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Terza Domenica del Tempo Ordinario: Eccomi a voi! Dio ha mantenuto la promessa!

Assai significativo il brano del Vangelo. Ogni volta che leggiamo il Vangelo ci segniamo la fronte, la bocca e il cuore ad indicare che la ‘Parola di Dio’ va meditata, proclamata con la bocca, custodita nel cuore. L’episodio del vangelo è semplice ed affascinante. Un giorno di sabato Gesù si reca nella sinagoga di Nazareth, sua città dove era vissuta per circa trenta anni; da tutti conosciuto come il figlio di Maria e di Giuseppe, il falegname del paese; da tutti amato ed apprezzato.
I compaesani erano però alterati perchè Gesù mai aveva operato prodigi; andato via e stabilitosi a Cafarnao, folle intere andavano a trovarlo per ascoltarlo ed ottenere guarigioni. Gesù avvertì il bisogno di entrare anche nella sinagoga di Nazareth; vi rientra al momento della preghiera, prende il volume della Bibbia e legge il passo del profeta Isaia: ‘Lo spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato ad annunziare ai poveri il lieto annunzio…’. Terminata la lettura, chiude il libro e dice ai presenti: ‘Oggi si è compiuta questa scrittura…’.
I compaesani restano trasecolati; conoscono Gesù come figlio di Maria e Giuseppe ma non certo come il Messia promesso da Dio. Se leggiamo il proseguo: Gesù alla fine andrà via e non ritornerà più a Nazareth dicendo: ‘Nessuno è profeta accetto nella sua patria’. Chi è Gesù? Egli è l’atteso del popolo ebreo ma la sua presenza ha sempre suscitato ammirazione e, subito dopo, minacce di morte: nasce a Betlemme e mentre corrono a 4trovarlo i pastori e i magi, il re Erode si prepara a compiere la strage degli innocenti nella speranza di colpire Gesù.
Rientrato ora a Nazareth, dove era vissuto circa trent’anni, si ripete qualcosa di analogo: i Nazaretani restano quasi scandalizzati e Gesù è costretto ad andare via senza ritorno. Gesù si è presentato per la prima volta tra i suoi come il ‘Verbo di Dio’, la sapienza divina, il Figlio di Dio concepito per opera dello Spirito santo. Egli afferma chiaramente di essere il Messia promesso da Dio, il Salvatore. Parole assai ferme e forti ! Solo a chi non ha fede il cristianesimo appare un vero paradosso. La soluzione del paradosso sta solo in una parola: amore, l’Amore di Dio per l’uomo, creato a sua immagine.
Dio ama l’uomo, suo capolavoro; e dopo il peccato originale disse a satana: ‘Metterò inimicizia tra te e la donna e … verrà colui che ti schiaccerà la testa!’ Il Salvatore incarnato è proprio il Figlio di Dio, la seconda persona della Santissima Trinità. è il Verbo eterno incarnato. Egli, pur essendo Dio, si è incarnato, assumendo in sè la natura umana nel grembo di Maria. Dio, amici carissimi, vuole tutti salvi ma rispetta sempre la libertà dell’uomo.
Alla grotta di Betlemme ciascuno di noi può scoprire la verità di Dio e la verità dell’uomo. Nel Bambino Gesù, nato dalla vergine Maria, scriveva papa Benedetto XVI, è coniugato l’anelito dell’uomo alla vita eterna ed il cuore grande e misericordioso di Dio, che non si è vergognato di assumere la condizione umana. Maria ha rivelato il Cristo Gesù ai pastori e ai Magi ed ha conservato nel cuore quanto si diceva di Lui.
Così Maria davanti alla cugina Elisabetta poté cantare: ‘L’anima mia magnifica il Signore perché ha guardato l’umiltà della sua serva’. A Nazareth Gesù ebbe a dire: ‘Sono venuto per portare ai poveri il lieto annunzio!’ Chi sono i poveri ai quali è annunciato il messaggio?
La risposta si deduce da tutto il vangelo: non si tratta di uno stato sociale (è povero chi non ha soldi) ma è un atteggiamento dello spirito umano; è povero chi prende coscienza che quello che siamo ed abbiamo è solo dono di Dio; siamo depositari di questi doni e con umiltà dobbiamo riconoscere la mano misericordiosa di Dio.
