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Papa Francesco: la carità aiuta a cambiare il mondo
“Venticinque anni fa, durante il Grande Giubileo del 2000, fu istituita la Fondazione della Guardia Svizzera Pontificia. Ora è appena iniziato un altro Anno Giubilare, che coincide felicemente con la celebrazione del vostro 25^ anniversario. E’ molto bello che lo facciate con un pellegrinaggio a Roma, dove potete rinnovare la professione di fede in Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, presso le tombe degli Apostoli. A me piace pensare che tutta questa costruzione vaticana è sopra le tombe dei martiri. Sono stati sepolti qui, qui sotto”: oggi papa Francesco ha ricevuto in udienza i rappresentanti della Fondazione che da 25 anni sostiene gli appartenenti al corpo pontificio e le loro famiglie sia negli anni di servizio in Vaticano sia dopo il rientro nei luoghi di provenienza.
Ed è un ‘lavoro’ che chiede molta pazienza: “Il vostro prezioso impegno, infatti, deve essere sempre animato da uno spirito di fede e di carità, perché aiutare la Guardia Svizzera Pontificia significa sostenere il Successore di Pietro nel suo ministero nella Chiesa universale; anch’io personalmente sono molto grato per il servizio fedele delle guardie.
Nei tempi il lavoro della Guardia Svizzera è molto cambiato, ma la sua finalità rimane sempre quella di proteggere il papa. Questo comporta anche di contribuire all’accoglienza di tanti pellegrini provenienti da tutte le parti del mondo che desiderano incontrarlo. Per questo ci vuole pazienza, e le guardie ne hanno! Questa è una cosa bella di loro: ripetono le cose, spiegano… Una pazienza molto grande”.
Ed ha ringraziato la Fondazione per il supporto dato alle guardie ed alle loro famiglie: “La vostra Fondazione supporta le guardie in diversi modi e ambiti: in primo luogo si adopera in favore delle famiglie, soprattutto per quanto riguarda l’educazione e la formazione dei figli negli istituti scolastici appropriati. A me piace che le guardie si sposino; a me piace che abbiano dei figli, che abbiano una famiglia. Questo è molto importante, molto importante. Questo aspetto è diventato tanto più rilevante, in quanto le guardie sposate con figli sono aumentate e il bene delle famiglie è di fondamentale importanza per la Chiesa e la società”.
Inoltre ha evidenziato la collaborazione ed il sostegno che essa mette a disposizione: “ Inoltre, la Fondazione fornisce i mezzi per garantire, migliorare e aggiornare la professionalità e i metodi di lavoro, delle attrezzature e delle infrastrutture. Infine, offrite una valida assistenza per tutti coloro che, dopo il loro servizio in Vaticano, rientrano in patria. Io sono in contatto con alcuni di questi, che rimangono molto, molto uniti al Vaticano, alla Chiesa. A volte chiamano al telefono, inviano qualcosa; quando passano da Roma mi fanno visita. E’ un bel contatto che ho.
E tutto questo è necessario perché le guardie possano svolgere il loro prezioso servizio nel modo più efficace e per il bene di tutti. La cooperazione tra la vostra Fondazione e la Guardia Svizzera Pontificia è esemplare, perché dimostra che nessuna realtà può andare avanti da sola. E’ importante collaborare. Tutti dobbiamo aiutarci e sostenerci a vicenda e questo vale per voi, per le singole comunità, ma anche per la Chiesa intera”.
E’ stato un ringraziamento per questo supporto: “Perciò vorrei cogliere l’occasione di questo incontro con voi per esprimervi la mia viva gratitudine per il generoso sostegno che avete elargito a favore della Guardia Svizzera Pontificia durante questi venticinque anni. Grazie, grazie tante! E auspico che anche in futuro possiate proseguire il vostro apprezzato lavoro”.
