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Papa Francesco invita a non perdere la speranza di ricominciare

“Molti di voi si trovano qui, a Roma, come ‘pellegrini di speranza’. Iniziamo questa mattina le udienze giubilari del sabato, che vogliono idealmente accogliere e abbracciare tutti coloro che da ogni parte del mondo vengono a cercare un nuovo inizio. Il Giubileo, infatti, è un nuovo inizio, la possibilità per tutti di ripartire da Dio. Col Giubileo si incomincia una nuova vita, una nuova tappa”: oggi papa Francesco ha iniziato le ‘Udienze giubilari’, che dureranno per tutto l’Anno Santo sul tema della speranza.
Per questo ha sottolineato che la speranza è una virtù teologale: “In questi sabati vorrei evidenziare, di volta in volta, qualche aspetto della speranza. E’ una virtù teologale. E in latino virtus vuol dire ‘forza’. La speranza è una forza che viene da Dio. La speranza non è un’abitudine o un tratto del carattere (che si ha o non si ha), ma una forza da chiedere. Per questo ci facciamo pellegrini: veniamo a chiedere un dono, per ricominciare nel cammino della vita”.
Il tema di questa sua catechesi è stato ‘Sperare è ricominciare – Giovanni Battista’, prendendo spunto dal Vangelo dell’apostolo Luca sul battesimo di Gesù: “Stiamo per celebrare la festa del Battesimo di Gesù e questo ci fa pensare a quel grande profeta di speranza che fu Giovanni Battista. Di lui Gesù disse qualcosa di meraviglioso: che è il più grande fra i nati di donna. Capiamo allora perché tanta gente accorreva da lui, col desiderio di un nuovo inizio, col desiderio di ricominciare. Ed il Giubileo ci aiuta in questo. Il Battista appariva davvero grande, appariva credibile nella sua personalità”.
La Porta Santa giubilare, quindi, è un’occasione per ricominciare: “Come noi oggi attraversiamo la Porta santa, così Giovanni proponeva di attraversare il fiume Giordano, entrando nella Terra Promessa come era avvenuto con Giosuè la prima volta, ricominciare, ricevere la terra da capo, come la prima volta. Sorelle e fratelli, questa è la parola: ricominciare. Mettiamoci questo in testa e diciamo tutti insieme: ‘ricominciare’… Ecco, non dimenticatevi di questo: ricominciare”.
Da qui l’invito di Gesù ad ascoltare la Parola di Dio: “Gesù però, subito dopo quel grande complimento, aggiunge qualcosa che ci fa pensare: ‘Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui’. La speranza, fratelli e sorelle, è tutta in questo salto di qualità. Non dipende da noi, ma dal Regno di Dio. Ecco la sorpresa: accogliere il Regno di Dio ci porta in un nuovo ordine di grandezza. Di questo il nostro mondo, tutti noi abbiamo bisogno!”
Gesù, di fronte alle domande della gente, mostra la strada delle Beatitudini: “Quando Gesù pronuncia quelle parole, il Battista è in carcere, pieno di interrogativi. Anche noi portiamo nel nostro pellegrinaggio tante domande, perché sono molti gli ‘Erode’ che ancora contrastano il Regno di Dio. Gesù, però, ci mostra la strada nuova, la strada delle Beatitudini, che sono la legge sorprendente del Vangelo”.
Da questo momento inizia la speranza, che consiste nell’originalità di Dio: “Da Giovanni Battista, allora, impariamo a ricrederci. La speranza per la nostra casa comune (questa nostra Terra tanto abusata e ferita) e la speranza per tutti gli esseri umani sta nella differenza di Dio. La sua grandezza è diversa. E noi ricominciamo da questa originalità di Dio, che è brillata in Gesù e che ora ci impegna a servire, ad amare fraternamente, a riconoscerci piccoli. E a vedere i più piccoli, ad ascoltarli e a essere la loro voce. Ecco il nuovo inizio, questo è il nostro giubileo”.
Al termine ha ricevuto ha ricevuto una delegazione della catena-cooperativa dei supermercati spagnoli ‘Virgen de las Angustias’ (Covirán) in occasione del 65° anniversario della sua fondazione: “Ho letto con interesse il lavoro che fate come azienda e come fondazione. Questo binomio mi sembra importante, poiché il primo aiuto che possiamo dare alla società è valorizzare il patrimonio di cui disponiamo, con un servizio professionale che risponda ai bisogni reali delle persone e consenta uno sviluppo sostenibile”.
Il tema è quello del lavoro: “La prima cosa è cooperare, lavorare insieme, unire le forze, formare un mosaico, dove tutti sono importanti, ma allo stesso tempo consapevoli che è nell’insieme dove si percepisce la bellezza dell’opera. In secondo luogo, la Vergine Maria, nostra Madre, motivo e modello di questo sforzo, ci affidiamo a Lei in questo tentativo con devozione, e insieme la imitiamo nello spirito che deve presiedere al nostro lavoro”.
E conclude con l’immagine che sta nella basilica della città: “Conoscete tutti bene l’immagine che presiede la Basilica della Carrera de la Virgen. Nostra Madre è davanti a Cristo sdraiata su una tavola, al posto della tradizionale rappresentazione della discesa dalla croce in cui Maria abbraccia suo Figlio. Quella tavola, dove giace Gesù, ci viene presentata come un compito, collocando sul banco del nostro stabilimento, nell’ufficio dell’ufficio, il dolore del mondo che Gesù ha portato al Calvario”.
(Foto: Santa Sede)
Un domenicano ha inventato lo spirito olimpico moderno

“La ‘leggenda’ olimpica descrive il domenicano padre Martin Didon, al secolo Henri Louis Rémy Didon (1840-1900), come guida spirituale di Pierre de Coubertin, il ‘padre dell’olimpismo’, e suo sostegno nella fase iniziale del Movimento olimpico”, così inizia il volume ‘Padre Henry Didon. Un domenicano alle radici dell’olimpismo’ della prof.ssa Angela Teja, già docente di Storia dello sport all’università di Cassino, vicepresidente della Società Italiana di Storia dello sport (Siss), già presidente del Collegio dei Fellows dell’European Committee for Sports History (Cesh), presentato durante le Olimpiadi con la promozione della Fondazione ‘Giovanni Paolo II per lo sport’ a le Prè Catelan di Parigi, sede di Casa Italia.
Da liberale moderato e repubblicano convinto il motto olimpico di p. Didon e dei suoi allievi è affrancato a quello della Francia Repubblicana, fa notare in prefazione al saggio mons. Emmanuel Gobiliard, vescovo di Digne Riez e Sisteron delegato per i Giochi di Parigi 2024: “La ricerca della virtù, fortius, ciò che rende forti e quindi liberi (libertè), l’aspirazione all’altius, alla vetta con il diritto allo sport per tutti (egalitè) che è felicità per la Chiesa che con lo sport, di squadra e individuale va più veloce (citius) e diventa scuola di fraternità” .
Partendo da queste sollecitazioni abbiamo chiesto alla prof.ssa Angela Teja di raccontarci questo libro sulle Olimpiadi: “Per la verità ‘Padre Henri Didon. Un Domenicano alle radici dell’olimpismo’, che quest’anno ho pubblicato con l’editrice AVE all’interno della collana ‘Laudato sì, sport’ curata dalla fondazione ‘Giovanni Paolo II per lo sport’, non è un libro sulle Olimpiadi ma su di un personaggio che si ipotizza sia stato la guida spirituale del loro ‘inventore’, Pierre de Coubertin.
P. Henri Didon è comunque un personaggio molto interessante per la storia dell’olimpismo, e non solo per questa sua illustre amicizia. Egli è un domenicano vissuto nella seconda metà dell’800 che viene solitamente ricordato in occasione dei Giochi olimpici, perché è stato l’inventore del celebre motto olimpico. In realtà è stato soprattutto un intellettuale francese che ha scritto molto, su molti temi, privilegiandone alcuni di tipo spirituale e morale.