Il teologo Brunetto Salvarani: il dialogo cristiano-ebraico, ‘un percorso difficile’

“In questi ultimi tempi, segnati dal tragico atto terroristico del 7 ottobre 2023, dalla guerra successiva e dall’escalation del conflitto in Medio Oriente, i rapporti tra cattolici ed ebrei, in Italia, sono stati difficili con momenti di sospetto, incomprensioni e pregiudizi. Ma il dialogo non si è interrotto. In Europa sono tornati deprecabili atti di antisemitismo e incaute prese di posizione, a volte anche violente. Proprio per questo il dialogo va rafforzato. Continuiamo a crederci”: così scrive la commissione episcopale per l’ecumenismo ed il dialogo nel messaggio ‘Pellegrini di Speranza’ in occasione della 36^ Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei in svolgimento oggi.
E nella prefazione al libro ‘Un percorso difficile anche per Dio. Sul futuro del dialogo cristiano-ebraico’, scritto dal teologo Brunetto Salvarani, docente di Missiologia e Teologia del dialogo presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna di Bologna, direttore della rivista ‘QOL’ e presidente dell’associazione italiana ‘Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam’, il presidente della Commissione Episcopale CEI per l’ecumenismo ed il dialogo, mons. Derio Olivero, vescovo della diocesi di Pinerolo, ha scritto:
“Consapevoli che il dialogo cristiano-ebraico sta attraversando una fase critica, è necessario conoscere quali siano state e siano le pietre d’inciampo più classiche, e anche quali siano le contestuali tracce di speranza, oltre che interrogarsi su come, con e dopo il 7 ottobre 2023, si sia aperta un’ulteriore crepa, che rimanda alla necessità di elaborare un paradigma inedito nel dialogo fra cristiani ed ebrei.
Tutto da pensare, tutto da costruire, e sul quale occorrerà esercitarsi a fondo da parte di chi intenda dedicarvisi. Noi non siamo ‘la sostituzione’ del popolo d’Israele, né il ‘vero Israele’. Siamo un ramo spuntato da un popolo che continua a esistere. Il dialogo con questo popolo concreto ci è essenziale per dire noi stessi. Gesù di Nazareth appartiene al popolo ebraico. Non possiamo comprenderlo negando tale appartenenza. Non possiamo comprenderci negando tale appartenenza”:
A Brunetto Salvarani abbiamo chiesto di spiegarci il titolo di questo libro: “Il titolo, volutamente paradossale, l’ho tratto da un testo che mi aveva donato Paolo De Benedetti, uno dei miei più cari maestri. Allude, evidentemente, alle difficoltà in cui opera chi si dedica al dialogo fra cristiani ed ebrei”.
Ed ha spiegato i passaggi della genesi del libro: “Come ogni libro, anche questo nasce da una passione, che viene da lontano. E’ lunga, ormai, la lista di maestri e maestre che hanno contribuito a maturare in me l’idea che il dialogo fra ebrei e cristiani risiede al cuore dell’identità delle Chiese e dei cristiani. Ora, è evidente che dal 7 ottobre scorso, data della mattanza di ebrei in Israele da parte di Hamas, i processi dialogici fra ebrei e cristiani si sono ulteriormente complicati, messi duramente alla prova, come mai finora, mostrando tutte le loro gracilità e vulnerabilità”.
Per quale motivo il dialogo tra ebrei e cristiani è difficile?
“A mio parere il dialogo cristiano-ebraico ha sofferto e soffre di una doppia, paralizzante asimmetria. La prima risiede nella constatazione che è esso necessario per il cristiano, ma non per l’ebreo. Ciò perché, mentre il cristianesimo senza rapporti con l’ebraismo manca di quelle radici e della linfa che gli consentono di vivere, l’ebraismo, in virtù del dono della Torah e dello speciale legame che lo stringe a Dio, non ha bisogno del cristianesimo per fondarsi e comprendersi. La seconda nasce dal fatto che tale dialogo dovrebbe derivare da un altro dialogo che lo precede, interno alle due fedi.
Il dialogo, infatti, non si dà tanto fra cattolici e rabbini, ma fra cristiani ed ebrei. Se così stanno le cose, è necessario un percorso ecumenico che metta a confronto, qui, le diverse confessioni cristiane, e là un dibattito fra ebraismo in terra d’Israele e diaspora, fra ebraismo laico e religioso. Senza tali presupposti, ogni forma di dialogo rischia di essere inconcludente, o di ridursi a dichiarazioni di principio sulla Shoah e sull’antisemitismo, fondate sulla retorica del mai più ma non finalizzate a costruire un cammino, anche solo in parte, comune e condiviso”.
Dopo il 7 ottobre quali difficoltà incontra questo dialogo?
