Operazione Colomba racconta la vita nei campi profughi del Medio Oriente

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Mons. Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, è atteso in Libano all’inizio di febbraio per una visita che secondo alcune fonti a Beirut preparerà quella di papa Francesco. L’occasione ufficiale del viaggio dell’arcivescovo è un convegno sul tema ‘Giovanni Paolo II e il Libano’, che si svolgerà nei primi giorni di febbraio all’Université du Saint-Esprit, l’ateneo dell’Ordine maronita libanese a Kaslik (a nord di Beirut); inoltre potrebbe essere l’occasione per discutere con le autorità libanesi la possibilità di tenere la visita pastorale di papa Francesco nel Paese attraversato dalla crisi.

E dal confine libanese-siriano arriva una testimonianza di Giada, volontaria dell’associazione da qualche mese nel campo profughi di Tel Abbas, nella regione di Akkar, a nord del Paese, a circa 5 km dal confine con la Siria: “Richieste di aiuto, spesso finanziario per la cura dei tanti bambini ammalati, in un Paese dove la sanità è privata e la crisi economica schiacciante.

Per un siriano, a questa difficoltà, si aggiunge la consapevolezza che, se anche le farmacie possiedono ciò di cui necessita, proprio a causa delle sue origini, i prezzi sono aumentati e talvolta i farmaci non venduti per riservarli alla popolazione locale. Richieste di poter viaggiare verso l’Europa, nella speranza di un futuro migliore. Storie di donne, sole con i loro figli, perché il marito è stato arrestato in Siria. Arrestato perché ricercato, ricercato perché presunto disertore”.

Oppure dal campo profughi di Lesbo, nello scorso dicembre, Djahra ha scritto una lettera a papa Francesco, raccontando la sua storia: “Qualche giorno fa sei venuto al campo di Mavrovouni per incontrarci, per porgerci la tua mano e per guardarci negli occhi.

Sei venuto unicamente per noi, per dare voce a chi, come me, non ce l’ha. Io ero lì, a pochi passi da te. Non ho avuto la possibilità di parlarti e di raccontarti la mia storia, per questo motivo colgo l’occasione di farlo in questa lettera”.

Djahra è una ragazza afghana, di etnia hazara; ha 26 anni e vive con la famiglia nel campo profughi di Mavrovouni, a Lesbo, in un container: “Io per fortuna sono riuscita a concludere il mio percorso di studi prima di fuggire dall’Afghanistan; mi sono laureata in Fisica, l’ho studiata non per il fatto che l’amassi particolarmente ma perché era la facoltà più vicina al mio paesino. Il mio sogno è quello di diventare professoressa.

Però il tempo adesso è bloccato, non ho la possibilità di lavorare, di studiare, di vivere una vita normale e dignitosa… Ora sono veramente stanca. Stanca di vedere i miei familiari soffrire, stanca di vedere continuamente porte chiuse in faccia, stanca di aspettare, di non essere artefice del mio destino”.

Partendo da queste testimonianze chiediamo ad Alberto Capannini, cofondatore insieme a don Oreste Benzi dell’ ‘Operazione Colomba’, che è il Corpo Nonviolento di Pace dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, come è possibile fermare questo naufragio di civiltà, dal momento in cui papa Francesco ha chiamato il Mediterraneo ‘mare mortuum’?

“Il papa ha definito il mar Mediterraneo ‘mare dei morti’: è diventato davvero un grande cimitero. Come rispondere a questa ondata di persone che scappano dalle guerre e scappano della povertà? Le migrazioni sono la risposta dei poveri alla globalizzazione dell’economia e ora anche delle guerre, non solo cioè d’ora in avanti i comportamenti economici avranno un effetto su scala mondiale, ma anche le guerre, da quella siriana in poi avranno conseguenze vastissime.

La risposta ad un problema così grande deve essere su diversi livelli: il primo livello è quello di una accoglienza e di un soccorso su cui non si può che rispondere affermativamente: non possiamo lasciare morire in mare o nelle rotte via terra delle persone che scappano dalle guerre, perché perderemmo la loro vita e la nostra umanità, una perdita incalcolabile. 

