Mons. Pompili invita ad una rapida ricostruzione

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A 5 anni dal sisma che il 24 agosto del 2016 provocò 299 vittime ad Amatrice e Arquata del Tronto, sono tornati nel pensiero del vescovo di Rieti, mons. Domenico Pompili, i ricordi del dolore ma anche la speranza di una riedificazione esterna, individuale e come comunità: in quel giorno, alle ore 3.36, un terremoto di magnitudo 6.0 devastò Amatrice e Accumoli, nel Reatino, e Arquata del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno, in particolare la frazione di Pescara del Tronto che venne totalmente schiacciata sotto le macerie.

Era estate e tanti erano i villeggianti in cerca di riposo in questi centri dell’Appennino. Fu anche l’inizio di una serie di eventi sismici che avrebbero colpito Abruzzo, Marche, Umbria e Lazio fino al gennaio 2017: sotto le macerie persero la vita 299 persone, di cui 237 ad Amatrice, 51 ad Arquata (quasi tutte nella frazione di Pescara) e 11 a Accumoli.

Nell’omelia della celebrazione eucaristica mons. Pompili ha ricordato la città biblica cinta da mura e con porte, narrata nel libro dell’Apocalisse: “La città antica era costruita attorno alle mura e alle porte. Mai le une senza le altre. Solo così si stava al sicuro e, al tempo stesso, in relazione.

Prendendo spunto dall’immagine utilizzata dall’Apocalisse nel descrivere la città futura, possiamo spingere lo sguardo su queste ‘terre mosse’dell’Appennino che, dopo anni di incertezza e di ritardi, sembrano avviate finalmente alla loro ricostruzione”.

Però non bisogna solo ricostruire la città fisica, ma anche la città comunitaria: “Ora che la ricostruzione è partita, però, ci si accorge che non basta ri-costruire. Occorre, ancor prima, ‘costruire’ un nuovo rapporto tra l’uomo e l’ambiente: non limitarsi, cioè, a riprodurre le forme del passato, ma lasciarsi provocare dalla natura, che è creativa e aperta al futuro.

Non si tratta, infatti, di un nostalgico recupero della dimensione bucolica, ma di un progetto di investimento economico e di sviluppo demografico, rivolto ad una parte dimenticata del nostro paese, che era tale ben prima del terremoto del 2016”.

Per questo l’invito è stato quello di ripensare il borgo: “Questi borghi, dunque, vanno ripensati perché sono oggi luoghi di grandi potenzialità. Ciò accadrà se stipuleremo un vero e proprio ‘contratto’ tra la città e la montagna. C’è un enorme debito (pensiamo all’acqua potabile, all’aria pulita, al cibo di qualità, al legno degli arredi) che le città hanno maturato verso le aree interne e i loro piccoli insediamenti”.

Il vescovo di Rieti ha ribadito che occorre pensare seriamente ad una vera ‘transizione ecologica’: “E’ arrivato il momento di onorare questo ‘debito’ con un progetto di reciprocità economica. E’ necessario alla transizione ecologica vedere riconosciuto il debito straordinario che avremo verso chi, riabitando i piccoli centri e i borghi, si prenderà cura di un’agricoltura di qualità, dei boschi, del mare, dei laghi, delle coste, del paesaggio ancora bellissimo dell’Italia. Non abbiamo bisogno di nuovi presepi, ma di piccoli centri attivi, a presidio di un territorio ancora straordinario e attraente per l’autenticità dei luoghi”.

Ed ha invitato a ricostruire un ‘ponte’ necessario per lo sviluppo dell’Italia: “Vorrei esprimere una proposta, che so condivisa da tanti e attesa da tanto. Il ‘ponte’, forse il più urgente, da costruire nel nostro paese si chiama l’Italia centrale. Di recente, un’indagine di Bankitalia documentava il ritardo che patisce proprio il Centro-Italia per l’incomprensibile arretratezza delle sue infrastrutture”.

Soprattutto è necessario costruire le infrastrutture di collegamento tra i due mari italiani, citando il poeta Franco Arminio: “Lasciare che qualche centinaio di chilometri tenga ancora oggi separati l’Adriatico e il Tirreno (al netto di una Salaria in via di definizione) è un’imperdonabile leggerezza. Per uscire dal vago, si tratta di decidere se la ‘Ferrovia dei due mari’ sia un’idea da cestinare o da progettare e realizzare qui, ora e subito”.

Ricordando tale decorrenza anche la Coldiretti ha sottolineato la necessità di puntare alla ricostruzione del settore agricolo: “E’ strategico vincere la sfida della ricostruzione post terremoto anche nelle campagne dove le scosse si sono abbattute su circa 25.000 aziende agricole e stalle censite nei 131 comuni terremotati di Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo dove c’è una significativa presenza di allevamenti con oltre 100mila animali tra mucche, pecore e maiali, e un rilevante indotto agroindustriale con caseifici, salumifici e frantoi dai quali si ottengono specialità di pregio famose in tutto il mondo”.

Perciò per la Coldiretti è necessario ricostruire l’economia locale: “Fondamentale ricostruire le comunità locali e frenare lo spopolamento garantendo le condizioni necessarie affinché le persone tornino o restino a vivere e lavorare nelle aree terremotate grazie anche alla solidarietà di tutta l’Italia con una serie di iniziative promosse da Coldiretti che hanno coinvolto tanto gli agricoltori delle altre regioni quanto i cittadini, oltre a consorzi e associazioni”.

Intanto la Coldiretti è intervenuta con alcune operazioni di sostegno economico: si va delle operazioni ‘adotta una mucca’, per dare ospitalità ad almeno 2.000 pecore e mucche sfollate a causa dei crolli delle stalle, a ‘dona un ballone’ di fieno per garantire l’alimentazione del bestiame ma anche la riscoperta dell’antica tradizione agropastorale della ‘paradura’ con la quale i pastori sardi della Coldiretti hanno donato mille pecore ai loro colleghi umbri colpiti dalle scosse per risollevarne le sorti.

(Foto: Diocesi di Rieti)

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