In seguito il papa ha ricevuto una sessantina di membri della ‘Fondazione Cattolica’ di Verona, incoraggiandoli a disporre delle risorse economiche a ‘vantaggio del prossimo’: “Sono lieto di incontrarvi all’inizio di quest’anno, nel quale celebriamo il Giubileo della speranza. Insieme, peregrinantes in spem: camminare come pellegrini nel mondo ci ricorda che non ne siamo padroni, bensì custodi. Questo ci riguarda tutti: siamo chiamati a prenderci cura della casa comune che il Signore ci ha affidato, cioè a coltivarla e custodirla secondo una regola sapiente e rispettosa; custodire la nostra casa comune”.
Ricordando il significato di ‘economia’ il papa ha incoraggiato a proseguire nelle azioni a favore del bene comune: “A tale proposito, la vostra Fondazione è attiva in molti ambiti sociali. Ho appreso con piacere le iniziative di solidarietà, di sostegno al volontariato, di formazione culturale e professionale a cui vi dedicate. Lodo soprattutto quelle a sostegno delle famiglie e dei giovani, in collaborazione con la diocesi di Verona.
L’intraprendenza e la generosità del vostro operato è coerente col nome della Fondazione che rappresentate: Cattolica. Vi incoraggio perciò ad andare avanti facendo del bene sempre e a tutti. Facendo non stiamo fermi; fare del bene, e a tutti, fare del bene a tutti. Un bel programma di vita!”
Inoltre ha sottolineato che il denaro rende meglio se investito in opere a favore del prossimo: “Non dimentichiamo che il denaro rende di più quando è investito a vantaggio del prossimo. Questo è importante. C’è una situazione molto brutta, adesso, sugli investimenti. In alcuni Paesi gli investimenti che danno più reddito sono le fabbriche delle armi: investire per uccidere. Sono pazzi!”
Per questo il papa ha evidenziato che investire in armamenti è contro le persone: “Questo non è a vantaggio della gente. E quando si fa così, contro o fuori rispetto al vantaggio della gente, il denaro invecchia e appesantisce il cuore, rendendolo duro e sordo alla voce dei poveri. La prima cosa da scartare per l’egoismo sono i poveri, è curioso questo”.
Infine li ha esortati a promuovere il bene comune: “Quando mettiamo la ricchezza a servizio della dignità dell’uomo, non possiamo che averne guadagno, sempre: promuovendo il bene comune, infatti, si migliorano i legami della società cui tutti partecipiamo.
Davanti alle emergenze educative e lavorative, vi esorto a rinnovare di continuo la vostra fiducia nella Provvidenza di Dio, che guida con amore la storia chiamandoci a costruire un futuro secondo giustizia”.
(Foto: Santa Sede)
Alcide De Gasperi: un profeta non moderato
“A settant’anni dalla sua morte, la Repubblica rende omaggio ad Alcide De Gasperi, uno dei suoi Padri fondatori, onorandone lo straordinario contributo alla causa della libertà, alla costruzione della democrazia e di un ordine internazionale pacifico e più giusto”: lo ha dichiarato in un messaggio il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 70^ anniversario della scomparsa di Alcide De Gasperi.
Nel messaggio il presidente della Repubblica italiana ha sottolineato la sua fermezza negli ideali: “Pagò con la carcerazione la sua opposizione nei confronti dell’affermazione del regime fascista, e non rinunciò mai a perseguire quegli ideali volti a pervenire a un ordinamento statale basato sul rispetto delle libertà fondamentali che lo portarono in seguito ad essere riconosciuto come ricostruttore della Patria”.
Ideali corroborati dalla sua abilità di statista: “Le sue abilità di statista si rivelarono impareggiabili all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, dove in seno a complessi negoziati internazionali, seppe raggiungere equilibri che affermarono nuovamente la dignità dell’Italia gravemente compromessa dalla dittatura, con l’attenuazione delle conseguenze di trattati imposti a una Nazione i cui destini il fascismo aveva voluto unire a quelli del Terzo Reich nazista”.
