Prof. Ivo Lizzola: sconfiggere la paura nella comunione

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“La paura è un pericolosissimo motore di conflitti e di difficoltà nel rapporto con l’altro, quando non ha luoghi per passare dentro la parola e l’incontro. Ci si sente così esposti da rendere cieca anche l’evidenza che c’è chi è molto più fragile di noi, verso cui è giusto essere più attenti. La paura, vissuta da soli, ci avvelena. Passare dalla paura alla veglia reciproca è possibile, ma ci vogliono dei percorsi di accompagnamento, di pedagogia sociale. Se non lo facciamo, rischiamo di impedire la costruzione del dopo”.

Partendo da questa riflessione del prof. Ivo Lizzola, docente di pedagogia sociale e di pedagogia della marginalità e della devianza presso l’Università degli Studi di Bergamo, gli abbiamo chiesto di aiutare i lettori a leggere i segnali di questo periodo di coronavirus:

“Un mese fa circa ero in videoconferenza con 600 medici di terapia intensiva, infermieri, personale sanitario, da tutta Italia. In questi professionisti c’è il bisogno urgente di riflettere su ciò che stanno vivendo, sul come reggere la morte, la fatica, l’impossibilità di tornare a casa… E’ emersa anche la fatica nel reggere la paura. La paura è un pericolosissimo motore di conflitti e di difficoltà nel rapporto con l’altro, quando non ha luoghi per passare dentro la parola e l’incontro. La paura, vissuta da soli, ci avvelena”.

Allora quale ‘tempo’ ci attende dopo l’emergenza del coronavirus?

“Queste settimane hanno visto irrompere un evento, imprevisto e incontrollabile che ha spaccato ed aperto il tempo nostro, il tempo della nostra convivenza, il tempo del mondo (delle economie, delle politiche, delle governabilità, delle ragioni tecnico-scientifiche, …) il tempo interiore e personale di ogni uomo e donna. L’evento rompe e sincronizza,  quanto meno intreccia, obbliga ad una certa verità: del riconoscimento e del senso. Certo, non tutti lo colgono, è duro l’evento.

Questo, poi, è un evento drammatico, che travolge sicurezze e continuità.  Impone la paura per il rischio e i limiti imposti alla vita. Non siamo abituati, in tanti, a perdere il controllo, la capacità  di prevedere, di capire. L’evento rompe tutto questo! Certo, anche prima vivevamo grandi rischi (per gli equilibri della biosfera, lo scatenamento di violenze, l’incancrenirsi di odi e odiose diseguaglianze, di sfinimenti esistenziali, …), e molti vivevano vite senza riparo, senza progetto, “scartati” dal merito e dalla prestazione. Ma bastava non vedere, non sentire.

La speranza era già infiacchita e sordastra: anche la questione di Dio era un pò dissolta in moralismi e pratiche ‘private’. Ora l’evento: e il tempo si spacca, e si apre. Alla verità? Speriamo… Mi vien da pensare: e se l’evento fosse il ritorno di Gesù  sulla terra? Troverebbe ancora la fede? Quali reazioni registrerebbe? Ricordiamo ‘La leggenda del Grande Inquisitore’, che Dostoevskij mette al cuore de ‘I fratelli Karamazov’? L’evento è quello, e la paura grande, la voglia di una continuità anche senza speranza è più forte.  Anche dall’evento del ritorno di Gesù Cristo ci si vuol difendere. Vivere un evento è difficile. Ultima a morire, la speranza: e pare una invocazione dei salmi.

E’ invocazione di molti, bella; la sua radice è nella disseminazione della presenza della fraternità sollecita (per chi crede immagine del Padre) nei nostri giorni. Abbiamo sentito i segni di un amore fino alla fine, e oltre, di una attesa e di un perdono, fino alla fine e oltre. In gesti, occhi, presenze, persino in noi! A Sua immagine… La fiducia è un dono ricevuto, nella bellezza, nelle presenze, dell’incanto, nell’impegno, nella cura, nella tenerezza, nell’ansia per la giustizia, della dedizione fraterna. Presenza, promessa mantenuta. Viva. Si aprirà un tempo della promessa?”

Questo tempo di ‘isolamento’ quale influenza avrà nei nostri rapporti?