Egli infatti è stato un educatore, avendo diretto tra il 1890 e il 1900, anno della sua morte, l’istituto ‘Alberto Magno’ di Arcueil, alla periferia di Parigi. Una scuola che ha praticamente ricostruito. avendola trovata in stato di abbandono. Del resto la Rivoluzione non era passata invano, gli ordini religiosi erano stati aboliti, i loro istituti chiusi.
I Domenicani sono stati i primi a ricostituirsi grazie a grandi personalità come Henri Lacordaire e lo stesso Henri Didon, anche se il processo di laicizzazione in atto non si sarebbe arrestato e in Francia avrebbe portato nel 1905 alla separazione tra Chiesa Stato. L’operato ampio e complesso, direi variegato, multidisciplinare di p. Didon va visto in questo contesto storico, che è poi anche quello della nascita dei Giochi olimpici. In fondo il desiderio di pace e giustizia, libertà e uguaglianza che p. Didon esprime in tutte le sue opere, ben si accordava con l’utopia coubertiniana di un mondo pacificato, senza guerre, in cui si fosse cittadini del mondo”.
Per quale motivo De Coubertin si rivolse a p. Didon?
“Esattamente per quello che dicevamo: Coubertin voleva rivolgersi alle giovani generazioni per formarle in base a principi di uguaglianza, pace e giustizia. Sapeva di dover andare nelle scuole per ottenere dei risultati, ma non in quelle pubbliche, ancora improntate a vecchi metodi in cui veniva privilegiata l’educazione del cogito a discapito della salute fisica, che è anche forza, coraggio patriottico, se non certezza di un futuro migliore con cittadini forti e liberi.
Esattamente quello che Coubertin si augurava per i giovani francesi dopo aver conosciuto e apprezzato i metodi impartiti nei colleges inglesi dove si formavano i quadri dirigenti del futuro Impero britannico. Sarebbero tanti i discorsi da fare, ma fermiamoci all’attenzione che sia Coubertin che p. Didon ebbero per i metodi ‘sportivi’ degli allievi del college di rugby, per nominare quello che ci introduce meglio alla nascita dello sport moderno, anche se entrambi ne conobbero diversi.
Tutti e due erano stati nel Regno Unito e vi avevano conosciuto i giochi all’aperto utilizzati sia come divertimento che come mezzo di educazione e disciplina per gli iscritti nelle public schools. Coubertin cercava dunque a Parigi una scuola dove poter sperimentare quei metodi, e trova in p. Didon un amico che lo aiuterà in pieno per il suo sogno olimpico.
P. Didon conosceva bene quelli dell’antichità, sia per i suoi studi classici, sia perché li aveva ‘praticati’ nel Seminario Minore di Rondeau, molto giovane e già campione negli sport atletici, che qui si rifacevano all’antica agonistica greca. Perchè i Giochi olimpici inventati da Coubertin sono famosi ma non i primi… Del resto già nel Campo di Marte, in piena Rivoluzione, se ne erano disputati nel 1796, esattamente un secolo prima dunque della cosiddetta prima edizione ufficiale ad Atene”.
Come inventò il motto olimpico?
“Per la verità non è stato p. Didon a inventare il motto olimpico, ma i suoi studenti. Era il 1891 e ad Arcueil si svolgevano per la prima volta gare sportive in una scuola francese, nell’Istituto dove Pierre de Coubertin si era recato a proporle trovando il suo rettore, p. Didon, entusiasta e collaborativo. Il primo step del progetto sarebbe stato la nascita di un’Associazione scolastica di sport atletici per organizzarle.
Il metodo pedagogico di p. Didon, improntato all’autodeterminazione per la formazione di cittadini ‘capaci e degni di libertà’, come riportava la brochure di promozione dei corsi all’Alberto Magno, è alla base del secondo step, che è quello di affidare ai ragazzi la completa organizzazione di tutto: elezione dei dirigenti dell’Associazione, definizione dei regolamenti di gara, inno societario e naturalmente il motto latino, da ricamare sul gonfalone dell’Istituto e sulle bandierine disseminate lungo il percorso delle gare. La prima gara è stata una corsa campestre all’inseguimento di ‘lepri’, gli stessi p. Didon e Coubertin, che lasciarono sul terreno come pista da seguire dei pezzetti di carta.
Un motto deve normalmente racchiudere in sintesi le caratteristiche di chi lo produce e questo motto, non possiamo negarlo, è geniale per il suo significato altamente simbolico (sappiamo che il latino ha queste prerogative di sintesi e chiarezza) con cui riesce a rappresentare gli scopi materiali dello sforzo atletico racchiudendone anche la sua essenza spirituale e morale”.
Ma come arrivano gli studenti dell’Istituto ‘Alberto Magno’ a centrare questi tre aggettivi?
“Ipotizzo che la traduzione in latino fosse un suggerimento di chi ben lo conosceva… e che comunque fosse logico che i ragazzi pensassero a un incitamento ad essere più veloci, più forti e a saltare più in alto (in un primo momento era questo l’ordine degli aggettivi, Citius, fortius, altius), anche se nelle intenzioni interpretative di p. Didon c’era dell’altro, un vero e proprio rispecchiarsi della teologia tomista, base della sua formazione di domenicano e dei suoi insegnamenti ad Arcueil.
In questa ottica citius si sarebbe riferito alla Volontà e al suo muoversi velocemente e liberamente verso il Bene universale; altius avrebbe significato la Prudenza, il cui compito è elevare l’uomo all’altezza della sua dignità unitamente alla Sapienza; fortius avrebbe chiaramente rimandato alla Fortezza, la prima delle virtù morali dalle forti connotazioni patriottiche, perché reprime il Timore e modera l’Audacia.
Il famoso motto sarebbe così diventato una rappresentazione concreta della palestra di virtù che p. Didon voleva ‘allestire’ per i suoi ragazzi a fianco degli impianti sportivi, metafora di un mondo perseguibile, se pur a fatica, e comprensibile ai giovani. Quasi che il celebre motto fosse anche il simbolo dell’iniziazione cristiana dei giovani alla vita”.
Quindi per p. Didon l’attività fisica è una virtù?
“L’attività fisica per lui è una virtù ‘psico-morale’, come si trova a dire nel suo celebre discorso al II Congresso Olimpico di Le Havre nel 1897. Egli ha in mente l’intero corpus tomistico riguardo all’apprendimento delle virtù da parte di un buon cristiano, e a Le Havre inizia a esporlo a piccole dosi, sapendo che non tutti lo avrebbero capito e accettato. Non dimentichiamo al momento di forte secolarizzazione che si stava vivendo in Francia. Se leggiamo i suoi discorsi di fine anno ad Arcueil, quelli che faceva a conclusione del percorso formativo annuale rivolgendosi a studenti, genitori, autorità e a quelli che oggi chiameremmo stakeholders dell’Alberto Magno, testi che troviamo riuniti in una raccolta pubblicata nel 1898 (L’Education présente. Discours à la jeunesse), in essi i riferimenti a san Tommaso d’Aquino sono molteplici.
P. Didon stesso scrive di essersi ispirato alla sua teologia, soprattutto alla ‘Summa Theologiae’ ed alla ‘Summa contra Gentiles’. Da qui l’ipotesi di una interpretazione tomista del motto nella recente pubblicazione su p. Didon per i tipi di AVE, mi sembra che possa essere reale. Anche Norbert Müller, tra i maggiori storici dell’olimpismo, aveva fatto cenno a un’interpretazione spirituale del Motto, anche se poi il Comitato Olimpico Internazionale ha sempre preferito valorizzarne il significato materiale e ‘sportivo’”.
Quali erano le finalità di p. Didon?
“Quelle di incitare i giovani a sviluppare la qualità più importante, la Volontà a resistere e a sforzarsi nelle difficoltà, non tanto per essere primi ma per «tirar fuori da sé il meglio che sia possibile». In questo suo programma gli sport atletici servivano a far penetrare nella gioventù «il culto intelligente della forza fisica, della lotta vigorosa, della resistenza fisica e di quella morale al male» come scrive nel primo dei suoi discorsi di fine anno, L’a culture de la Volonté’ (1890). Per lui la volontà è una ‘energia divina’, che ‘comanda e difende, stimola e rallenta, sostiene e contrasta a suo modo tutte le nostre azioni’. Egli sa che la volontà ha il compito di aiutare i giovani a raggiungere le altre virtù, così importanti per la loro formazione di persone fatte di corpo, anima e spirito, tutte componenti allenabili dunque attraverso l’esercizio fisico con tutte le sue potenzialità, anche quelle spirituali”.
