Tutti gli errori politici del governo e dell’intelligence nella gestione del “caso Romano”. In sette punti

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Prosegue sui giornali, in rete e sui social, il dibattito – sempre più acceso – sul “ritorno” della cooperante convertita all’islam, nell’odiato Occidente.
L’11 maggio ho lasciato la parola a Marco Tosatti, a Agostino Nobile e a Padre Giulio Albanese, senza aggiungere altro di mio, che certamente ne so molto meno di loro.
Nella notte del 12 maggio ho riportato una reazione di Giuliano Guzzo ad un post con cui Enrico Mentana ha fatto una bruttissima figura e nel pomeriggio ho proposto una riflessione di Renato Farina su chi ha incassato il riscatto pagato dall’Italia e un post Facebook di Salvo Sottile su Africa Milele e la sua fondatrice, che ha mandato «allo sbaraglio» Silvia “Aisha” Romano.
Ieri mattina, 13 maggio ho riportato l’Editoriale per La Nuova Bussola Quotidiana di Riccardo Cascioli, che si sofferma su alcuni aspetti del “caso Silvia Romano” che direttamente interrogano la nostra fede cristiana e in serata ho condiviso la reportage di Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti su Ilgiornale.it, con le parole degli islamici di Roma, mentre i piddini si scandalizzano per le parole dell’On. Pagano, ma poi stanno zitti su queste parole di una violenza inaudita da parte degli islamici “moderati” che predicano qui da noi.
Questa mattina, 14 maggio lascio nuovamente la parola a Renato Farina, che su Il Sussidiario fa in modo lucido un elenco di sette punti che centrano direttamente i diversi livelli del “caso Silvia Romano”.

Gli errori dell’Italia che hanno regalato una vittoria al jihad
Dal Kenya al rientro in Italia, passando per il riscatto e la Turchia: tutti gli errori politici del governo e dell’intelligence nella gestione del caso Romano
di Renato Farina
Ilsussidiario.net, 14 giugno 2020

Punto 1. Inderogabile. Lasciamo stare Silvia Romano. Merita l’abbraccio della sua famiglia e il tempo per ritrovare il passo di una vita senza costrizione. Il giudizio politico su questa vicenda è però necessario. Proviamo a elencare i protagonisti (al di fuori – ripeto – della ragazza a cui rivolgiamo l’augurio affettuoso di trovare pienamente se stessa: chi sa come operano gli assassini di Al Shabab non ha alcun dubbio sul trattamento spaventoso ricevuto dalla giovane sequestrata).

Punto 2. Il nostro governo ha operato puntando a un obiettivo corretto. Salvare la cittadina italiana in cattività in Somalia. Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, si è impegnato personalmente, tenendo il filo delle informazioni e del conforto con la famiglia di Silvia, e in foro esterno chiedendo con insistenza il sostegno della potenza lì egemone e alleata nella Nato: la Turchia, che tiene al guinzaglio con investimenti importanti il fragile governo democratico di Mogadiscio.
Intendiamoci, il 60, o forse il 70 per cento dell’area dell’ex colonia italiana è il territorio, non riconosciuto internazionalmente, dello Stato islamico degli Al Shabab (i Giovani). La Turchia, dominando i servizi somali, era in grado con la sua intelligence di avere risultati più sicuri, in un quadro di solidarietà atlantica.

Punto 3. L’intelligence italiana rivendica il successo. Tutto questo è problematico. Per due ragioni. La prima è che i vertici del partito di Erdogan danno il merito dell’operazione ai propri servizi segreti. La seconda è che sarebbe stato pagato un riscatto di 4 o più milioni di dollari ai sequestratori. Gli esperti negano che liberare un ostaggio usando denaro sia un successo. Semmai è il rimedio a una sconfitta. Se ti portano via un’italiana e i servizi segreti in una zona delicata come il Kenia non sono neppure al corrente della sua presenza, vittima probabilissima di bande, vuole dire che non hai il controllo neppure superficiale di un territorio sensibile.

Punto 4. L’errore politico più grave è stata la gestione spettacolare del rientro di una ragazza provata ben al di là delle apparenze, esposta come un trofeo. La decisione di Silvia-Aisha di tenersi a Ciampino la tenuta non da somala, come si è minimizzato, ma una vera e propria divisa da combattente Shabab, come aveva annunciato, si è trasformato in un chiaro messaggio di vittoria propagandistica e persino ideale da parte della formazione somala di cannibali fondamentalisti islamici. Le regole di qualsiasi intelligence impongono ai suoi vertici di comunicare le regole di ingaggio ovvie in questi casi: evitare di consegnare i vertici del nostro Stato a una parata da comprimari dove il fattore dominante erano le insegne del nemico. Oltretutto in questo modo si è trasformata Silvia in un simbolo divisivo, rubandole pace per chissà quanto tempo.

Punto 5. L’Europa, attraverso il suo alto rappresentante per gli Affari Esteri e la Sicurezza, Joseph Borrell, ha commentato la notizia del riscatto pagato censurando il nostro Paese. L’intervista pubblicata su Repubblica al portavoce del gruppo terroristico Al Shabab, Ali Dehere, è stata deflagrante. Costui infatti ha spiegato che i soldi del riscatto serviranno ad acquistare armi per la jihad, cioè ad armare meglio gli assassini e i sequestratori. La cosa più spiacevole è che questo versamento di fondi (magari con un passaggio per le mani dei servizi turchi e somali) è stato negato formalmente da Di Maio e da Conte. La cosa tragica è che Borrell con la sua dichiarazione sembra credere più allo “statista” del Califfato somalo che al nostro governo. Oltretutto, la dichiarazione è ipocrita: non oggi, ma quindici e più anni fa l’intelligence italiana accettò il ruolo di prima linea nelle trattative con i tagliagole islamici per conto di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania, avendo una penetrazione nelle tribù e negli strumenti di comunicazione che gli altri Paesi non avevano. E misero anch’essi a disposizione milioni di dollari. Inezie rispetto agli affari da miliardi di dollari che i medesimi Paesi intrattenevano con Regni ed Emirati finanziatori con cifre ben più consistenti dei movimenti del terrore.

Punto 6. Il bisticcio con la Turchia, l’incapacità di concordare una versione comune dei fatti, dà ragione a chi ritiene che Ankara cercherà di farsi pagare il prezzo dell’aiuto sostenendo le posizioni di Erdogan in Libia e sui giacimenti al largo di Cipro. Un costo salatissimo, altro che quattro milioncini.

Punto 7. Sabato, nell’immediatezza del rilascio, constatammo che questa operazione umanitaria salvifica avrebbe rafforzato sul piano internazionale il prestigio del nostro Paese anche nelle trattative con l’Europa. A una condizione, scrivemmo: “Qui possiamo attingerne in abbondanza, purché non ci si laceri nel distribuire meriti e demeriti”. Maggiore discrezione e raziocinio da parte del governo avrebbe impedito gli scontri interni cui assistiamo, e avrebbe sbugiardato questo attacco proditorio di Bruxelles fatto per indebolirci su questioni economiche sostanziali.

Foto di copertina: il ritorno a casa di Silvia Romano (Foto Lapresse).

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