E nella lectio degasperiana tenuta a Pieve Tesino, l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, mons. Ivan Maffeis, ha sottolineato che De Gasperi guidò l’Italia verso una nuova stagione della democrazia: “La sua grandezza non si misura solo con quello che ha fatto come statista, ma soprattutto per la testimonianza che ci ha offerto. Come gli antichi profeti, ha indicato una strada e un metodo politico che vanno oltre la sua stessa esistenza.
Ha accettato di mettersi alla guida del suo popolo, senza garanzie e senza esitazioni. Prima è stata la volta del popolo trentino, orfano e disperso durante la Prima guerra mondiale, poi quella del popolo italiano che imparò a conoscere. Quando nel 1945 assunse il compito di guidare l’Italia fuori dal deserto in cui la democrazia si era smarrita, De Gasperi aveva 64 anni”.
Ha sottolineato il valore della sua profezia non ‘moderata’: “Come tutti i profeti, non era un moderato. Senza mai tirarsi indietro nelle battaglie elettorali, ha contribuito a riscattare la politica dai suoi aspetti più materiali e duri. Voleva fornirle un’anima, fare in modo che avesse sentimenti e principi. Ha praticato l’arte di comporre le differenze in modo tale che esse non diventassero opposizioni preconcette, ma si integrassero in quell’amicizia politica che è l’anima della democrazia. Non si trattò di una concordia oltre la discordia, ma di una concordia nella discordia. Sapeva che sarebbe venuto il tempo delle scelte di campo”.
La sua profezia non è ‘idealistica’: “Ha delle caratteristiche peculiari e memorabili. Basterebbe riprendere le sue pagine contro l’idealismo astratto della politica e contro le manipolazioni della sofferenza e della disperazione dei poveri. Con la medesima forza, anche all’interno del suo partito ha combattuto ogni forma di messianismo e ogni pulsione utopistica. Non amava le cosiddette terze vie: sapeva che cosa significhi operare dentro e non contro la storia.
Era consapevole che il destino dell’Italia solo in minima parte è nelle mani dei suoi governanti. Conosceva bene, fin dai tempi in cui da giovane giornalista scriveva di politica estera, le dinamiche delle alleanze. Non le subiva come limitazioni, ma anzi le valutava come opportunità. Era davvero entrato nello spirito europeo. Lo guidava un acuto senso della realtà e della fragilità umana. Sapeva che non c’era futuro per chi inganna le masse”.
Ed ha concluso la ‘lectio con un discorso che Alcide De Gasperi tenne a Bruxelles nel 1948: “In democrazia non bisogna scoraggiarsi: lo scoraggiamento è il pericolo principale delle democrazie. Non occorrono mezzi artificiosi, promesse mirabolanti, per infondere coraggio, questi sono mezzi degli assolutismi. Basta la coscienza profonda e la certezza di attuare il proprio proposito. La pazienza è la virtù dei riformatori; riformare vuol dire superare il passato e la pazienza è virtù dei forti, virtù di chi ha fede, di chi ha coscienza dei problemi e li segue con tutta l’attenzione”.
Giubileo: la speranza non delude
Per l’apostolo delle Genti, san Paolo la speranza non delude: “Nel segno della speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma. La speranza è anche il messaggio centrale del prossimo Giubileo, che secondo antica tradizione il Papa indice ogni venticinque anni. Penso a tutti i pellegrini di speranza che giungeranno a Roma per vivere l’Anno Santo e a quanti, non potendo raggiungere la città degli apostoli Pietro e Paolo, lo celebreranno nelle Chiese particolari”.
E’ l’invito di papa Francesco per il Giubileo del prossimo anno, che papa Francesco fa nella bolla di indizione giubilare ‘Spes non confundit’, in quanto la speranza è un desiderio di tutti: “Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé.
L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni”.
La fede è animata dalla speranza: “E’ infatti lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino… perché questa speranza non cede nelle difficoltà: essa si fonda sulla fede ed è nutrita dalla carità, e così permette di andare avanti nella vita”.