Quale è l’attualità pedagogica dell’olimpismo di p. Didon?
“Sono molti i motivi di somiglianza tra la nostra epoca e quella di p. Didon. Si pensi all’irrompere della modernità (oggi di quella virtuale e artificiale), al progresso vertiginoso delle scienze (oggi delle neuroscienze), al processo di secolarizzazione sempre più accentuato, alla grande confusione in cui ci troviamo spesso a vivere con la difficoltà di distinguere il vero dal falso, una preoccupazione identica a quella di p. Didon che ne aveva parlato anche nell’udienza privata con papa Leone XIII, denunciando la gravità di mancanza di discernimento nei giovani.
In questo libro a più riprese si parla di una ipotizzabile attualità del pensiero di p. Didon, il quale ha sempre vissuto immerso nel suo tempo, ‘curioso di tutto’, come ci ricorda il suo massimo biografo, Yvon Tranvouez, anche se il suo metodo pedagogico andava ben al di là dell’olimpismo, inteso questo come un complesso di organismi, strutture, pensieri, tendenze che vanno nella direzione di una vera e propria filosofia di vita, dove l’eccellenza è il massimo degli scopi da raggiungere. Anche per gli antichi l’areté aveva rappresentato il top della vita, il dare il meglio di sé nella ricerca della perfezione, secondo il modello sotteso all’antica kalokagathìa di cui sono ricchi gli scritti di Platone, la ricerca di essere bello e buono, prestante fisicamente e coraggioso, un concetto che attraverso Aristotele sarebbe stato trasmesso a s. Tommaso d’Aquino. Un cerchio che si chiude dunque, dal pensiero pagano a quello cristiano, e in questo caso p. Didon ha saputo cogliere perfettamente il valore e l’essenza dell’antica agonistica e dello sport moderno.
(Tratto da Aci Stampa)
Più volte mi sono trovata a dire che p. Didon è ‘una miniera’ di insegnamenti per la nostra epoca. I suoi scritti, numerosi, multidisciplinari, con un forte interesse alle scienze e alla modernità e quindi un’apertura piena di curiosità per i grandi nuovi eventi della sua epoca, e lo sport lo era di certo, ebbene i suoi scritti aiutano a dare un senso al ‘perché fare sport’. Egli va aldilà della materialità di questo fenomeno affrontando le sue parti ‘invisibili’, seguendo il carisma domenicano di fare apostolato leggendo e attualizzando il Vangelo alla luce dei tempi in cui si vive.
Per questo credo che p. Didon vada ricordato non solo in ambito sportivo, proprio per l’articolazione del suo pensiero, in particolare di quello pedagogico. Pensiamo a quanto sia importante per i giovani imparare ad autodeterminarsi, e lo sport non può che aiutare in questa direzione sviluppando lo spirito di iniziativa personale e la resistenza. In questo modo egli ha incoraggiato i giovani verso l’Ideale che trascende i sensi, il non visibile, verso la perfezione che risiede in Dio. In L’homme d’action, un altro dei suoi discorsi di fine anno del 1895, egli sostiene con vigore che i figli non vanno allevati in un nido protetto, ma vanno loro aperte le porte dell’Ideale, ‘sollevandoli dalla terra e dal fango’. Bisogna andare ‘più in alto che si possa’, ‘verso quel mondo ideale che riempie l’infinito di Dio, della sua chiarezza, della sua bontà, della sua grandezza e della sua perfezione!’.
Con energia e vigore p. Didon mostra dunque come si debba cercare di innalzarsi dalla materialità della vita quotidiana per guardare in Alto, anche attraverso lo sport. Con metodo esperienziale egli ne fa cogliere gli aspetti spirituali, invisibili ma reali nel momento in cui essi procurano la gioia del gioco, a volte incontenibile, l’estasi della vittoria ma anche la consapevolezza, se non si vince, di aver dato il meglio di sé, una grande soddisfazione anche questa. Come dargli torto, soprattutto nella nostra epoca, così fragile e spesso confusa nello stesso ambito sportivo?”
E da qui la nascita anche di un progetto?
“L’attualità del pensiero di p. Henry Didon sarà ricordata in Italia con un progetto di sport nelle carceri, ‘Insieme nello sport’, presentato a ‘Casa Italia’, durante i Giochi di Parigi ed ideato dalla Rete di magistrati ‘Sport e legalità’ in collaborazione con la Fondazione ‘Giovanni Paolo II per lo sport’ ed il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per incoraggiare chi sta in carcere a resistere all’indubbiamente difficile situazione vissuta con la volontà di ricostruirsi uomini ‘capaci e degni di libertà’, per utilizzare una citazione di p. Didon, anche attraverso lo sport e le sue ‘virtù’, che insegnano la convivenza civile, il rispetto delle regole, il fair play, soprattutto saper lavorare dignitosamente insieme”.
(Tratto da Aci Stampa)
Da Catania un invito ad imparare a pregare

“Gioisca il mio cuore nella tua salvezza, e canti al Signore che mi ha beneficato” (Sal 12,6). “Sono parole di gratitudine al Signore quelle che elevo con voi in questo giorno santo, perché per intercessione di Maria Santissima, della nostra patrona sant’Agata, del beato cardinale Dusmet, sono ancora in vita dopo l’infarto che mi ha colpito nelle prime ore di domenica 11 agosto”: è il messaggio che mons. Luigi Renna, arcivescovo della diocesi di Catania, ha scritto alla diocesi siciliana sabato scorso e letto dal vicario generale, mons. Vincenzo Branchina, prima dell’inizio della messa per l’898° anniversario della traslazione delle reliquie di sant’Agata.
Nel messaggio mons. Renna ha sottolineato due momenti di questa situazione appena vissuta: “Dire al Signore ‘Sia fatta la tua volontà’, con quell’abbandono che Sant’Agata ci insegna nel suo martirio. Considerare quanto siano preziosi i sentimenti di fede, di pazienza, di speranza di chi è debole e malato. I malati di ogni tipo sono le persone che più ci insegnano queste virtù…
Ora è tempo di attesa, di seminare speranza, di rendersi saldi nella volontà di Dio. Sant’Agata ci è vicina con la preghiera e l’esempio. Ricordatevi che ogni festa, ogni atto di devozione a Sant’Agata deve portare frutto di bene nella nostra vita, per la città e per il mondo”.
Mentre nell’omelia della festa di sant’Agata il vicario generale ha sottolineato che Gesù è un ‘uomo di preghiera’ e gli apostoli chiedono di insegnar loro a pregare: “Loro non hanno bisogno di formule da recitare, sono pii israeliti, conoscevano e pregavano i salmi, ma sentono la necessità di essere introdotti nella stessa intimità che Lui aveva con Dio. Per questo motivo Gesù consegna loro la preghiera del Padre Nostro. Tale consegna viene fatta anche a noi, mediante il ministero della Chiesa, il giorno del nostro Battesimo. Poter chiamare Dio Abbà, Padre, significa entrare in quella confidenza che toglie ogni forma di paura”.
L’invito di Gesù è quello di chiedere che venga il Regno di Dio: “Chiedendo ‘Venga il tuo Regno!’, stiamo dicendo: ‘Padre, abbiamo bisogno di Te! La nostra città di Catania ha bisogno di Te’. Il regno di Dio si è fatto presente in Gesù, Re dell’Universo, ma il mondo è ancora segnato dal peccato: venti di guerra continuano a soffiare vicino a noi e anche nella nostra città di Catania c’è tanta sofferenza, povertà, criminalità, dispersione scolastica”.
Ed infine la preghiera del ‘Padre Nostro’ insegna a chiedere: “Questa richiesta proviene da una evidenza che spesso dimentichiamo, ovvero che noi siamo creature e tutti i giorni abbiamo bisogno di nutrirci. Chiedere il pane vuol dire ammettere di avere un bisogno e ci fa fuggire dalla presunzione dell’autosufficienza.
