P. Mussie Zerai racconta la situazione nel Tigray

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“Sono particolarmente vicino alla popolazione della regione del Tigray, in Etiopia, colpita da una grave crisi umanitaria che espone i più poveri alla carestia. C’è oggi la carestia, c’è la fame lì. Preghiamo insieme affinché cessino immediatamente le violenze, sia garantita a tutti l’assistenza alimentare e sanitaria, e si ripristini al più presto l’armonia sociale”: così al termine della recita dell’Angelus di domenica 13 giugno papa Francesco ha ricordato la terribile situazione nel Tigray.

Infatti in questa regione etiope, dopo mesi di  braccio di ferro tra potere locale e quello nazionale, nell’autunno scorso si è arrivati allo scontro armato tra forze regionali ed esercito nazionale ed i vescovi hanno denunciato la grave situazione della popolazione: secondo un rapporto dell’Ipc (Integrated phase classification)  sulla sicurezza alimentare, almeno 350.000 persone soffrono già la fame e rischiano la vita, mentre 4.000.000 sono in situazione grave, su una popolazione di poco più di 5.500.000 abitanti.

Per comprendere la situazione abbiamo parlato con lo scalabriniano eritreo, abba Mussie Zerai, il fondatore e presidente dell’ong Habeshia per l’integrazione degli immigrati provenienti dal Corno d’Africa e il sostegno a progetti di rientro nel Paese di origine, che ha raccontato cosa sta avvenendo:

“Nel Tigray è incorso da mesi una guerra orribile dove si profilano crimini di guerra e crimini contro l’umanità con certi tratti di pulizia etnica in certe zone della regione. L’uso sistematico di abusi sessuali, l’isolamento totale con chiusure di ogni via di comunicazione, impedire i passaggi per gli aiuti umanitari in una regione già provata dalla carestia e l’invasione delle locuste che hanno devastato il poco raccolto che poteva garantire la sopravivenza. Ecco cosa ha spinto il papa a fare l’appello: oltre 350.000 persone che rischiano di morire di fame ed oltre 2.000.000 che dipendono dagli aiuti umanitari la loro sopravvivenza, in piena pandemia mondiale.

Addis Abeba nega che sia in corso una guerra: sostiene che si tratterebbe ‘solo’ di una operazione interna di ordine pubblico, per riportare la legalità in una regione caduta in mano a ribelli che si sarebbero messi fuori dalla costituzione.

In realtà è una guerra duplice: una guerra civile fratricida e una guerra regionale nella quale, come alleata del governo e dell’esercito federale etiopico, svolge un ruolo di grande rilievo l’Eritrea, uno stato estero, governato da una dittatura feroce, che da anni vede il suo ‘primo nemico’ nel Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, la formazione politica già a lungo di fatto alla guida dell’intera Etiopia e tuttora leader nello stato regionale di cui si considera l’unica autorità legittima. Forse gli orrori che, secondo varie fonti, starebbero emergendo dipendono proprio da questo combinarsi di fattori”.

In questi ci sono stati molti attacchi alle chiese cattoliche con l’uccisioni di sacerdoti, suore e catechisti: perché si attacca la Chiesa cattolica?

“La Chiesa Cattolica spesso è l’unico faro di giustizia, dignità, diritti alle popolazioni; l’unica ad elevare la voce per dare voce a gli oppressi. Unica istituzione autonome ed indipendente da ogni potere politico o economico. Questa sua indipendenza e autonomia non piace a molti potentati locali o regionali e nazionali”.

Per quale motivo le scuole sono state chiuse?

“Le chiusure delle scuole come le cliniche in Eritrea è figlia di un’ideologia maoista, che il regime di Asmara porta avanti. Il regime vuole creare una società a sua immagine e somiglianza; quindi chi non è allineato alla sua idea di società dove l’individuo è annullato al servizio della macchina dello stato, chi difende la dignità umana, il diritto della persona come individuo e i diritti e le libertà individuale e della comunità è considerato un ostacolo.