Nella Bolla il papa ha sottolineato il realismo di san Paolo: “Per l’Apostolo, la tribolazione e la sofferenza sono le condizioni tipiche di quanti annunciano il Vangelo in contesti di incomprensione e di persecuzione. Ma in tali situazioni, attraverso il buio si scorge una luce: si scopre come a sorreggere l’evangelizzazione sia la forza che scaturisce dalla croce e dalla risurrezione di Cristo. E ciò porta a sviluppare una virtù strettamente imparentata con la speranza: la pazienza. Siamo ormai abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è diventata una costante”.
Ed ha ricordato il percorso giubilare intrapreso nei secoli dalla Chiesa: “Mi piace pensare che un percorso di grazia, animato dalla spiritualità popolare, abbia preceduto l’indizione, nel 1300, del primo Giubileo. Non possiamo infatti dimenticare le varie forme attraverso cui la grazia del perdono si è riversata con abbondanza sul santo Popolo fedele di Dio.
Ricordiamo, ad esempio, la grande ‘perdonanza’ che san Celestino V volle concedere a quanti si recavano nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, nei giorni 28 e 29 agosto 1294, sei anni prima che Papa Bonifacio VIII istituisse l’Anno Santo. La Chiesa già sperimentava, dunque, la grazia giubilare della misericordia.
Ed ancora prima, nel 1216, papa Onorio III aveva accolto la supplica di San Francesco che chiedeva l’indulgenza per quanti avrebbero visitato la Porziuncola nei primi due giorni di agosto. Lo stesso si può affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela: infatti Papa Callisto II, nel 1122, concesse di celebrare il Giubileo in quel Santuario ogni volta che la festa dell’apostolo Giacomo cadeva di domenica. E’ bene che tale modalità ‘diffusa’ di celebrazioni giubilari continui, così che la forza del perdono di Dio sostenga e accompagni il cammino delle comunità e delle persone”.
Quindi il Giubileo presuppone un pellegrinaggio: “Non a caso il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita. Il pellegrinaggio a piedi favorisce molto la riscoperta del valore del silenzio, della fatica, dell’essenzialità. Anche nel prossimo anno i pellegrini di speranza non mancheranno di percorrere vie antiche e moderne per vivere intensamente l’esperienza giubilare.
Nella stessa città di Roma, inoltre, saranno presenti itinerari di fede, in aggiunta a quelli tradizionali delle catacombe e delle Sette Chiese. Transitare da un Paese all’altro, come se i confini fossero superati, passare da una città all’altra nella contemplazione del creato e delle opere d’arte permetterà di fare tesoro di esperienze e culture differenti, per portare dentro di sé la bellezza che, armonizzata dalla preghiera, conduce a ringraziare Dio per le meraviglie da Lui compiute”.
Ed ha indicato alcuni ‘segni’ di speranza: “Il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza…
Il Giubileo ricordi che quanti si fanno ‘operatori di pace saranno chiamati figli di Dio’. L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati ad una pace duratura”.
Un altro segno di speranza riguarda la vita: “L’apertura alla vita con una maternità e paternità responsabile è il progetto che il Creatore ha inscritto nel cuore e nel corpo degli uomini e delle donne, una missione che il Signore affida agli sposi e al loro amore.
E’ urgente che, oltre all’impegno legislativo degli Stati, non venga a mancare il sostegno convinto delle comunità credenti e dell’intera comunità civile in tutte le sue componenti, perché il desiderio dei giovani di generare nuovi figli e figlie, come frutto della fecondità del loro amore, dà futuro ad ogni società ed è questione di speranza: dipende dalla speranza e genera speranza”.
Nella Bolla papa Francesco sottolinea che il cristiano non può accontentarsi di ‘vivacchiare’, ma deve avere la gioia di vivere: “La comunità cristiana perciò non può essere seconda a nessuno nel sostenere la necessità di un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine che vengano a riempire le ormai troppe culle vuote in molte parti del mondo.