“Con e dopo il 7 ottobre 2023, in effetti, si è aperta un’ulteriore crepa nel dialogo cristiano-ebraico, a partire dalla lettura che si è data a quella tremenda mattanza di ebrei da parte di Hamas, una crepa grave che rimanda alla necessità di elaborare un paradigma inedito nel dialogo. Tutto da pensare, tutto da costruire, e sul quale occorrerà esercitarsi a fondo da parte di chi intenda dedicarvisi.
In una manciata di ore è cambiato radicalmente lo scenario in cui si muove chi opera nel campo delle relazioni cristiano-ebraiche, tanto da richiedere un autentico salto di qualità rispetto al passato, a sei decenni dalla dichiarazione conciliare ‘Nostra aetate’: ma senza buttare via il grande lavoro fatto sinora”.
Perché è necessario il dialogo ebraico-cristiano?
“La necessità è fotografata appieno nel famoso incipit della Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane ‘Nostra aetate’ al n. 4: ‘Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo’. Siamo legati, dunque, a un livello molto profondo, e l’identità della Chiesa si intreccia inevitabilmente con quella di Israele (e anche questo dato, se vogliamo, è fra le ragioni delle difficoltà del dialogo)”.
Come è possibile rimuovere le ‘pietre d’inciampo’ per rivitalizzare il dialogo?
“Ci sarebbe bisogno di un impegno più costante e più approfondito, che favorisca la presa di coscienza della necessità del dialogo con Israele; di più studio, più informazione e più formazione… Conoscenza, stima e riconoscimento dell’altro: sono questi i presupposti del dialogo perché aprono alla collaborazione nella differenza. Cartina di tornasole della situazione attuale è quanto poco sia sentita, in genere, l’esperienza (benemerita) della Giornata del dialogo. Quanti, nella Chiesa italiana, sanno che esiste?”
Nel messaggio per questa Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei, ‘Pellegrini di speranza’, i vescovi italiani invitano a ‘ripartire dalla Scrittura’: è realizzabile?
“Mi auguro di sì! Certo, sono del tutto d’accordo! Ma anche qui, occorre un impegno maggiore e più capillare: dopo la fine dell’esilio della Parola di Dio, con la Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione ‘Dei Verbum’, molto di quell’entusiasmo si è smorzato. Un esempio: quanti, nella Chiesa italiana, sanno che esiste una (pure benemerita) ‘Domenica della Parola di Dio’, giunta alla sua quinta edizione?”
In questo difficile percorso quanto è importante riscoprire il ‘sogno’ di p. Bruno Hussar?
“E’ molto importante! La presenza, oltre mezzo secolo dopo il suo sorgere, del ‘Villaggio della pace’ di ‘Neve Shalom- Wahat as Salam’ in Israele è il segnale che investire nell’educazione interculturale e interreligiosa, nell’educazione alla pace e alla gestione dei conflitti paga, e può rappresentare una scintilla di autentica profezia”.
(Tratto da Aci Stampa)
Umberto Folena: l’umorismo aiuta a comprendere la realtà

Ogni notte, immancabilmente, il gallo Carletto cantava. Ma quella notte, e le notti seguenti, non canto?; ed all’alba seguente apparivano su muri e serrande di Tretronchi misteriose lettere scarlatte…Il parroco don Ulisse con la sorella Elvezia, il sindaco Achille con la figlia Alice, il barbiere Tarcisio, il vecchio Bortolo e le suore Leopoldine, e i potenti del paese, Bragadin e il Cavaliere… Sono dozzine gli abitanti di Tretronchi, borgo immaginario del Veneto pedemontano, che affollano il primo romanzo di Umberto Folena, editorialista di Avvenire, ‘La notte in cui Carletto non cantò’.
Si incontrano, si scontrano e affrontano piccole grandi imprese, raccontate con affetto e umorismo in questo romanzo presentato a Tolentino su invito del circolo culturale ‘Tullio Colsalvatico’: “Carletto non aveva cantato, quella notte. Carletto era un gallo problematico ma non per colpa sua, e poi bastava abituarsi: lui cominciava a schiarirsi l’ugola a mezzanotte, alle due aveva le tonsille calde e alle tre e mezza dava il meglio di sé. All’alba si addormentava spossato avvolto nel sonno dei giusti, lasciando agli altri galli di Tretronchi il compito di fare i galli secondo contratto, tradizione e prevedibilità”.