Nell’episodio della moltiplicazione dei pani il ‘miracolo’ nasce dallo sguardo pieno di compassione di Gesù verso le folle; dopo aver sfidato i discepoli di dare loro da mangiare, Gesù non ‘crea’ dal nulla il pane, ma moltiplica il poco che è stato messo a disposizione. E’ vero che sono tanti i bisogni del mondo e anche della nostra città.
Sant’Agata invita ciascuno di noi a mettere a disposizione ciò che noi abbiamo e ciò che noi siamo perché il Signore lo moltiplichi e a nessuno manchi il necessario. Non dobbiamo dimenticare che il pane è ‘frutto della terra e del lavoro dell’uomo’ e la terra non porterà alcun frutto, se non riceve dall’alto sole e pioggia. Alla sinergia tra doni di Dio (seme, sole e pioggia) e il lavoro degli uomini si contrappone l’idolatria della ricchezza presente nel cuore superbo dell’uomo”.
L’omelia è stata chiusa con un invito ad imparare a pregare: “Sant’Agata, insegnaci a pregare Dio come hai fatto tu perché possiamo seguire le tue orme nella via della santità”.
(Foto: diocesi di Catania)
Papa Francesco: nell’umiltà Dio si incarna

“Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Novizie partecipanti al corso promosso dall’Unione Superiore Maggiori d’Italia ed auspico che tale incontro susciti in ciascuna il desiderio di aderire sempre più a Cristo e di servire il prossimo nella carità. Io vedo queste novizie e mi domando: quante sono italiane? Poche. C’è una scarsità di vocazioni in Italia: pensiamo e preghiamo per le vocazioni alla vita consacrata”: così al termine dell’udienza generale di oggi papa Francesco, salutando le novizie partecipanti al corso promosso dall’Unione Superiore Maggiori d’Italia, ha rivolto un pensiero alla mancanza di vocazioni.
Inoltre ha invitato a pregare per la pace nel mondo: “Abbiamo bisogno di pace. Il mondo è in guerra. Non dimentichiamo la martoriata Ucraina che sta soffrendo tanto. Non dimentichiamo la Palestina e Israele: che si fermi, questa guerra. Non dimentichiamo il Myanmar. E non dimentichiamo tanti Paesi in guerra. Fratelli e sorelle, bisogna pregare per la pace in questo tempo di guerra mondiale”.
Mentre nell’udienza generale il papa ha concluso le catechesi Il Papa su ‘I vizi e le virtù’, incentrando la riflessione sull’umiltà, fondamento della vita cristiana: “Essa è la grande antagonista del più mortale tra i vizi, vale a dire la superbia. Mentre l’orgoglio e la superbia gonfiano il cuore umano, facendoci apparire più di quello che siamo, l’umiltà riporta tutto nella giusta dimensione: siamo creature meravigliose ma limitate, con pregi e difetti. La Bibbia dall’inizio ci ricorda che siamo polvere e in polvere ritorneremo, ‘umile’ infatti deriva da humus, cioè terra. Eppure nel cuore umano sorgono spesso deliri di onnipotenza, tanto pericolosi, e questo ci fa tanto male”.
Secondo il papa l’umiltà è base di tutte le virtù: “Per liberarci dalla superbia basterebbe molto poco, basterebbe contemplare un cielo stellato per ritrovare la giusta misura… Beate le persone che custodiscono in cuore questa percezione della propria piccolezza! Queste persone sono preservate da un vizio brutto: l’arroganza.
Nelle sue Beatitudini, Gesù parte proprio da loro: ‘Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli’. E’ la prima Beatitudine perché sta alla base di quelle che seguono: infatti la mitezza, la misericordia, la purezza di cuore nascono da quel senso interiore di piccolezza. L’umiltà è la porta d’ingresso di tutte le virtù”.
E nella piccola Nazaret si incarna il Verbo: “Ma è proprio da lì che il mondo rinasce. L’eroina prescelta non è una reginetta cresciuta nella bambagia, ma una ragazza sconosciuta: Maria. La prima ad essere stupita è lei stessa, quando l’angelo le porta l’annuncio di Dio. E nel suo cantico di lode, risalta proprio questo stupore: ‘L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva’. Dio, per così dire, è attratto dalla piccolezza di Maria, che è soprattutto una piccolezza interiore. Ed è attratto anche dalla nostra piccolezza, quando noi la accettiamo”.
Ecco il motivo per cui dopo l’annuncio dell’arcangelo Gabriele la Madonna si mette in cammino per andare a trovare la sorella: “La sua prima decisione dopo l’annuncio angelico è andare ad aiutare, andare a servire la cugina. Maria si dirige verso i monti di Giuda, per fare visita a Elisabetta: la assiste negli ultimi mesi di gravidanza. Ma chi vede questo gesto? Nessuno, se non Dio. Da questo nascondimento, la Vergine sembra non volere uscire mai…
Nemmeno la verità più sacra della sua vita, l’essere Madre di Dio, diventa per lei motivo di vanto davanti agli uomini. In un mondo che è una rincorsa ad apparire, a dimostrarsi superiori agli altri, Maria cammina decisamente, con la sola forza della grazia di Dio, in direzione contraria”.
E’ stata proprio l’umile fede della Madonna a rendere salda la Chiesa, questa è stata la conclusione della catechesi: “Possiamo immaginare che anche lei abbia conosciuto momenti difficili, giorni in cui la sua fede avanzava nell’oscurità. Ma questo non ha mai fatto vacillare la sua umiltà, che in Maria è stata una virtù granitica. Questo voglio sottolinearlo: l’umiltà è una virtù granitica. Pensiamo a Maria: lei è sempre piccola, sempre spoglia di sé, sempre libera da ambizioni.
Questa sua piccolezza è la sua forza invincibile: è lei che rimane ai piedi della croce, mentre l’illusione di un Messia trionfante va in frantumi. Sarà Maria, nei giorni precedenti la Pentecoste, a raccogliere il gregge dei discepoli, i quali non erano stati capaci di vegliare un’ora soltanto con Gesù, e lo avevano abbandonato al sopraggiungere della tempesta”.
Prima dell’Udienza generale papa Francesco ha ricevuto la Delegazione dell’Hong Kong Christian Council ricordando il martirio dei cristiani: “Il martirio della fede sempre c’è nella storia delle nostre Chiese, sempre, non è vero? Andiamo avanti.
Una cosa molto bella è accaduta quando Paolo VI è andato in Uganda. Ha parlato dei martiri cattolici e anglicani. Sono martiri. E io stesso, quando sono stati martirizzate quelle persone copte, ho subito detto che sono martiri anche ‘nostri’, sono martiri di tutti. Ci sono due battesimi: uno, che abbiamo tutti noi (il Battesimo che abbiamo ricevuto), l’altro, quello che il Signore dice ‘il Battesimo del sangue’: il martirio. E tutti noi sappiamo cosa è il martirio di tanti cristiani che hanno dato la vita per la fede”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: la speranza è la virtù di chi ha un cuore giovane

Al termine dell’udienza generale papa Francesco oggi ha elevato la ‘supplica’ alla Madonna del Rosario di Pompei per la pace nel mondo: “Oggi la Chiesa eleva la preghiera della ‘Supplica’ alla Madonna del Rosario di Pompei. Invito tutti ad invocare l’intercessione di Maria, affinché il Signore conceda pace al mondo intero, specialmente alla cara e martoriata Ucraina, alla Palestina, e a Israele, al Myanmar. Affido in particolare alla nostra Madre i giovani, gli ammalati, gli anziani e gli sposi novelli che oggi sono qui presenti, ed esorto tutti a valorizzare in questo mese di maggio la preghiera del santo Rosario”.
Ugualmente ai fedeli francesi ha ripetuto che la pace è possibile: “Di fronte a un futuro che a volte può sembrare buio, cerchiamo di essere seminatori di speranza e tessitori di bene, convinti che la vita può essere vissuta in modo diverso e che la pace è possibile”.