Ma tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti”.
Ed ecco gli appelli alla speranza con l’invito a riscoprire il senso biblico del giubileo: “Facendo eco alla parola antica dei profeti, il Giubileo ricorda che i beni della Terra non sono destinati a pochi privilegiati, ma a tutti. E’ necessario che quanti possiedono ricchezze si facciano generosi, riconoscendo il volto dei fratelli nel bisogno. Penso in particolare a coloro che mancano di acqua e di cibo: la fame è una piaga scandalosa nel corpo della nostra umanità e invita tutti a un sussulto di coscienza”.
Ed alle nazioni ‘benestanti’ ha fatto l’invito del condono dei debiti: “Un altro invito accorato desidero rivolgere in vista dell’Anno giubilare: è destinato alle Nazioni più benestanti, perché riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli… Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati”.
L’altro pensiero è stato rivolto all’anniversario del Concilio di Nicea: “L’Anno giubilare potrà essere un’opportunità importante per dare concretezza a questa forma sinodale, che la comunità cristiana avverte oggi come espressione sempre più necessaria per meglio corrispondere all’urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo”.
Anzi è una ‘pietra miliare’ per l’unità dei cristiani: “Il Concilio di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. L’anniversario della sua ricorrenza invita i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, ‘della stessa sostanza del Padre’, che ci ha rivelato tale mistero di amore. Ma Nicea rappresenta anche un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile, a non stancarsi di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù”.
E proprio nel prossimo anno tutti i cristiani possono vivere la Pasqua nello stesso anno: “Al Concilio di Nicea si trattò anche della datazione della Pasqua. A tale riguardo, vi sono ancora oggi posizioni differenti, che impediscono di celebrare nello stesso giorno l’evento fondante della fede. Per una provvidenziale circostanza, ciò avverrà proprio nell’Anno 2025.
Possa essere questo un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso l’unità intorno a una data comune per la Pasqua. Molti, è bene ricordarlo, non hanno più cognizione delle diatribe del passato e non comprendono come possano sussistere divisioni a tale proposito”.
Ed un ultimo pensiero è dedicato alla Madre di Dio: “La speranza trova nella Madre di Dio la più alta testimone. In lei vediamo come la speranza non sia fatuo ottimismo, ma dono di grazia nel realismo della vita. Come ogni mamma, tutte le volte che guardava al Figlio pensava al suo futuro, e certamente nel cuore restavano scolpite quelle parole che Simeone le aveva rivolto nel tempio…
Non è un caso che la pietà popolare continui a invocare la Vergine Santa come ‘Stella Maris’, un titolo espressivo della speranza certa che nelle burrascose vicende della vita la Madre di Dio viene in nostro aiuto, ci sorregge e ci invita ad avere fiducia e a continuare a sperare”.
Infine ha ricordato l’importanza dei Santuari mariani: “In proposito, mi piace ricordare che il Santuario di Nostra Signora di Guadalupe, a Città del Messico, si sta preparando a celebrare, nel 2031, i 500 anni dalla prima apparizione della Vergine. Attraverso il giovane Juan Diego la Madre di Dio faceva giungere un rivoluzionario messaggio di speranza che anche oggi ripete a tutti i pellegrini e ai fedeli: ‘Non sto forse qui io, che sono tua madre?’…
In questo Anno giubilare i Santuari siano luoghi santi di accoglienza e spazi privilegiati per generare speranza. Invito i pellegrini che verranno a Roma a fare una sosta di preghiera nei Santuari mariani della città per venerare la Vergine Maria e invocare la sua protezione”.
Papa Francesco: l’educazione semina speranza
“Desidero ringraziarvi, a nome mio e della Chiesa, per il lavoro che svolgete nelle scuole dei gesuiti e nelle altre scuole legate alla missione, che hanno deciso di unirsi allo sforzo apostolico della Compagnia di Gesù. E’ vero che sant’Ignazio ed i primi compagni non considerarono l’importanza delle scuole all’inizio della fondazione della Compagnia. Ma è anche vero che ben presto si resero conto dell’immenso potenziale evangelizzatore e lo accolsero con entusiasmo e dedizione”.