Ed ha spiegato la genesi del romanzo: “Si potrebbe definire un romanzo su commissione, perché gli amici dell’editrice Ancora mi hanno chiesto di ricreare in un romanzo un mondo simile a quello di Guareschi. Ci ho provato, anche se tutto è cambiato in questi 70 anni, puntando a scrivere un racconto corale, di popolo, ambientato in un paesino del Veneto pedemontano di oggi”.
Missione ambiziosa, affrontata ‘con grande divertimento’, perché l’autore si è immerso con la sua straripante fantasia dentro questo piccolo borgo dal nome faticoso, ‘in cui non succede mai niente’ (a parte l’enigmatico silenzio del gallo per tre giorni) e lo ha popolato di una ventina di personaggi (dal barbiere all’immigrato, tutti citati nelle prime pagine in rigoroso ordine alfabetico) che abitano e animano in verità tutte le parrocchie italiane, non solo quelle venete.
Umberto Folena perché Carletto non cantò più?
“Carletto è un gallo, che ha la buona abitudine di cantare tutte le notti tra le 3 e le 4 e non al mattino, come i galli normali. Però ad un certo punto inizia a non cantare e quando non canta significa che nel paese di Tretronchi sta per accadere qualcosa di sgradevole. Tretronchi è il paese immaginario della pedemontana veneta, dove sono ambientati i miei romanzi”.
Perché il romanzo riprende la struttura del ‘piccolo mondo’ di Guareschi?
“Mi sono innamorato di ‘piccolo mondo’, ma non mi paragono a Guareschi. L’editore, che mi ha commissionato questo romanzo, mi ha chiesto di provare a narrare il ‘mondo piccolo’ di Guareschi, 70 anni dopo. Don Camillo e Peppone non esistono più nell’Italia dei nostri tempi. Ho tentato di mettere in scena un ‘popolo’ con circa 60 personaggi di Tretronchi in una specie di romanzo popolare, non solo perché si rivolge a tutti, ma soprattutto perché il popolo è protagonista:
è la rappresentazione di una comunità, che cerca di essere comunità, ossia di contrastare tutte le spinte che cercano di fare diventare gli individui soli, isolati ed ansiosi; quindi più controllabili. Invece, il tentativo di alcuni è quello di ricostruire legami sempre più forti di comunità e creare tutto ciò che può aiutare la comunità a vivere ed a produrre. Da una parte ci sono i costruttori e dall’altra i distruttori: questo è un confronto titanico nello scenario planetario, nel microcosmo di Tretronchi questo scontro c’è ed è rappresentativo di uno scontro più ampio”.
In quale modo la scrittura può essere divertente?
“La scrittura è divertente, quando l’autore si diverte a scrivere. Mi sono divertito molto, anche se ciò non è una garanzia che chi mi leggerà si divertirà, ma certamente è la prima condizione che il libro sia divertente: io mi sono divertito molto a scrivere. Poi uso tecniche, imparate in 40 anni di giornalismo, per rendere la lettura più scorrevole possibile. Per rendere la scrittura leggibile ci sono anche tante norme da applicare, aldilà del dono di natura”.
Cosa è l’umorismo nella scrittura?
“L’umorismo nella scrittura consiste nello strappare un sorriso e saper individuare i paradossi e saper cogliere le contraddizioni. Occorre saper essere ironici, perché l’ironia è un’arte sottile; troppo forte sconfina nel sarcasmo ed è distruttiva; troppo debole non viene compresa e non funziona. E’ questione di equilibrio, come quando guidi la macchina; oppure quando cucini un piatto. L’ironia è qualcosa di analogo; occorre innanzitutto ridere di se stessi. L’autoironia è la condizione, perché possa sorridere di un altro e di una situazione particolare. Trovare i paradossi e non prendersi completamente sul serio ci salvano dall’ansia, dalla disperazione e dall’arroganza. Gli arroganti sono incapaci di ironia”.
Giornata di dialogo tra cattolici ed ebrei: ripartire dalla Scrittura per essere pellegrini di speranza

A firma della Commissione episcopale ‘Ecumenismo e dialogo’ della CEI nei giorni scorsi è stato reso noto il messaggio per la 36^ Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei che si svolgerà il 17 gennaio del prossimo anno, dal titolo ‘Pellegrini di speranza’, che prende spunto da una frase di Etty Hillesum, scritta nel campo di concentramento:
“Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, sarà troppo poco. Non si tratta di conservare questa vita ad ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare, se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione, allora non siamo una generazione vitale.
Certo non è così semplice, e forse meno che mai per noi ebrei; ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati ad ogni costo, e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione, allora non basterà”.
