Trump, il candidato al Nobel per la pace che divide la Chiesa. Meglio il pro abortista Biden?

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All’indomani del suo insediamento lo chiamavano guerrafondaio, nemico del dialogo tra popoli, l’uomo dei muri non dei ponti. Quanto di più sbagliato per comprendere il complesso presidente in carica degli Stati Uniti, Donald Trump.

Con una candidatura al nobel e nessuna guerra nel suo quadriennio alla Casa Bianca, il Tycoon di New York ha nettamente invertito una tendenza che, restando in politica estera, con Barack Obama aveva raggiunto l’apice di scontri efferati, dalle conseguenze nefaste.

È vero, ha sempre espresso il suo parere negativo contro l’immigrazione incontrollata? È semplice demagogia, parlare di porti aperti, sempre e comunque se alla base si dovrebbe combattere il mercimonio di questi disgraziati.

In realtà infatti sarebbe auspicabile un piano che permetta di sviluppare i Paesi dai quali i poveri migranti fuggono, attratti da uomini privi di scrupoli che gli prospettano l’Eldorado.

E stiamo attenti, non è una posizione razzista, sovranista o priva di umanità. Restando circoscritti all’Africa, sono i vescovi e cardinali locali che invitano i giovani e le famiglie a non abbandonare le proprie case.

Esprimendo tutto il proprio sdegno, ricordo quando il cardinale Robert Sarah, già prefetto della Congregazione del culto divino e la disciplina dei sacramenti, dichiarava che: “Tutti i migranti che arrivano in Europa vengono stipati, senza lavoro, senza dignità. È questo ciò che vuole la Chiesa?

La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa. Se l’Occidente continua per questa via funesta esiste un grande rischio: che esso scompaia, invaso dagli stranieri, come Roma fu invasa dai barbari. Parlo da africano. Il mio Paese è in maggioranza musulmano. Credo di sapere di cosa parlo”.

Dunque perché additare Trump come prototipo internazionale del razzista modello?

Altra questione molto attuale: l’aborto. Non è un mistero che il suo antagonista, Joe Biden, il quale si professa cattolico da rosario in tasca, sia apertamente favorevole alla pratica abortiva, pur essendo in palese contrasto con la sacralità della vita di cui il cristianesimo è intriso.

Il cattivo Trump, invece, non solo ha tagliato i finanziamenti a chi pubblicizza l’aborto, ma ha dato un chiaro segnale: privare di 60 milioni di dollari una delle più note multinazionali abortiste per contrastare l’incontrollata pratica pro morte.

Per tornare alla recentissima candidatura al Nobel, il Presidente made in Usa è riuscito laddove altri suoi illustri predecessori – pompati dalla stampa senza evidenti meriti – hanno fallito. Riuscire a far siglare uno storico accordo di pace tra Israele ed Emirati Arabi Uniti.

Qualcuno potrebbe dire: siamo in campagna elettorale e venderebbe anche l’anima al diavolo per essere rieletto. È possibile, magari è così. Direi inoltre che dietro c’è un fermento economico che muove gli interessi. Ma intanto alla casella guerre in giro per il mondo, dobbiamo segnare un evidenze zero.

In quella di promotore di pace invece c’è un accordo che nell’ottica della geopolitica mondiale, cambia le regole del gioco, anche nei Balcani, una polveriera sempre pronta a esplodere.

Sì perché non si tratta solo di un trattato di non belligeranza tra due popoli, ma è quello che sta nascendo a seguito del medesimo. Altri Stati mediorientali vogliono prenderne parte.

Non è utopico sperare che anche l’Arabia Saudita possa in futuro entrare nell’accordo, fino ad arrivare alla Palestina, con il suo riconoscimento come territorio nazionale.

La candidatura di Donald Trump per il nobel alla pace 2021, non è dunque solo uno spot elettorale per colui che, anche questa volta, era dato per spacciato dalla stampa d’oltreoceano.

Come già accaduto nel 2018 per il summit di Singapore con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, anche in questo caso, contrariamente ai media, dalla Casa Bianca è arrivato un chiaro segnale di rottura rispetto al passato.

Il suo avversario politico, dato per ormai certo futuro presidente degli Usa, con un distacco siderale di ben 15 punti, comincia a dare segni di insofferenza, probabilmente accentuati dalla mancanza di reali proposte da contrapporre al Repubblicano.

E la Chiesa? Il Clero statunitense – così come in Vaticano – è diviso tra i due, ma alla luce dei fatti prodotti da Donald, alla luce di quanto in meno di quattro anni è riuscito a cambiare nello scacchiere politico internazionale, non può continuare a essere diviso.

D’altronde si tratta di coerenza verso chi, pur non professandosi cattolico, ha detto no all’aborto e sì alla pace tra popoli. L’eterna divisione tra le pseudo categoria in voga in Vaticano tra conservatori e progressisti, forse è tempo di metterle da parte per una volta.

La Chiesa sui temi che contano non può esternare divisione e incertezza, perché così c’è il rischio di prestare il fianco ai detrattori, pronti a puntare il dito al primo cenno di fragilità.

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