Ad un secondo livello è importante pensare in prospettiva e chiedersi perché una grande parte di mondo è diventata così insicura e povera. A fianco alla risposta di emergenza serve una risposta di tipo politico. Facciamo un esempio vicino: la guerra in Siria; se l’unica risposta è di tipo umanitario, cioè diamo da mangiare a questi profughi senza agire anche sulle  responsabilità di chi ha fatto la guerra in Siria, allora significa trattare la guerra come un cataclisma naturale, che accade e non si può prevedere né prevenire e che come società umana possiamo solo accettare che la guerra causi milioni di morti e ancora più profughi. Ma la guerra non è inevitabile e come esseri umani possiamo espellerla dalla storia.

Oggi questo secondo livello interpella direttamente noi,  la società civile, a causa della paralisi   della politica degli stati, incapaci di interventi che non siano umanitari, sta oggi alle persone della società civile attivarsi per cercare risposte politiche che mirino a ridare primato alle esigenze delle popolazioni e non delle potenze militari o dei gruppi di potere terroristi o economici. 

Singoli cittadini, associazioni e gruppi  possono diventare i protagonisti nel sostenere e dare una casa alle proposte alternative alla guerra, proprio ora che stati, cancellerie  internazionali e istituzioni sono fermi o si muovono con ambiguità, a volte condannando guerre e violenze e nello stesso tempo vendendo armi e appoggiando governi non democratici e direttamente responsabili di violenze e guerre. 

Vivendo dal 2014 nelle tende dei campi profughi con i siriani rifugiati in Libano abbiamo raccolto  una proposta elaborata da un gruppo di cittadini e attivisti che chiede di creare zone umanitarie in Siria che diano la possibilità di ritorno sicuro per i siriani, in un territorio ora occupato da forze esterne come forze iraniane ed Hezbollah libanesi; queste persone chiedono che siano chiarite le responsabilità di chi ha ucciso e fatto milioni di profughi e chiedono di essere supportati e difesi nel tornare alle loro case  e nel ricucire i rapporti distrutti da anni di guerra.  

Una proposta quindi che non chiede nessun modo la normalizzazione né tantomeno  una riconoscimento della vittoria ottenuta con torture, arresti e bombardamenti; chiede che ci siamo condizioni di sicurezza garantita da una presenza internazionale. Servono urgentemente nuove politiche e nuove istituzioni che sostengano proposte di questo tipo”.

Perché non si può rimanere indifferenti?

“In realtà si può benissimo rimanere indifferenti, ma a prezzo di perdere la nostra umanità, che è la capacità di entrare in rapporto con gli altri, con chi è diverso da noi. Il vangelo in questo aspetto è molto chiaro, non chiede un’adesione intellettuale al cristianesimo; nella famosa descrizione di Matteo della fine dei tempi dice che si salverà non chi pronuncerà il suo nome (chi dice: ‘Signore  Signore…’) ma chi ha amato il più piccolo, il più povero, che ha vestito chi non aveva vestiti e dato da mangiare a chi non ne aveva. L’adesione al cristianesimo è una decisione molto concreta, non serve dichiararsi cristiani sono i fatti che definiscono chi sei”.

Il Libano sta vivendo una tremenda crisi: in quale modo è possibile purificare la memoria? 

“La situazione del Libano è una crisi collegata in maniera molto stretta alla guerra in Siria; l’intera classe politica libanese non ha avuto la capacità intelligenza il coraggio di ascoltare le proteste popolari, mollare il potere e di affrontare le sfide poste dalla corruzione, dalla presenza di gruppi paramilitari con interessi contrari a quelli della popolazione, dal settarismo che combinati hanno portato alla crisi attuale che ha fatto fallire un intero stato.

Fino a due anni fa sembrava impensabile, ma il Libano è precipitato in una crisi, legata anche alla guerra in Siria, che fa sì che la maggioranza dei libanesi stia cercando un modo per lasciare il Paese; i libanesi sono in mano alle mafie dei partiti, dei gruppi estremisti e dei paramilitari, Hezbollah tra quest’ultimi, che guadagnano potere togliendo sicurezza, ricchezza e futuro a tutto il Paese.

L’occupazione di Hezbollah di vaste zone della Siria contribuisce a rendere impossibile il ritorno dei siriani dal Libano (il Libano ha accolto più profughi dell’intera Europa); la sua forza armata lo rende intoccabile anche davanti a responsabilità mai chiarite come quella nell’esplosione del porto dell’agosto 2020.

‘Uno Stato libero non può convivere con movimenti mafiosi e terroristi’, lo urlavano un anno e mezzo fa i giovani libanesi in piazza, ora che nessun cambiamento politico è avvenuto, a loro resta solo di prendere i barconi dal porto di Tripoli, insieme alle altre vittime della scelta della violenza”.