Secondo i vescovi la prospettiva di Hillesum è uno sguardo diverso sul mondo: “Una giovane donna ebrea, con tutta la vita davanti, non pensa innanzitutto alla sopravvivenza, ma al futuro della società. Lascia in secondo piano l’interesse personale, addirittura un proprio fondamentale diritto, per mettere al primo posto un bene collettivo. Sogna un ‘nuovo senso delle cose’ per un mondo impoverito.
Anzi sogna di contribuire a questo nuovo senso delle cose. In quel mondo dilaniato dalla violenza, ferito, carico di odio e di desiderio di vendetta, in quel mondo divenuto tremendamente povero, lei sogna di far germinare uno sguardo nuovo.
In questo modo suggerisce a tutte le religioni una strada su cui posizionarsi. Non si tratta di difendere la nostra sopravvivenza nella società occidentale, ma di lavorare per costruire un senso nuovo delle cose. La nostra missione è quella di far germogliare speranza e costruire comunità”.
Per questo il Giubileo è un tempo propizio: “Viviamo un tempo carico di minacce. Fatichiamo a guardare avanti con fiducia. Guerre, ingiustizie, crisi climatica, crisi della democrazia, crisi economica, aumento delle povertà… Per sperare abbiamo bisogno di tornare alla Parola di Dio…
Sicuramente il Giubileo sarà un tempo propizio per lasciar parlare la Scrittura, anche grazie all’ascolto della lettura dei fratelli e delle sorelle ebrei. Nella certezza che la speranza si genera innanzitutto stabilendo relazioni fraterne. Il Giubileo sarà un cammino di speranza se stimolerà vie di riconciliazione e perdono”.
Nel messaggio i vescovi hanno sottolineato che il dialogo tra ebrei e cristiani, dopo il ‘7 ottobre’ non ha subito interruzione, anche se sono aumentati episodi di antisemitismo, richiamando il pensiero del card. Martini: “Ma il dialogo non si è interrotto. In Europa sono tornati deprecabili atti di antisemitismo e incaute prese di posizione, a volte anche violente. Proprio per questo il dialogo va rafforzato. Continuiamo a crederci… E’ necessario che il dialogo non sia più una questione di nicchia.
Come Chiesa cattolica ci auguriamo che l’Anno Giubilare porti al rilancio e all’allargamento del dialogo. Non per ‘tirare avanti’, ma per approfondire… Su tale dialogo si gioca e si giocherà una partita tanto delicata quanto decisiva, anche per il futuro delle Chiese cristiane. Nell’anniversario del Concilio di Nicea come Chiese cristiane dobbiamo riscoprire che il rapporto con l’ebraismo e con le Scritture è fondamentale anche per il cammino ecumenico”.
Quindi è un invito a ripartire dalla Scrittura, come invita la Dichiarazione conciliare ‘Nostra Aetate’: “Il Giubileo è sempre un tempo di ‘ripartenza’, un tempo per fermarsi e ripartire guardando con speranza al futuro. Per fare questo è necessario fare teshuvah, cioè ritornare ad attingere alla sorgente.. Ci auguriamo che l’Anno Giubilare, alla luce dei tempi che stiamo vivendo, sia la rinnovata occasione per cristiani ed ebrei, di ritornare ai testi biblici letti insieme fraternamente secondo le proprie tradizioni”.
(Foto: CEI)
Papa Francesco invita a leggere la Sacra Scrittura

“Domani celebreremo la memoria liturgica di sant’Antonio di Padova, sacerdote e dottore della Chiesa. L’esempio di questo insigne predicatore, protettore dei poveri e dei sofferenti, susciti in ciascuno il desiderio di proseguire il cammino della fede e imitare la sua vita, diventando così testimoni credibili del Vangelo”: al termine dell’udienza generale di oggi papa Francesco ha ricordato la festa di sant’Antonio da Padova, che ricorre domani, chiedendo di pregare per la pace, perché la guerra è sempre una ‘sconfitta’, con un incoraggiamento ai fedeli di lingua portoghese: “Domani celebreremo Sant’Antonio, nato a Lisbona, che ci dice: ‘se leggi Gesù, egli ti sazia la mente’. Incoraggio, dunque, ognuno di voi a meditare la Sacra Scrittura. In essa, Gesù ci rinvigorisce e illumina la nostra vita”.