“C’è chi – miracolosamente ma non sono poche e pochi, sono i semplici ed i poveri, i miti ed i costruttori di pace e di giustizia – riesce nell’isolamento e nella sofferenza a ringraziare i giorni che

ci sono dati, così come sono. Non come li desidereremmo, li vorremmo rendere. Anzi trovando in ciò che è dato, anche in ciò che ci costringe, il desiderio.

Se i giorni stringono non si può che sentire il desiderio della intimità, della pazienza, della essenzialità e del lasciare la presa. Se separano sentire il desiderio di allestire bene la festa del nuovo incontro perché sia più pieno e profondo. La poesia della vita quotidiana, dei giorni feriali, della gratitudine è preziosissima, nella sua semplicità..

Si può conservare nelle privazioni, che per molti sono prove e dolori, un sentire la carezza delle presenze, delle cose, degli auguri buoni delle consolazioni. È come passare per il prato fiorito di sempre guardandone vita e colori, ronzii e calore. Fermarsi e sentirne il canto sommesso.

Passare dalla paura alla veglia reciproca è possibile, ma non avverrà automaticamente: ci vorranno dei percorsi di accompagnamento, di pedagogia sociale. La veglia reciproca chiede l’affidamento gli uni agli altri mentre i tempi che viviamo rischiano di stressare la fiducia sociale, non solo quella verso le istituzioni ma anche quella tra vicini.

Si può fare anche ora, sì. Anzi, bisogna farla ora. Perché se non lo facciamo, rischiamo di impedire la costruzione del dopo. Dobbiamo smettere di rappresentare l’altro come quello che si è difeso, lasciando me esposto. Come si fa? Facendo girare buone storie, buoni racconti.

A Como abbiamo accompagnato molte situazioni in cui le persone erano rose dalle contrapposizioni e dalle rappresentazioni reciproche: mettendo le persone in contatto con storie di buoni incontri e di fiducia, quei costrutti interiori sono venuti meno, i linguaggi sono cambiati e sono avvenuti di nuovo gli incontri. Abbiamo bisogno di abitare rappresentazioni buone. Possiamo dar voce sui media alle pratiche incredibili di volontariato che si stanno moltiplicando: a Bergamo in un solo giorno 350 giovani hanno risposto all’appello ad “adottare” anziani del quartiere per tenere i contatti con loro, aiutarli con la spesa, i farmaci. Con una alleanza intergenerazionale commovente”.

Quale ‘sfida’ comporta questa pandemia per la fede?

“La fede si fa nuda, spogliata dai templi, dura e fragile. Attesa, sospesa. Riscoperta? Fede nel sabato santo: tra venerdì e domenica.  Quanti volti si sono affacciati alle porte delle chiese vuote ed aperte, ai riti ed alle immagini di pastori lontani e addolorati, di Francesco solo sotto la piaggia nell’immensa piazza vuota. Quanti volti, questa Pasqua. Ritirati, raccolti, abbracciati, sospesi, smarriti, dolenti, feriti, sfiduciati…

Anche dubbiosi e increduli, o amari, distanti. Quanti volti son tornati e si sono offerti, come a dire del bisogno di comunione fraterna e amorosa, e della speranza di Resurrezione, di vita nuova, che sentono nella radice e nel desiderio profondo. Che continuano a veder (nella) Promessa e attesa: dai bambini, dagli anziani, da chi tocca povertà.

Speranza semplice e testarda, più forte della prova e dello stordimento della sofferenza. Preziose immagini, preziosi volti (e importante che siano così tanti, così tanti!), anche per i volti che mancano. Che la fatica dei giorni fa muti, senza tratti, senza forza. Andranno cercati, han bisogno di sguardo, di carezza. Per loro per ora il sepolcro è solo vuoto, e tutto è fermo al venerdì.

I volti di questa Pasqua benedicono la loro chiesa, e sanno che, poveramente, dovranno farsi operosa benedizione per i tanti che vivranno dispersione, amarezza, risentimento, o voglia di stordimento e oblio. Volti offerti, esposti, con cicatrici certo, ma con il volo di colomba negli occhi. Volo non superficiale e ingenuo, impossibile dopo queste settimane: volo lucido, tenace, mite, operoso, giusto, essenziale. Generoso nell’annuncio di cieli nuovi e terre nuove”.

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