Quali alternative ci sono per questi profughi?
“La giustizia è che queste persone possano vivere nel loro Paese. E’ ciò che desiderano più di ogni altra cosa. Vivendo con i siriani nei campi profughi abbiamo raccolto le loro proposte anche politiche: vorrebbero tornare a casa loro, vorrebbero non essere sotto il controllo di gruppi armati, chiedono che siano ristabilite responsabilità su chi ha ucciso, fatto vedove e orfani e reso profughi dieci milioni di persone.

Chiedono di essere protetti dalla comunità internazionale. Sta a noi cittadini dare voce a queste proposte che vengono dal futuro. Facciamo una previsione che sa di profezia: o i nostri Paesi, l’Europa, diventano custodi di queste speranze o non avranno futuro”.

Cosa sta facendo l’Operazione Colomba nel Medio Oriente?

“La presenza di Operazione Colomba in Libano è iniziata nel settembre 2013. Dopo alcuni viaggi esplorativi in tutto il Paese, nell’aprile del 2014 è iniziata una presenza fissa nel villaggio di Tel Abbas e in uno dei campi profughi ad esso adiacenti. A Tel Abbas ci sono circa 3000 abitanti di cui 2000 cristiani ortodossi e 1000 musulmani sunniti. Negli ultimi due anni si sono aggiunti 2000 siriani musulmani sunniti.

Questo villaggio si trova a nord del Libano, in una delle regioni più povere e con il maggior numero di profughi, a soli 5 km dal confine con la Siria. Vivere a Tel Abbas permette di condividere la vita e di entrare in relazione con persone di diversa provenienza e appartenenza etnica, politica e religiosa, confrontandosi con posizioni molto diverse rispetto al conflitto siriano.

Nell’estate 2014 un’escalation di violenza tra gruppi jihadisti e militari libanesi ha portato a ritorsioni sia di civili che di militari nei confronti dei profughi siriani. Un campo di siriani adiacente a Tel Abbas è stato minacciato di incendio. Le persone del campo, impaurite, hanno chiesto la presenza protettiva dei volontari (i campi profughi non sono riconosciuti come tali dallo Stato libanese e non possono essere né gestiti né protetti dalle Nazioni Unite).

La presenza si è quindi concentrata sul campo ed è continuata perché effettivamente aiutava a mantenere basso il livello di tensione con i libanesi. E’ stata così costruita una tenda nel campo, come quelle siriane. Da allora i volontari vivono con loro condividendo la quotidianità. Il vivere al campo è diventato indirettamente fonte di sicurezza anche per i libanesi cristiani che, impauriti dalla presenza dell’ISIS nel territorio, vedevano in ogni siriano un potenziale terrorista.

Vivendo al campo si è ‘dimostrato’ che quel posto è privo di pericoli per loro. Si è iniziato inoltre a vivere anche insieme ai libanesi cristiani, qualche giorno al mese, per costruire con loro relazioni di amicizia e di fiducia che permettono ai volontari di fungere da mediatori e costruire ponti di dialogo tra le diverse comunità.

Ed a partire dalla vita nella tenda, i volontari portano avanti alcune attività di condivisione con visite alle famiglie siriane, sopratutto a quelle più fragili e in difficoltà; ascolto delle persone ed sostegno affinché siano esse stesse le prime ad attivarsi nella ricerca di soluzioni alle difficoltà; visite ai libanesi cristiani e musulmani e, grazie ai volontari, che fanno da tramite, si sono create occasioni di relazione tra la comunità locale e i siriani del campo profughi;

lezioni ai bambini nella scuola del campo e organizzazione di momenti di svago e di incontro, soprattutto per i ragazzi, quali partite di calcio e pomeriggi di pesca al fiume; collegamento fra i bisogni dei profughi e le realtà in grado di soddisfarli (UNHCR, ONG, municipalità locale), in quanto ‘Operazione Colomba’ è l’unico gruppo internazionale che vive stabilmente all’interno di un campo profughi;

elaborazione di concrete soluzioni al conflitto siriano ed elaborazione di alternative valide per l’attuale situazione dei profughi, attraverso un lavoro politico svolto a più livelli, in loco, in Italia e nelle sedi internazionali, con rappresentanti istituzionali e della società civile”.

(Tratto da Aci Stampa)

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