Mentre nell’udienza generale papa Francesco ha continuato la catechesi sullo ‘Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza’ sul tema ‘Tutta la Scrittura è ispirata da Dio’, con il consiglio di ‘Conoscere l’amore di Dio dalle parole di Dio’:
“Lo Spirito Santo, che ha ispirato le Scritture, è anche Colui che le spiega e le rende perennemente vive e attive. Da ispirate, le rende ispiratrici… In questo modo lo Spirito Santo continua, nella Chiesa, l’azione di Gesù Risorto che, dopo la Pasqua ‘aprì la mente dei discepoli all’intelligenza delle Scritture’.
Può capitare, infatti, che un certo passo della Scrittura, che abbiamo letto tante volte senza particolare emozione, un giorno lo leggiamo in un clima di fede e di preghiera, e allora quel testo improvvisamente si illumina, ci parla, proietta luce su un problema che stiamo vivendo, rende chiara la volontà di Dio per noi in una certa situazione”.
La Chiesa è ‘nutrita’ dalla Sacra Scrittura: “Fratelli e sorelle, la Chiesa si nutre della lettura spirituale della Sacra Scrittura, cioè della lettura fatta sotto la guida dello Spirito Santo che l’ha ispirata. Al suo centro, come un faro che illumina tutto, c’è l’evento della morte e risurrezione di Cristo, che compie il disegno di salvezza, realizza tutte le figure e le profezie, svela tutti i misteri nascosti e offre la vera chiave di lettura dell’intera Bibbia”.
Tutta la Sacra Scrittura è ‘illuminata’ dalla resurrezione di Gesù: “La morte e risurrezione di Cristo è il faro che illumina tutta la Bibbia, e illumina anche la nostra vita… La Chiesa, Sposa di Cristo, è interprete autorizzata del testo della Scrittura ispirato, la Chiesa è la mediatrice della sua proclamazione autentica. Poiché la Chiesa è dotata dello Spirito Santo (per questo è interprete), essa è ‘colonna e sostegno della verità’. Perché? Perché è ispirata, tenuta ferma dallo Spirito Santo. E il compito della Chiesa è aiutare i fedeli e quanti cercano la verità a interpretare in modo corretto i testi biblici”.
Ed ha indicato la pratica della ‘lectio divina’: “Consiste nel dedicare un tempo della giornata alla lettura personale e meditativa di un brano della Scrittura. E questo è molto importante: tutti i giorni prenditi un tempo per ascoltare, per meditare, leggendo un passo della Scrittura. E per questo mi raccomando: abbiate sempre un Vangelo tascabile e portatelo nella borsa, nelle tasche… Così quando siete in viaggio o quando siete un po’ liberi lo prendete e leggete… Questo è molto importante per la vita. Prendete un Vangelo tascabile e durante la giornata leggetelo una, due volte, quando capita”.
Però principalmente l’invito del papa è la frequenza della messa: “Ma la lettura spirituale per eccellenza della Scrittura è quella comunitaria che si fa nella Liturgia, nella Messa. Lì vediamo come un evento o un insegnamento, dato nell’Antico Testamento, trova il suo pieno compimento nel Vangelo di Cristo. E l’omelia, quel commento che fa il celebrante, deve aiutare a trasferire la Parola di Dio dal libro alla vita. Ma l’omelia per questo dev’essere breve: un’immagine, un pensiero e un sentimento. L’omelia non deve andare oltre gli otto minuti, perché dopo con il tempo si perde l’attenzione e la gente si addormenta, e ha ragione. Un’omelia deve essere così”.
E per l’omelia si è rivolto ai sacerdoti per rendere la lettura della Sacra Scrittura più comprensibile: “E questo voglio dire ai preti, che parlano tanto, tante volte, e non si capisce di che cosa parlano. Omelia breve: un pensiero, un sentimento e uno spunto per l’azione, per come fare. Non più di otto minuti. Perché l’omelia deve aiutare a trasferire la Parola di Dio dal libro alla vita. E tra le tante parole di Dio che ogni giorno ascoltiamo nella Messa o nella Liturgia delle ore, ce n’è sempre una destinata in particolare a noi. Qualcosa che tocca il cuore. Accolta nel cuore, essa può illuminare la nostra giornata, animare la nostra preghiera. Si tratta di non lasciarla cadere nel vuoto!”
Concludendo l’udienza generale papa Francesco ha consigliato la lettura della Bibbia: “Come certi brani musicali, la Sacra Scrittura ha anch’essa una nota di fondo che l’accompagna dall’inizio alla fine, e questa nota è l’amore di Dio… Cari fratelli e sorelle, avanti con la lettura della Bibbia! Ma non dimenticate il Vangelo tascabile: portarlo in borsa, nelle tasche e in qualche momento della giornata leggere un passo. E questo vi farà vicinissimi allo Spirito Santo che è nella Parola di Dio. Lo Spirito Santo, che ha ispirato le Scritture e ora spira dalle Scritture, ci aiuti a cogliere questo amore di Dio nelle situazioni concrete della vita”.