In precedenza In precedenza, proseguendo il ciclo su ‘I vizi e le virtù’, il papa aveva dedicato la catechesi alla speranza, secondo la definizione del Catechismo della Chiesa cattolica, paragonandola ad un anelito di felicità:
“Se non c’è un senso al viaggio della vita, se all’inizio e alla fine c’è il nulla, allora ci domandiamo perché mai dovremmo camminare: da qui nasce la disperazione dell’uomo, la sensazione della inutilità di tutto. E molti potrebbero ribellarsi: mi sono sforzato di essere virtuoso, di essere prudente, giusto, forte, temperante. Sono stato anche un uomo o una donna di fede… A che cosa è servito il mio combattimento se tutto finisce qui? Se manca la speranza, tutte le altre virtù rischiano di sgretolarsi e di finire in cenere”.
E la speranza per il cristiano appoggia sulla vita risorta: “Il cristiano ha speranza non per merito proprio. Se crede nel futuro è perché Cristo è morto e risorto e ci ha donato il suo Spirito. ‘La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente’. In questo senso, ancora una volta, noi diciamo che la speranza è una virtù teologale: non promana da noi, non è una ostinazione di cui vogliamo autoconvincerci, ma è un regalo che viene direttamente da Dio”.
Infatti, secondo l’apostolo Paolo, se non ci fosse stata la Resurrezione la vita sarebbe stata vana: “A tanti cristiani dubbiosi, che non erano completamente rinati alla speranza, l’apostolo Paolo pone davanti la logica nuova dell’esperienza cristiana:
‘Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini’. E’ come se dicesse: se credi nella risurrezione di Cristo, allora sai con certezza che nessuna sconfitta e nessuna morte è per sempre. Ma se non credi nella risurrezione di Cristo, allora tutto diventa vuoto, perfino la predicazione degli Apostoli”.
Inoltre il papa sottolinea che non credere alla speranza è un peccato: “La speranza è una virtù contro cui pecchiamo spesso: nelle nostre cattive nostalgie, nelle nostre malinconie, quando pensiamo che le felicità del passato siano sepolte per sempre. Pecchiamo contro la speranza quando ci abbattiamo davanti ai nostri peccati, dimenticando che Dio è misericordioso ed è più grande del nostro cuore”.
Credere alla speranza significa quindi credere nel perdono: “Non dimentichiamo questo, fratelli e sorelle: Dio perdona tutto, Dio perdona sempre. Siamo noi a stancarci di chiedere perdono. Ma non dimentichiamo questa verità: Dio perdona tutto, Dio perdona sempre. Pecchiamo contro la speranza quando ci abbattiamo davanti ai nostri peccati; pecchiamo contro la speranza quando in noi l’autunno cancella la primavera; quando l’amore di Dio cessa di essere un fuoco eterno e non abbiamo il coraggio di prendere decisioni che ci impegnano per tutta la vita”.
E tutti hanno bisogno di speranza: “Il mondo ha bisogno della speranza, come ha tanto bisogno della pazienza, una virtù che cammina a stretto contatto con la speranza. Gli uomini pazienti sono tessitori di bene. Desiderano ostinatamente la pace, e anche se alcuni hanno fretta e vorrebbero tutto e subito, la pazienza ha la capacità dell’attesa. Anche quando intorno a sé molti hanno ceduto alla disillusione, chi è animato dalla speranza ed è paziente è in grado di attraversare le notti più buie. Speranza e pazienza vanno insieme”.
Ha concluso la catechesi con l’invito ad esclamare le parole di Simeone nel cantico, appena visto Gesù nel tempio: “La speranza è la virtù di chi ha il cuore giovane; e qui non conta l’età anagrafica. Perché ci sono anche vecchi con gli occhi pieni di luce, che vivono una tensione permanente verso il futuro. Pensiamo a quei due grandi vecchi del Vangelo, Simeone e Anna: non si stancarono mai di attendere e videro l’ultimo tratto del loro cammino benedetto dall’incontro con il Messia, che riconobbero in Gesù, portato al Tempio dai suoi genitori. Che grazia se fosse così per tutti noi!”
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: la fede non oscura la ragione

“Oggi, primo maggio, con tutta la Chiesa facciamo memoria di san Giuseppe Lavoratore ed iniziamo il mese mariano. Pertanto, a ciascuno di voi vorrei riproporre la santa Famiglia di Nazaret come modello di comunità domestica: comunità di vita, di lavoro e di amore”: anche se piove papa Francesco ha tenuto l’udienza generale in aula Paolo VI, riproponendo la famiglia di Nazaret come modello di vita.
Ed ha esortato a pregare per la pace nel mondo: “E poi non dimentichiamo di pregare per la pace: preghiamo per i popoli che sono vittime della guerra. La guerra sempre è una sconfitta, sempre. Pensiamo alla martoriata Ucraina che soffre tanto.
Pensiamo agli abitanti della Palestina e di Israele, che sono in guerra. Pensiamo ai Rohingya, al Myanmar, e chiediamo la pace. Chiediamo la vera pace per questi popoli e per tutto il mondo. Purtroppo oggi gli investimenti che danno più reddito sono le fabbriche delle armi. Terribile, guadagnare con la morte. Chiediamo la pace, che vada avanti la pace”.
Mentre in lingua inglese ha ricordato il Kenya, travolto da un’alluvione: “Desidero inoltre trasmettere al popolo del Kenya la mia vicinanza spirituale in questo momento in cui una grave alluvione ha tragicamente tolto la vita a molti nostri fratelli e sorelle, ferendone altri e causando una diffusa distruzione. Vi invito a pregare per tutti coloro che stanno subendo gli effetti di questo disastro naturale. Anche in mezzo alle avversità, ricordiamo la gioia di Cristo risorto. Invoco su di voi e sulle vostre famiglie l’amore misericordioso di Dio nostro Padre”.
Ed in lingua polacca ha ricordato la dedicazione alla Madonna della Polonia: “Durante le preghiere del mese di maggio, confidate alla Madonna le vostre vicende personali e familiari, così come le sofferenze di quanti sono vittime delle guerre. Pregate per la Chiesa, per la Patria, per la pace in Ucraina e in Medio Oriente. Maria, che cento anni fa Pio XI istituì come Regina per tutta la Polonia, vi sostenga e vi guidi”.
Nell’udienza generale, continuando il ciclo di catechesi su ‘I vizi e le virtù’, papa Francesco ha incentrato la riflessione sul tema ‘La fede’, che insieme con la carità e la speranza, questa virtù è detta ‘teologale’: “Le virtù teologali sono tre: fede, speranza e carità. Perché sono teologali?
Perché le si può vivere solo grazie al dono di Dio. Le tre virtù teologali sono i grandi doni che Dio fa alla nostra capacità morale. Senza di esse noi potremmo essere prudenti, giusti, forti e temperanti, ma non avremmo occhi che vedono anche nel buio, non avremmo un cuore che ama anche quando non è amato, non avremmo una speranza che osa contro ogni speranza”.
Ed il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega bene cosa è la fede: “…la fede è l’atto con cui l’essere umano si abbandona liberamente a Dio (n. 1814). In questa fede, Abramo è stato il grande padre. Quando accettò di lasciare la terra dei suoi antenati per dirigersi verso la terra che Dio gli avrebbe indicato, probabilmente sarà stato giudicato folle: perché lasciare il noto per l’ignoto, il certo per l’incerto? Ma perché fare quello? E’ pazzo? Ma Abramo parte, come se vedesse l’invisibile…
Abramo diventa padre di una lunga schiera di figli. La fede lo ha reso fecondo. Uomo di fede sarà Mosè, il quale, accogliendo la voce di Dio anche quando più di un dubbio poteva scuoterlo, continuò a restare saldo e a fidarsi del Signore, e persino a difendere il popolo che invece tante volte mancava di fede”.
Anche la Madonna fu donna di fede: “E con il cuore pieno di fede, con il cuore pieno di fiducia in Dio, Maria parte per una strada di cui non conosce né il tracciato né i pericoli. La fede è la virtù che fa il cristiano. Perché essere cristiani non è anzitutto accettare una cultura, con i valori che l’accompagnano, ma essere cristiano è accogliere e custodire un legame, un legame con Dio: io e Dio; la mia persona e il volto amabile di Gesù. Questo legame è quello che ci fa cristiani”.