Ecco perché il regime di Asmara confisca le scuole e cliniche, per sottrarre ogni spazio di influenza alla Chiesa. Il regime di Afewerki considera la dottrina sociale della Chiesa come politica alternativa alla sua visione di persona, di società e di governo”.

Quindi si potrebbe usare il termine ‘genocidio’?

“Se trovano conferma da una commissione di inchiesta ONU indipendente le notizie e testimonianze che arrivano da molti profughi della regione del Tigray si deve parlare di genocidio. Per questo è urgente l’istituzione di una commissione d’inchiesta internazionale, guidata dall’ONU, per chiarire tutto e fare giustizia”.

Il 9 giugno scorso l’Italia, con un sommesso tweet indiretto da parte dell’Ambasciata Italiana in Etiopia, ha espresso che ‘l’Italia aderisce all’appello internazionale per un cessate il fuoco umanitario in Tigray :la popolazione civile deve essere protetta, le attività agricole devono essere agevolate e l’accesso umanitario deve essere consentito per garantire la sicurezza alimentare a tutto il popolo etiope’: cosa può fare l’Italia?

“L’Italia che è il primo partner europeo del regime di Asmara e può intervenire sul piano diplomatico ed economico in sinergia con tutti gli stati democratici per mettere freno a questo regime che soffoca il popolo da 30 anni. La sua influenza nefasta si vedono oggi in tutta la regione del Corno d’Africa. Il ruolo del regime eritreo nel conflitto in corso nel Tigray non è secondario.

L’Italia ha un debito morale, politico e storico con il popolo eritreo, non con il regime al potere. L’Italia difenda il diritto del popolo eritreo alla libertà, democrazia e prosperità in tutte le sedi istituzionali. Gli Eritrei chiedono questo all’Italia fin dal 1941. L’Italia spesso ha preferito schierarsi con i potenti di turno a discapito del popolo eritreo.

Ecco perché chiediamo al governo Draghi un cambio di passo nelle relazioni diplomatiche con il regime di Asmara che è il più grande produttore di profughi e rifugiati nei ultimi 20 anni. L’Italia ripaghi il suo debito storico al popolo eritreo alzando la sua voce in difesa del popolo oppresso da un regime dispotico”.

Ed intanto la Chiesa eritrea ha eletto suor Tsegereda Yonannes, appartenente alla Congregazione delle Suore Missionarie Comboniane (CMS), Segretario generale della Conferenza dei Vescovi eritrei: quale messaggio per la Chiesa?

“Alla donna in Eritrea è riconosciuto il suo ruolo attivo nella società nei ultimi 60 anni, ci sono diverse figure femminili che hanno ricoperto posizioni di rilievo, anche nella lotta per l’indipendenza del paese hanno un ruolo attivo alla pari con i maschi in tutti settori.

Nella Chiesa Cattolica diverse religiose hanno ricoperto posizione di responsabilità al livello diocesano  o di settori specifici a livello di conferenza Episcopale, oggi ulteriore passo in avanti con la nomina a Segretario della Conferenza Episcopale basato sul merito e capacità, non su basi del genere.

Come giusto che sia la Chiesa è fatta da uomini e donne, quindi la partecipazione attiva della donna nella missione della chiesa è chiaro per tutti, sempre più chiaro dal Concilio Vaticano II in poi, le scelte fatte dai Papi nei ultimi anni sicuramente hanno incoraggiato anche le Chiese Cattoliche Orientali ad aprire alle donne alcuni settori per tradizione erano riservati al clero maschile.

Questa nomina è messaggio positivo soprattutto per le Chiese Orientali  e incoraggia le consacrate e le donne che appartengono alle diverse Chiese di Rito Orientale a partecipare attivamente a tutti livelli canonicamente previsti dalle Chiese Sui Iuris”.

(Tratto da Aci Stampa)

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