dalmate. Isolotti a fior d’onda emergevano, ove raro un uccello sostava intento a prede, coperti d’alghe, scivolosi, al sole belli come smeraldi. Quando l’alta marea e la notte li annullava, vele sottovento sbandavano più al largo, per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno è quella terra di nessuno. Il porto accende ad altri i suoi lumi; me al largo sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore”.

Mentre Fulvio Tomizza, con il libro ‘La miglior vita’ è riuscito a dare una visione completa di un popolo spurio, che solo alla fine della prima guerra mondiale si è accorto di essere italiano o slavo, non per scelta individuale, ma in quanto questa suddivisione divenne forzata.

Questa gente, costituita per lo più da poveri contadini e che parlava un dialetto a metà fra l’italiano e il croato, non appena le terre su cui vivevano passarono all’Italia, si trovò improvvisamente, e non autonomamente, italiana.

E così l’italiano divenne quella unica e ufficiale a tutti gli effetti, tanto che durante le messe al celebrante fu imposto di usarla, al posto del latino; a quelli che italiani non erano fu rivolto un deciso invito ad emigrare, ad andare nel neonato stato jugoslavo.

In forza di ciò quelle popolazioni decisero di essere italiane o croate, con fratture insanabili anche all’interno della stessa famiglia, e fu in quella circostanza che non pochi, magari aggiungendo solo una vocale, italianizzarono il loro nome.

E sarà un’altra guerra a rimescolare le carte, a far perdere definitivamente la propria identità a quella popolazione contadina, a quel mondo arcaico che in seno all’impero asburgico conviveva senza problemi, consapevole solo di essere una comunità.

E nel finale scrive: “Oggi 23 gennaio 1975 tremo in tutto il corpo, nessun fuoco riesce a scaldarmi. Non mi resta che mettermi a letto lasciando la porta socchiusa.

Una pronipote di Palmira verrà stasera a portarmi il latte. Ho dato un’occhiata alla finestra lisciando il vetro appannato col dorso della mano, e sono giunto alla scrivania con un estremo sforzo di volontà. Da un sole che non vedevo, sul campanile, sulla chiesa e sul muro bianco di cinta cadeva una luce appena dorata.

Dentro a questa luce tutte le cose liberate della loro pesantezza, quasi svuotate da ogni materialità, parevano mescolarsi e sollevarsi insieme. Scende sulla terra il vuoto dei cieli o su di noi si spalanca la miglior vita? Questo non sapevo, che il mondo muore a ogni morte di un uomo”.

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