Una sottolineatura importante è sul rapporto tra ragione e fede: “Ecco, dunque, la grande nemica della fede: non è l’intelligenza, non è la ragione, come, ahimè, qualcuno continua ossessivamente a ripetere, ma la grande nemica della fede è la paura. Per questo motivo la fede è il primo dono da accogliere nella vita cristiana: un dono che va accolto e chiesto quotidianamente, perché si rinnovi in noi. Apparentemente è un dono da poco, eppure è quello essenziale”.
Nel battesimo un genitore chiede per il figlio il battesimo con consapevolezza: “Per un genitore cristiano, consapevole della grazia che gli è stata regalata, quello è il dono da chiedere anche per suo figlio: la fede. Con essa un genitore sa che, pur in mezzo alle prove della vita, suo figlio non annegherà nella paura. Ecco, il nemico è la paura. Sa anche che, quando cesserà di avere un genitore su questa terra, continuerà ad avere un Dio Padre nei cieli, che non lo abbandonerà mai. Il nostro amore è così fragile, e solo l’amore di Dio vince la morte”.
Per questo il papa ha invitato tutti a chiedere a Dio di aumentare la fede: “Però è il dono più felice, l’unica virtù che ci è concesso di invidiare. Perché chi ha fede è abitato da una forza che non è solo umana; infatti, la fede ‘innesca’ la grazia in noi e dischiude la mente al mistero di Dio… Perciò anche noi, come i discepoli, gli ripetiamo: Signore, aumenta la nostra fede!”
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: le virtù teologali caratterizzano la vita cristiana

“Sabato prossimo ricorre il decimo anniversario della canonizzazione di San Giovanni Paolo II. Guardando la sua vita, possiamo vedere che cosa può raggiungere l’uomo accettando e sviluppando in sé i doni di Dio: fede, speranza e carità. Rimanete fedeli alla sua eredità. Promuovete la vita e non lasciatevi ingannare dalla cultura della morte. Per sua intercessione, chiediamo a Dio il dono della pace per la quale egli, come Papa, si è tanto impegnato”: al termine dell’udienza generale odierna papa Francesco ha ricordato, in lingua polacca, il decimo anniversario della canonizzazione di san Giovanni Paolo II. Eppoi ha lanciato un appello per la pace, ricordando che con la guerra guadagnano solo i fabbricanti di armi:
“E poi il pensiero va alla martoriata Ucraina, alla Palestina, a Israele, al Myanmar che sono in guerra, e a tanti altri Paesi. La guerra sempre è una sconfitta, e quelli che guadagnano di più sono i fabbricatori di armi. Per favore, preghiamo per la pace! Preghiamo per la martoriata Ucraina: soffre tanto, tanto. I soldati giovani vanno a morire. Preghiamo. E preghiamo anche per il Medio Oriente, per Gaza: si soffre tanto lì, nella guerra. Per la pace tra Palestina e Israele, che siano due Stati, liberi e con buoni rapporti”.
In precedenza, proseguendo il ciclo delle catechesi su ‘I vizi e le virtù’, papa Francesco aveva incentrato la riflessione sul tema ‘La vita di grazia secondo lo Spirito’, che affronta le virtù teologali: “Già prima di Cristo si predicava l’onestà come dovere civile, la sapienza come regola delle azioni, il coraggio come ingrediente fondamentale per una vita che tende verso il bene, la moderazione come misura necessaria per non essere travolti dagli eccessi”.
Per il papa le virtù sono un patrimonio dell’umanità, che il cristianesimo ha saputo valorizzare: “Questo patrimonio tanto antico, patrimonio dell’umanità, non è stato sostituito dal cristianesimo, ma messo bene a fuoco, valorizzato, purificato e integrato nella fede. C’è dunque nel cuore di ogni uomo e donna la capacità di ricercare il bene. Lo Spirito Santo è donato perché chi lo accoglie possa distinguere chiaramente il bene dal male, avere la forza per aderire al bene rifuggendo dal male e, così facendo, raggiungere la piena realizzazione di sé”.
In base ad una definizione del Catechismo della Chiesa cattolica la vita del cristiano si basa anche su altre tre virtù: “Essa si attua con il dono di altre tre virtù, prettamente cristiane, che spesso vengono nominate insieme negli scritti del Nuovo Testamento. Questi atteggiamenti fondamentali, che caratterizzano la vita del cristiano, sono tre virtù che noi diremo adesso insieme: la fede, la speranza e la carità”.
E sono definite ‘teologali’, in quanto completano la vita ‘buona’ del cristiano: “Gli scrittori cristiani le hanno ben presto chiamate virtù ‘teologali’, in quanto si ricevono e si vivono nella relazione con Dio, per differenziarle dalle altre quattro chiamate ‘cardinali’, in quanto costituiscono il ‘cardine’ di una vita buona. Queste tre sono ricevute nel Battesimo e vengono dallo Spirito Santo. Le une e le altre, sia le teologali sia le cardinali, accostate in tante riflessioni sistematiche, hanno così composto un meraviglioso settenario, che spesso viene contrapposto all’elenco dei sette vizi capitali”.
La virtù teologale permette di non agire con arroganza: “Mentre il rischio delle virtù cardinali è quello di generare uomini e donne eroici nel compiere il bene, ma tutto sommato soli, isolati, il grande dono delle virtù teologali è l’esistenza vissuta nello Spirito Santo. Il cristiano non è mai solo.
Compie il bene non per un titanico sforzo di impegno personale, ma perché, come umile discepolo, cammina dietro al Maestro Gesù. Lui va avanti nella via. Il cristiano ha le virtù teologali che sono il grande antidoto all’autosufficienza. Quante volte certi uomini e donne moralmente ineccepibili corrono il rischio di diventare, agli occhi di chi li conosce, presuntuosi e arroganti!”
La catechesi è una ‘condanna’ della superbia: “La superbia è un veleno potente: ne basta una goccia per guastare tutta una vita improntata al bene. Una persona può avere compiuto anche una montagna di opere benefiche, può aver mietuto riconoscimenti ed encomi, ma se tutto ciò l’ha fatto solo per sé stesso, per esaltare sé stessa, può dirsi ancora una persona virtuosa? No!”
Però ha ricordato anche che il bene è un modo di vita: “Il bene non è solo un fine, ma anche un modo. Il bene ha bisogno di tanta discrezione, di molta gentilezza. Il bene ha bisogno soprattutto di spogliarsi di quella presenza a volte troppo ingombrante che è il nostro io. Quando il nostro ‘io’ è al centro di tutto, si rovina tutto. Se ogni azione che compiamo nella vita la compiamo solo per noi stessi, è davvero così importante questa motivazione? Il povero ‘io’ si impadronisce di tutto e così nasce la superbia”.
Quindi le virtù teologali aiutano a compiere le necessarie correzioni: “Lo sono soprattutto nei momenti di caduta, perché anche coloro che hanno buoni propositi morali a volte cadono. Tutti cadiamo, nella vita, perché tutti siamo peccatori. Come anche chi si esercita quotidianamente nella virtù a volte sbaglia (tutti sbagliamo nella vita): non sempre l’intelligenza è lucida, non sempre la volontà è ferma, non sempre le passioni sono governate, non sempre il coraggio sovrasta la paura”.
Ed ha concluso la catechesi con l’invito a vivere secondo lo Spirito Santo: “Ma se apriamo il cuore allo Spirito Santo (il Maestro interiore), Egli ravviva in noi le virtù teologali: allora, se abbiamo perso la fiducia, Dio ci riapre alla fede (con la forza dello Spirito, se abbiamo perso la fiducia, Dio ci riapre alla fede); se siamo scoraggiati, Dio risveglia in noi la speranza; e se il nostro cuore è indurito, Dio lo intenerisce col suo amore”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: la fortezza aiuta a sconfiggere le paure

“E il mio pensiero va alla martoriata Ucraina e alla Palestina e Israele. Che il Signore ci dia la pace! La guerra è dappertutto, non dimentichiamo il Myanmar, ma chiediamo al Signore la pace e non dimentichiamo questi nostri fratelli e sorelle che soffrono tanto in questi posti di guerra. Preghiamo insieme e sempre per la pace”.