(Foto: Santa Sede)
Eraldo Affinati: la scuola di don Lorenzo Milani si fonda sull’amicizia

“Non limitiamoci a spiegare il programma e mettere i voti. Proviamo a fare domande di cui noi stessi non conosciamo la risposta. La scuola non dovrebbe essere un luogo separato dalla vita, bensì la sua intensificazione”: ‘Il sogno di un’altra scuola’ di Eraldo Affinati racconta la storia di don Lorenzo Milani ai ragazzi.
‘Cuori ardenti, piedi in cammino’ per la Giornata missionaria
Mons. Nerbini alla città: ‘Prato, guarda avanti!’

‘Prato, guarda avanti!’: si intitola così la ‘Lettera alla città’ che mons. Giovanni Nerbini ha scritto ai pratesi nella festa della Natività di Maria, ricordando i mesi della pandemia: “Abbiamo iniziato a tessere quella che è la storia della Prato di domani. Fili e lacci di colori diversi, a volte cupi hanno tenuto unite le nostre vite quotidiane in questo ultimo anno e mezzo: il dolore di tanti (la pandemia ha toccato negli affetti, nel corpo, nelle condizioni di vita, nel lavoro, nelle relazioni, nello studio) così come le attese di giorni più sereni, di una vita segnata dalla cura per la dignità della persona, di una città capace di essere a misura di umanità”.
Come aveva già coraggiosamente proposto proprio nei giorni più bui del lockdown, il 19 marzo 2020, il vescovo ha chiesto a tutti di gettare oltre lo sguardo e il cuore: “Adesso, dopo quelli che, si spera, sono stati i mesi più duri di questa emergenza sanitaria è avanti che dobbiamo guardare. E per farlo Prato può ricorrere alla sua antica sapienza: ossia tessere, intrecciare fili diversi secondo un disegno creativo, ma unitario. Perché tessere è volontà di raggiungere una mèta, portando la tela sempre più avanti”.
Prendendo spunto dal Libro dei Re mons. Nerbini ha chiesto di ascoltare la Sacra Scrittura: “La Scrittura, con la sua ricchezza spirituale e di umanità, si pone dinanzi a noi anche in questo tempo nel quale la pandemia ci obbliga a misurarci con la realtà: con tutta la sua durezza e al contempo con gli spazi di possibilità che si aprono e chiamano in causa la nostra responsabilità.
I cristiani, nella loro storia millenaria, hanno imparato quanto questo dialogo fra la Parola e la vita sia stato fecondo: capace di dischiudere lo sguardo sulla verità delle cose e sugli orizzonti di futuro possibili e al tempo stesso in grado di alimentare una comprensione più acuta e profonda della Scrittura…
Così, anche per i cristiani di questo momento storico, anche per la Chiesa che è in Prato, la Parola si offre come una realtà viva e vitale, che alimenta l’intelligenza delle cose e si schiude, come i petali di un fiore, alla luce della Storia viva delle donne e degli uomini”.
Ascoltare la Parola significa non rimpiangere il passato: “Proprio questa docilità del cuore rappresenta la disposizione d’animo che dobbiamo lasciar maturare dentro di noi per imparare a pensare il presente e il futuro della città di cui siamo parte.
Soprattutto, questa docilità ci consente, in primo luogo, di accettare i nostri limiti, di non cedere alla tentazione di chiuderci in noi stessi e guardare al nostro bene individuale, a quelle che crediamo essere le nostre sicurezze. Come Salomone, anche noi dobbiamo pensare a come possiamo fare il bene del popolo.
Come Salomone dobbiamo riconoscere che nessuno di noi ha la forza, da solo, di assolvere a questo compito e dunque abbiamo bisogno di disporci all’ascolto e alla comprensione e dobbiamo farlo assieme, aiutandoci l’un l’altro a capire, perché in ciascun essere umano alberga un frammento di verità”.
Ed ecco la proposta di lavorare insieme, che nasce dall’amore per la città e per tutto il suo territorio: “Ci occorre la capacità di sentire il sapore della realtà, di saper cogliere cosa c’è di amaro nelle sofferenze e nelle fatiche, nella crisi del lavoro e nel dover lasciare quanto non possiamo portare nel domani.