Papa Francesco, ricevendo in mattinata i membri della Commissione Internazionale sull’Apostolato dell’Educazione dei Gesuiti, ha sottolineato l’importanza delle scuole, in quanto sono la cinghia di trasmissione per l’evangelizzazione nelle generazioni:
“Senza dubbio, le scuole dei gesuiti hanno permesso che il messaggio del Vangelo continuasse a farsi sentire tra le nuove generazioni, accompagnato dal rigore accademico e intellettuale che le caratterizza. Ma il centro è stato e deve continuare ad essere Gesù. Ecco perché i gesuiti, attraverso i programmi di studio e le attività nelle scuole, si adoperavano affinché i giovani potessero entrare in contatto con il Vangelo, con il servizio agli altri e, così, contribuire al bene comune”.
E’ stato un elogio alle Congregazioni Mariane, istituite dai Gesuiti: “Le Congregazioni Mariane furono un bellissimo esempio di come l’educazione gesuita volesse invitare i suoi studenti a diventare agenti di cambiamento ed agenti di evangelizzazione nel loro contesto. Si trattava di imparare fin da piccoli a scoprire Dio presente negli altri, soprattutto nei poveri e negli emarginati. Questa è la vera educazione, accompagnare i giovani a scoprire la costruzione del bene comune nel servizio agli altri e nel rigore accademico”.
Quindi ha spiegato il motivo per cui ha promosso il ‘Nuovo Patto Educativo Globale’ per un nuovo modo di pensare la cultura: “Proprio il Nuovo Patto Educativo Globale, che ho promosso, vuole attualizzare lo sforzo educativo affinché i giovani si preparino e comincino a cambiare la mentalità di un’educazione solo per il ‘mio’ successo personale, nella mentalità di un’educazione che li conduca per scoprire la vera pienezza della vita, quando i doni e le capacità personali vengono utilizzati in collaborazione con gli altri, per la costruzione di una società e di un mondo più umani e fraterni”.
Al centro di questo nuova cultura è la persona, come sottolineava p. Arrupe: “Dobbiamo passare dalla cultura dell’ ‘io’ alla cultura del ‘noi’, in cui l’istruzione di qualità è definita dai suoi risultati umanizzanti e non da quelli economici. Ciò significa mettere la persona al centro del processo. Ed era ciò che padre Arrupe ci ripeteva spesso quando insisteva sulla necessità di ‘educare le persone per gli altri’. Padre Arrupe aveva ben chiaro che la persona per gli altri è, per eccellenza, Gesù, il vero uomo con e per gli altri”.
Ha ribadito che si educa attraverso l’esempio, come ha fatto Gesù: “Come ben sapete, il modo migliore per educare è con l’esempio, modellando in noi stessi ciò che vogliamo nei nostri studenti. Così Gesù educò i suoi discepoli. Così siamo chiamati a educare nelle nostre scuole. Pertanto, tutto ciò che potete fare è importante affinché gli educatori delle nostre scuole comprendano esistenzialmente questa chiamata”.
Per questo tipo educativo occorra formare coloro che educano: “Mettere al centro la persona significa mettere gli educatori al centro della formazione, offrire loro una formazione e un sostegno che li aiuti anche a scoprire le loro potenzialità e la loro profonda vocazione ad accompagnare gli altri. Mettere la persona al centro significa decentrarsi per percepire gli altri, soprattutto coloro che sono ai margini delle nostre società e che non solo hanno bisogno del nostro aiuto, ma hanno molto da insegnarci e darci un contributo”.
Quindi ha detto che è essenziale il rapporto degli educatori con Gesù: “Naturalmente, come ho indicato nella mia lettera confermando le Preferenze Apostoliche Universali della Compagnia di Gesù, la prima preferenza è essenziale per comprendere il senso dell’educazione della Compagnia, perché senza un vero rapporto degli educatori con il Signore è non è possibile. Dobbiamo insistere su questo punto.