Al termine dell’udienza generale odierna papa Francesco ha chiesto di pregare per la pace, che è assente in molti Paesi, rivolgendo una preghiera particolare al Myanmar ed alla popolazione del Kazakhistan, sommersa da alluvioni:
“Desidero inoltre trasmettere al popolo del Kazakistan la mia vicinanza spirituale in questo momento, in cui una massiccia alluvione ha colpito molte regioni del Paese e ha causato l’evacuazione di migliaia di persone dalle loro case. Invito tutti a pregare per tutti coloro che stanno subendo gli effetti di questo disastro naturale. Anche nei momenti di difficoltà, ricordiamo la gioia di Cristo risorto e invoco su di voi e sulle vostre famiglie l’amore misericordioso di Dio nostro Padre”.
Invece continuando il ciclo di catechesi su ‘I vizi e le virtù’, nell’udienza generale il papa ha incentrato la riflessione sulla terza virtù cardinale, che è la ‘fortezza’, partendo dalla definizione del Catechismo della Chiesa cattolica al n^ 1808:
“Partiamo dalla descrizione che ne dà il Catechismo della Chiesa Cattolica: ‘La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della fortezza rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni’. Così dice il Catechismo della Chiesa Cattolica sulla virtù della fortezza”.
Perciò la fortezza è una virtù ‘combattiva’: “Ecco, dunque, la più ‘combattiva’ delle virtù. Se la prima delle virtù cardinali, vale a dire la prudenza, era soprattutto associata alla ragione dell’uomo; e mentre la giustizia trovava la sua dimora nella volontà; questa terza virtù, la fortezza, è spesso legata dagli autori scolastici a ciò che gli antichi chiamavano ‘appetito irascibile’. Il pensiero antico non ha immaginato un uomo senza passioni: sarebbe un sasso. E non è detto che le passioni siano necessariamente il residuo di un peccato, però esse vanno educate, vanno indirizzate, vanno purificate con l’acqua del Battesimo, o meglio con il fuoco dello Spirito Santo”.
Quindi ha ribadito che il cristiano deve avere passioni: “Un cristiano senza coraggio, che non piega al bene la propria forza, che non dà fastidio a nessuno, è un cristiano inutile. Pensiamo a questo! Gesù non è un Dio diafano e asettico, che non conosce le emozioni umane. Al contrario. Davanti alla morte dell’amico Lazzaro scoppia in pianto; e in certe sue espressioni traspare il suo animo appassionato, come quando dice: ‘Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!’; e davanti al commercio nel tempio ha reagito con forza. Gesù aveva passione”.
La fortezza ha due movimenti, ad intra ed ad extra; quello verso il noi permette di combattere i propri egoismi: “Il primo è rivolto dentro noi stessi. Ci sono nemici interni che dobbiamo sconfiggere, che vanno sotto il nome di ansia, di angoscia, di paura, di colpa: tutte forze che si agitano nel nostro intimo e che in qualche situazione ci paralizzano. Quanti lottatori soccombono prima ancora di iniziare la sfida! Perché non si rendono conto di questi nemici interni.
La fortezza è una vittoria anzitutto contro noi stessi. La maggior parte delle paure che nascono in noi sono irrealistiche, e non si avverano per nulla. Meglio allora invocare lo Spirito Santo e affrontare tutto con paziente fortezza: un problema alla volta, come siamo capaci, ma non da soli! Il Signore è con noi, se confidiamo in Lui e cerchiamo sinceramente il bene. Allora in ogni situazione possiamo contare sulla Provvidenza di Dio che ci fa da scudo e corazza”.
Mentre il movimento rivolto all’esterno consente di affrontare ogni situazione: “Oltre alle prove interne, ci sono nemici esterni, che sono le prove della vita, le persecuzioni, le difficoltà che non ci aspettavamo e che ci sorprendono. Infatti, noi possiamo tentare di prevedere quello che ci capiterà, ma in larga parte la realtà è fatta di avvenimenti imponderabili, e in questo mare qualche volta la nostra barca viene sballottata dalle onde. La fortezza allora ci fa essere marinai resistenti, che non si spaventano e non si scoraggiano”.
Quindi questa virtù è fondamentale per affrontare il mondo: “Qualcuno finge che esso non esista, che tutto vada bene, che la volontà umana non sia talvolta cieca, che nella storia non si dibattano forze oscure portatrici di morte. Ma basta sfogliare un libro di storia, o purtroppo anche i giornali, per scoprire le nefandezze di cui siamo un po’ vittime e un po’ protagonisti: guerre, violenze, schiavitù, oppressione dei poveri, ferite mai sanate che ancora sanguinano. La virtù della fortezza ci fa reagire e gridare un ‘no’ secco a tutto questo”.
Concludendo la catechesi il papa ha richiamato l’esempio del profeta, che è una persona ‘scomoda’ per la mondanità: “Nel nostro confortevole Occidente, che ha un po’ annacquato tutto, che ha trasformato il cammino di perfezione in un semplice sviluppo organico, che non ha bisogno di lotte perché tutto gli appare uguale, avvertiamo talvolta una sana nostalgia dei profeti.
Ma sono molto rare le persone scomode e visionarie. C’è bisogno di qualcuno che ci scalzi dal posto soffice in cui ci siamo adagiati e ci faccia ripetere in maniera risoluta il nostro ‘no’ al male e a tutto ciò che conduce all’indifferenza. ‘No’ al male e ‘no’ all’indifferenza; ‘sì’ al cammino, al cammino che ci fa progredire, e per questo bisogna lottare”.
(Foto: Santa Sede)
Seconda Domenica di Pasqua: domenica della divina Misericordia

Papa san Giovanni Paolo II ha definito questo giorno ‘la Domenica della divina misericordia’. L’evangelista san Giovanni ci fa cogliere l’emozione profonda degli apostoli nell’incontro con Cristo risorto, mentre il Maestro trasmette loro, ancora timorosi e stupefatti, la missione di essere ministri della Misericordia di Dio. Gesù risorto, dopo la sua risurrezione opera la ‘risurrezione dei Discepoli’ e questi cambiamo tenore di vita.
Gesù rialza i Suoi con la misericordia e questi diventano misericordiosi offrendo loro tre doni: la pace, lo Spirito Santo e le sue piaghe. Gesù offre la Pace: i discepoli erano ancora angosciati quando Gesù entra a porte chiuse ed annuncia: ‘Pace a voi’. Non è la pace che risolve i problemi ma la pace che infonde fiducia; è la pace del cuore che trasforma gli apostoli in veri missionari nel mondo.
Non è il solito saluto giudaico ‘shalom’, ma ‘Pace a voi’ dove l’assenza del verbo fa bene intendere il compimento della promessa nell’ultima cena: ‘Vi do la mia pace e non come quella che dà il mondo’; poi Gesù alitò su di essi e disse: ‘Ricevete lo Spirito santo’; il perdono nello Spirito Santo è il dono più bello per risorgere dentro il cuore a nuova vita. ‘A chi rimetterete i peccati saranno rimessi’: da qui il sacramento del perdono.
Lo Spirito santo con il Battesimo, mentre ci innesta a Cristo e alla sua vita divina, pone in noi tre semi: la Fede, la Speranza e la carità; tre doni che con il nostro ‘sì’ generoso e responsabile crescono nel cuore e danno un senso nuovo alla nostra vita quotidiana. Questa è quella risurrezione a nuova vita, di cui parla Gesù a Nicodemo, che trasforma l’individuo e con esso la società intera.
Una vita nell’amore verso Dio e verso il prossimo dove il cristiano prende coscienza che gli altri uomini non sono semplici individui ma persone umane per le quali Cristo Gesù si è offerto in croce, persone con pari dignità, chiamate a costituire la comunità, che si chiama Chiesa, popolo di Dio, membra dello stesso corpo mistico di Cristo. Ecco perché la Chiesa non può accettare né il liberalismo che inneggia all’individuo, né il materialismo ateo che inneggia alla lotta di classe; siamo chiamati tutti ad essere una grande famiglia.