Ci occorre la capacità di sentire il gusto buono delle speranze, delle tante idee e iniziative che ci sono ma non trovano spazio o a cui non sappiamo dare voce. E’ la sapienza che ci consente di dire che è male pensare di uscire dalla crisi salvando la rendita (uno dei virus della Prato degli ultimi decenni) anziché il lavoro e con esso le donne e gli uomini.
E’ la sapienza che ci fa riconoscere il bene negli sforzi di restituire alla loro funzione sociale l’iniziativa privata e l’azione di sindacati, associazioni di categoria, forze politiche e culturali”.
Un lavoro di ‘squadra’ che metta insieme le intelligenze: “Anche in questo possiamo cogliere un appello rivolto a tutta la nostra comunità: se la sapienza ci può mostrare la ricchezza multiforme della realtà, l’intelligenza di tante persone ci permette di vedere come la realtà vive, cresce, cambia direzione.
Per questo la nostra comunità ha bisogno di attingere alle tante intelligenze che in essa già ora operano. Il distretto del ‘fare’ ha oscurato troppo spesso la città ‘del pensare’, lasciando da parte competenze, risorse intellettuali, ricerca e confronto di idee”.
E le intelligenze sono molte: “Abbiamo l’urgenza di mettere a frutto l’intelligenza del lavoro, dei tanti mestieri e delle tante professioni che la nostra Prato esprime. Dobbiamo dare spazio all’intelligenza economica di chi ha gli strumenti per consigliare come investire in modo efficace e giusto.
Ci serve l’acume dell’intelligenza sociale dei tanti che si impegnano nelle associazioni e in quello che chiamiamo terzo settore e l’intelligenza culturale che sa coltivare la pluralità di un territorio pronto a farsi casa per tutte le donne e gli uomini di buona volontà.
La nostra comunità ha bisogno dell’intelligenza della cura, che è propria di chi si occupa delle ferite del corpo e dell’anima nelle nostre strutture sociosanitarie soprattutto a vantaggio dei fragili, degli ultimi e degli emarginati. Mi piace ricordare come in questi mesi difficili abbiamo ricevuto tutti un esempio edificante dalle professioni sanitarie”.
Un popolo però ha bisogno dei giovani: “Non basta la competenza di uno solo, perché la realtà e l’umanità non sono a una dimensione: non è tutto solo economia, o politica o religione, perché l’essere umano, che è immagine e somiglianza di Dio, è aperto a insospettabili possibilità e soprattutto è investito della responsabilità della propria libertà. Quello che abbiamo davanti è dunque un compito preciso: diventare popolo. O forse sarebbe meglio dire: ridiventare popolo…
Se davvero vogliamo guardare ai mesi e agli anni che abbiamo davanti con la sapienza e l’intelligenza che alimentano un cuore docile, è ai giovani che dobbiamo guardare. Non solo per prenderci cura di loro: più ancora, per chiedere loro di indicarci la direzione che la nostra comunità deve prendere, verso dove iniziare a camminare e così diventare popolo”.
Concludendo la lettera il vescovo di Prato sottolinea che si deve dare fiducia ai giovani: “Se è del contributo e dell’impegno di tutti che abbiamo bisogno, è soprattutto ai giovani che dobbiamo affidarci, domandando loro, certo, anche un di più di responsabilità. Prato conta una popolazione giovanile superiore alle altre città vicine, una risorsa che troppo spesso dimentichiamo.
Sono i loro cuori quelli più ‘docili’, disposti ad ascoltare e apprendere. Sono loro i più pronti a ricevere ed esercitare la sapienza e l’intelligenza, a dirci ciò che è male e ciò che è bene, a spiegarci come tenere assieme economia, socialità, cultura, politica, fede e dare al domani di Prato il volto e lo sguardo di un popolo che sa camminare nella storia degli uomini. E’ sulla loro ‘misura’ che dobbiamo costruire la città di domani”.
(Foto: diocesi di Prato)
Papa Francesco a Bratislava chiede un messaggio per l’Europa
Zaccuri: rinascere ogni giorno nel legno di Bruegel

Tra i narratori italiani Alessandro Zaccuri sta consolidando la propria presenza in un’ottica innovativa che non segue i canoni stabiliti dal mercato editoriale, ma va alla ricerca di una dimensione morale che lo porta sempre di più verso tradizioni ‘alte’, sia per qualità stilistica, sia come scelta di avere un luogo d’elezione in cui giocare a specchio la sua narrazione, così da usare la chiave dell’enigma, non in senso strumentale, ma come condizione per dare risposte a quel gioco di luci e di ombre che creano la consistenza del destino di ognuno.