Per questo sono felice che avrete il Seminario Internazionale di Yogyakarta, per poter approfondire come condividiamo con i giovani il tesoro rivelato in Gesù e perché possano sperimentarne il mistero liberatore e salvifico. Ma ci riusciranno solo se riconosceranno nei loro educatori (compresi i genitori, primi educatori delle famiglie) quel rapporto con Dio e quel profondo rispetto per gli altri e per il creato. Per loro le nostre scuole devono essere anche educatrici di educatori, maestre di insegnanti”.
Inoltre la promozione del ‘nuovo patto educativo’ sviluppa la speranza: “Sono felice di contare su di voi per promuovere un nuovo patto educativo globale. Senza questo, il nostro mondo, che già soffre di tanta violenza e polarizzazione, non sarà in grado di creare un futuro di speranza o di superare le gravi sfide che lo colpiscono e che ci costringono a diventare più consapevoli che condividiamo la casa comune del nostro mondo”.
Infatti l’educazione semina speranza e si deve svolgere con pazienza: “Educare è compito di seminare e, come dice la Sacra Scrittura, molte volte ‘si semina tra le lacrime per raccogliere tra i canti’. L’educazione è un compito a lungo termine, da svolgere con pazienza, dove i risultati a volte non sono chiari; Anche Gesù all’inizio non ha avuto buoni risultati con i discepoli, ma è stato paziente, e continua ad essere paziente con noi per insegnarci che educare è aspettare, perseverare e insistere con amore”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: in piedi costruttori di pace!
La mattina di papa Francesco a Verona si è conclusa con l’incontro con i carcerati reclusi nella Casa Circondariale di Montorio, insieme agli agenti di polizia penitenziaria ed ai volontari, sottolineando l’importanza dell’evento:
“Per me entrare in un carcere è sempre un momento importante, perché il carcere è un luogo di grande umanità. Sì, è un luogo di grande umanità. Di umanità provata, talvolta affaticata da difficoltà, sensi di colpa, giudizi, incomprensioni, sofferenze, ma nello stesso tempo carica di forza, di desiderio di perdono, di voglia di riscatto, come ha detto Duarte nel suo discorso”.
In tale incontro ha evidenziato la presenza reale di Dio, che si esprime attraverso la misericordia: “E in questa umanità, qui, in tutti voi, in tutti noi, è presente oggi il volto di Cristo, il volto del Dio della misericordia e del perdono. Non dimenticate questo: Dio perdona tutto e perdona sempre, in questa umanità, qui, in tutti voi. Questo senso di guardare il Dio della misericordia”.
Quella del papa è una parola che apre alla speranza: “Con Lui al nostro fianco, con il Signore al nostro fianco, possiamo vincere la disperazione. E, come ha detto la direttrice, Dio è uno: le nostre culture ci hanno insegnato a chiamarlo con un nome, con un altro, e a trovarlo in maniere diverse, ma è lo stesso padre di tutti noi. È uno. E tutte le religioni, tutte le culture, guardano all’unico Dio con modalità differenti. Mai ci abbandona. Con Lui al nostro fianco, possiamo vincere la disperazione e vivere ogni istante come il tempo opportuno per ricominciare”.
E’ un discorso che si collega all’apertura dell’Anno Santo: “Tra pochi mesi inizierà l’Anno Santo: un anno di conversione, di rinnovamento e di liberazione per tutta la Chiesa; un anno di misericordia, in cui deporre la zavorra del passato e rinnovare lo slancio verso il futuro; in cui celebrare la possibilità di un cambiamento, per essere e, dove necessario, tornare ad essere veramente noi stessi, donando il meglio. Sia anche questo un segno che ci aiuti a rialzarci e a riprendere in mano, con fiducia, ogni giorno della nostra vita”.
