Dal carcere la Via Crucis si trasforma in Via Lucis

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Nelle meditazioni del Venerdì Santo, che papa Francesco celebra stasera a piazza san Pietro e non al Colosseo a causa del coronavirus, riecheggia la voce della gente che abita il carcere ‘Due Palazzi’ di Padova: detenuti, famiglie, volontari, educatori, poliziotti, magistrati: 14 persone hanno accolto l’invito di papa Francesco per preparare le meditazioni sulla Passione di Gesù, rendendola attuale nelle loro esistenze.

Tra loro ci sono cinque persone detenute, una famiglia vittima per un reato di omicidio, la figlia di un uomo condannato all’ergastolo, un’educatrice del carcere, un magistrato di sorveglianza, la madre di una persona detenuta, una catechista, un frate volontario, un agente della Polizia penitenziaria e un sacerdote accusato e poi assolto definitivamente dalla giustizia dopo otto anni di processo ordinario.

I testi, raccolti dal cappellano don Marco Pozza e dalla volontaria Tatiana Mario, sono stati scritti in prima persona, ma si è scelto di non mettere il nome: chi ha partecipato a questa meditazione ha voluto prestare la sua voce a tutti coloro che, nel mondo, condividono la stessa condizione:

“Contemplare il Calvario da dietro le sbarre è credere che un’intera vita si possa giocare in pochi istanti, com’è accaduto al buon ladrone. Basterà riempire quegli attimi di verità: il pentimento per la colpa commessa, la convinzione che la morte non è per sempre, la certezza che Cristo è l’innocente ingiustamente deriso.

Tutto è possibile a chi crede, perché anche nel buio delle carceri risuona l’annuncio pieno di speranza: ‘Nulla è impossibile a Dio’. Se qualcuno gli stringerà la mano, l’uomo che è stato capace del crimine più orrendo potrà essere il protagonista della risurrezione più inattesa… E’ così che la Via Crucis diventa una Via Lucis”.

La prima meditazione è quella di un ergastolano condannato insieme al padre: dietro le sbarre da quasi un trentennio, racconta la ‘crocifissione’ iniziata da bambino e il pianto ininterrotto nel rileggere le pagine della Passione:

“Dopo 29 anni di galera non ho perduto la capacità di vergognarmi della mia storia passata. Mi sento Barabba, Pietro e Giuda in un’unica persona… Ma Gesù, quell’Uomo innocente, condannato come me, è venuto a cercarmi in carcere per educarmi alla vita”.

La seconda meditazione è scritta da una madre e un padre anziani la cui vita ‘è morta assieme a quella delle nostre due figlie’, ma la carità è più forte dell’odio, anche se la strada non è facile da percorrere: “E’ difficile da dirsi, ma nel momento in cui la disperazione sembra prendere il sopravvento, il Signore, in modi diversi, ci viene incontro, donandoci la grazia di amarci come sposi, sorreggendoci l’uno all’altro pur con fatica. Lui ci invita a tenere aperta la porta della nostra casa al più debole, al disperato, accogliendo chi bussa anche solo per un piatto di minestra”.

Tra le testimonianze più significative quella di un sacerdote che racconta il suo calvario personale, che dopo 8 anni è assolto: “Sono rimasto appeso in croce per dieci anni: è stata la mia via crucis popolata di faldoni, sospetti, accuse, ingiurie. Ogni volta, nei tribunali, cercavo il Crocifisso appeso: lo fissavo mentre la legge investigava sulla mia storia.

La vergogna, per un istante, mi ha condotto al pensiero che sarebbe stato meglio farla finita. Poi, però, ho deciso di rimanere il prete che sono sempre stato. Non ho mai pensato di accorciare la croce, nemmeno quando la legge me lo concedeva. Ho scelto di sottopormi al giudizio ordinario: lo dovevo a me, ai ragazzi che ho educato negli anni del Seminario, alle loro famiglie”.

 L’ultima meditazione è affidata ad un agente di polizia penitenziaria, che come Giuseppe d’Arimatea usa premura al corpo di Gesù: “Non mi vergogno di esercitare il diaconato permanente vestendo la divisa della quale vado orgoglioso. Conosco la sofferenza e la disperazione: le ho provate da bambino su di me.

Il mio piccolo desidero è essere un punto di riferimento per chi incontro tra le sbarre. Ce la metto tutta per difendere la speranza di gente rassegnata a se stessa, spaventata al pensiero di quando un giorno uscirà e rischierà di essere rifiutata ancora una volta dalla società. In carcere ricordo loro che, con Dio, nessun peccato avrà mai l’ultima parola”.

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