L’uomo (ogni uomo) è un valore e i rapporti sociali non possono e non debbono essere regolati né dall’odio, né dall’arrivismo, né dalla lotta di classe ma dall’amore. L’amore misericordioso è la prima preoccupazione del Signore Risorto e dalle piaghe del Crocifisso esce un vero effluvio di grazie per gli smarriti nella fede. Gesù risorto mostra ai Discepoli le sue cinque piaghe.
I timori dei Discepoli finiscono appena toccano le sue piaghe, espressione del suo amore profondo per tutti gli uomini. Tommaso, uno dei Dodici, aveva detto: ‘Se non lo vedo, se non tocco le sue ferite, non crederò’. Gesù risponde: ‘Beati quelli che pur non avendo visto crederanno’. Gesù non intende esaltare una fede cieca e senza ragione, ma una fede illuminata, che fa leva sui valori spirituali più che fisici.
Consapevole della nuova realtà alla quale siamo chiamati, Gesù evidenzia: ‘Io sono la vite, voi i tralci’ e l’Apostolo Paolo in sintonia afferma: ‘Cristo è il capo, noi siamo le membra’ evidenziando la realtà del Corpo mistico di Cristo. Risorgere diventa il passaggio dalla vita secondo la carne alla vita secondo lo spirito.
Risorgere, come vedi, non è uno scoperchiare la tomba, venire fuori possibilmente con una bandiera in mano, come viene talvolta rappresentato il Risorto, ma un camminare da una vita secondo la carne in una vita secondo lo spirito, camminare in una vita nuova.. Questa nuova vita è il frutto di due componenti: una divina, frutto dell’azione dello Spirito santo, che nel battesimo ci inserisce a Cristo come il tralcio alla vite e ci conferisce carismi e le tre virtù teologali; l’altra umana: il nostro ‘sì’ generoso che fa crescere questi semi e vivere ‘la vita secondo la spirito’.
Da qui la gioia cristiana perché come Cristo è risorto anche noi risorgeremo. Maria, madre della Misericordia, aiutaci a mantenere viva questa fiducia nel tuo Figlio, nostro redentore.
Papa Francesco: la giustizia è una virtù cardinale importante

Al termine dell’udienza generale di oggi in piazza san Pietro papa Francesco ha rivolto di nuovo un appello per la pace in Terra Santa ed in Ucraina, ricordando la popolazione civile stremata ormai dalle tensioni ed i giovani volontari uccisi nei giorni scorsi, mentre fornivano il cibo con la richiesta di ‘cessare il fuoco’:
“Purtroppo continuano a giungere tristi notizie dal Medio Oriente. Torno a rinnovare la mia ferma richiesta di un immediato cessate-il-fuoco nella Striscia di Gaza. Esprimo il mio profondo rammarico per i volontari uccisi mentre erano impegnati nella distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza. Prego per loro e le loro famiglie.
Rinnovo l’appello a che sia permesso a quella popolazione civile, stremata e sofferente, l’accesso agli aiuti umanitari e siano subito rilasciati gli ostaggi. Si eviti ogni irresponsabile tentativo di allargare il conflitto nella regione e ci si adoperi affinché al più presto possano cessare questa e altre guerre che continuano a portare morte e sofferenza in tante parti del mondo. Preghiamo e operiamo senza stancarci perché tacciano le armi e torni a regnare la pace”.
Poi ha ricordato anche i tanti morti nella guerra in Ucraina: “E non dimentichiamo la martoriata Ucraina, tanti morti! Ho nelle mani un rosario e un libro del Nuovo Testamento lasciato da un soldato morto nella guerra. Questo ragazzo si chiamava Oleksandr, Alessandro, 23 anni. Alessandro leggeva il Nuovo Testamento e i Salmi e aveva sottolineato, nel Libro dei Salmi, il salmo 129: ‘Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce’.
Questo ragazzo di 23 anni è morto ad Avdiïvka, nella guerra. Ha lasciato davanti una vita. E questo è il suo rosario e il suo Nuovo Testamento, che lui leggeva e pregava. Io vorrei fare in questo momento un po’ di silenzio, tutti, pensando a questo ragazzo e a tanti altri come lui, morti in questa pazzia della guerra. La guerra distrugge sempre! Pensiamo a loro e preghiamo”.
Mentre, precedentemente continuando la catechesi sulla virtù, papa Francesco ha incentrato la riflessione sulla seconda virtù cardinale, la giustizia: “E’ la virtù sociale per eccellenza. Il Catechismo della Chiesa Cattolica la definisce così: ‘La virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto’. Questa è la giustizia. Spesso, quando si nomina la giustizia, si cita anche il motto che la rappresenta: ‘unicuique suum’ cioè ‘a ciascuno il suo’. E’ la virtù del diritto, che cerca di regolare con equità i rapporti tra le persone”.
Ed ha spiegato il motivo per cui è rappresentata dalla bilancia: “E’ rappresentata allegoricamente dalla bilancia, perché si propone di ‘pareggiare i conti’ tra gli uomini, soprattutto quando rischiano di essere falsati da qualche squilibrio. Il suo fine è che in una società ognuno sia trattato secondo la sua dignità. Ma già gli antichi maestri insegnavano che per questo sono necessari anche altri atteggiamenti virtuosi, come la benevolenza, il rispetto, la gratitudine, l’affabilità, l’onestà: virtù che concorrono alla buona convivenza delle persone. La giustizia è una virtù per una buona convivenza delle persone”.
Inoltre ha sottolineato che la giustizia agisce nella quotidianità, come è narrato anche nel Vangelo: “Ma giustizia è una virtù che agisce tanto nel grande, quanto nel piccolo: non riguarda solo le aule dei tribunali, ma anche l’etica che contraddistingue la nostra vita quotidiana… Le mezze verità, i discorsi sottili che vogliono raggirare il prossimo, le reticenze che occultano i reali propositi, non sono atteggiamenti consoni alla giustizia. L’uomo giusto è retto, semplice e schietto, non indossa maschere, si presenta per quello che è, ha un parlare vero”.
Quindi ha elencato alcune caratteristiche del giusto: “L’uomo giusto ha venerazione per le leggi e le rispetta, sapendo che esse costituiscono una barriera che protegge gli inermi dalla tracotanza dei potenti. L’uomo giusto non bada solo al proprio benessere individuale, ma vuole il bene dell’intera società.
Dunque non cede alla tentazione di pensare solo a sé stesso e di curare i propri affari, per quanto legittimi, come se fossero l’unica cosa che esiste al mondo. La virtù della giustizia rende evidente (e mette nel cuore l’esigenza) che non ci può essere un vero bene per me se non c’è anche il bene di tutti”.
Inoltre il giusto adempie ad alcune azioni per il bene comune: “Aborrisce le raccomandazioni e non commercia favori. Ama la responsabilità ed è esemplare nel vivere e promuovere la legalità. Essa, infatti, è la via della giustizia, l’antidoto alla corruzione: quanto è importante educare le persone, in particolare i giovani, alla cultura della legalità! E’ la via per prevenire il cancro della corruzione e per debellare la criminalità, togliendole il terreno sotto i piedi.
Ancora, il giusto rifugge comportamenti nocivi come la calunnia, la falsa testimonianza, la frode, l’usura, il dileggio, la disonestà. Il giusto mantiene la parola data, restituisce quanto ha preso in prestito, riconosce il corretto salario a tutti gli operai (un uomo che non riconosce il giusto salario agli operai, non è giusto, è ingiusto) si guarda bene dal pronunciare giudizi temerari nei confronti del prossimo, difende la fama e il buon nome altrui”.
Infine i giusti sognano: “I giusti non sono moralisti che vestono i panni del censore, ma persone rette che ‘hanno fame e sete della giustizia’, sognatori che custodiscono in cuore il desiderio di una fratellanza universale. E di questo sogno, specialmente oggi, abbiamo tutti un grande bisogno. Abbiamo bisogno di essere uomini e donne giusti, e questo ci farà felici”.
(Foto: Santa Sede)