Ma il momento della visita più atteso è stato quello svoltosi nell’Arena con oltre 12.000 persone, che si è trasformato in uno spettacolo di fratellanza con testimonianze di fraternità e di pace, come quella dei due imprenditori (uno israeliano e l’altro palestinese), colpiti negli affetti familiari dalla guerra in corso, che sul palco si abbracciano e abbracciano il papa, riscuotendo un commosso applauso; oppure la testimonianza di Mahbouba Seraj, profuga di Kabul, che chiede pace per il proprio Paese, dopo 44 anni di guerra:
“La domanda è su quale tipo di leadership può portare avanti questo compito che tu hai espresso così profondamente. La cultura fortemente marcata dall’individualismo, non da una comunità, rischia sempre di far sparire la dimensione della comunità: dove c’è individualismo forte, sparisce la comunità…
L’autorità è essenzialmente collaborativa; altrimenti sarà autoritarismo e tante malattie che ne nascono. L’autorità per costruire processi solidi di pace sa infatti valorizzare quanto c’è di buono in ognuno, sa fidarsi, e così permette alle persone di sentirsi a loro volta capaci di dare un contributo significativo. Questo tipo di autorità favorisce la partecipazione, che spesso si riconosce essere insufficiente sia per la quantità che per la qualità. Partecipazione: non dimenticare questa parola. Lavoriamo tutti, tutti partecipiamo nell’opera che portiamo avanti”.
Quindi la pace si costruisce insieme: “Questa forza dell’insieme, la partecipazione è questo. Bisogna investire sui giovani, sulla loro formazione,per trasmettere il messaggio che la strada per il futuro non può passare solo attraverso l’impegno di un singolo, per quanto animato delle migliori intenzioni e con la preparazione necessaria, ma passa attraverso l’azione di un popolo (il popolo è protagonista, non dimentichiamo questo), in cui ognuno fa la propria parte, ciascuno in base ai propri compiti e secondo le proprie capacità. E vi farei io una domanda: in un popolo, il lavoro dell’insieme è la somma del lavoro di ognuno? Soltanto quello? No, è di più! E’ di più. Uno più uno fa tre: questo è il miracolo di lavorare insieme”.
Ai volontari, quindi il papa risponde che la pace va promossa: “E’ proprio il Vangelo che ci dice di metterci dalla parte dei piccoli, dalla parte dei deboli, dalla parte dei dimenticati. Il Vangelo ci dice questo. E Gesù, con il gesto della lavanda dei piedi che sovverte le gerarchie convenzionali, ci dice lo stesso. E’ sempre Lui che chiama i piccoli e gli esclusi e li pone al centro, li invita a stare in mezzo agli altri, li presenta a tutti come testimoni di un cambiamento necessario e possibile.
Con le sue azioni Gesù rompe convenzioni e pregiudizi, rende visibili le persone che la società del suo tempo nascondeva o disprezzava. Questo è molto importante: non nascondere le limitazioni. Ci sono persone molto limitate, fisicamente, spiritualmente, socialmente, economicamente… Non nascondere le limitazioni. Gesù non le nascondeva. E Gesù lo fa senza volersi sostituire a loro, senza strumentalizzarle, senza privarle della loro voce, della loro storia, dei loro vissuti”.
Però è necessario un cambio di prospettiva: “Ecco, questa è la conversione che cambia la nostra vita, la conversione che cambia il mondo. Una conversione che riguarda tutti noi singolarmente, ma anche come membri delle comunità, dei movimenti, delle realtà associative a cui apparteniamo, e come cittadini. E riguarda anche le istituzioni, che non sono esterne o estranee a questo processo di conversione”.
Però la prospettiva ha necessità di un nuovo centro: “Il primo passo è riconoscere che non siamo noi al centro… Guardiamo la lista dei piccoli, di tanti “piccoli” che abbiamo noi. E pensiamo a una categoria che tutti noi abbiamo in famiglia, piccoli nel senso, diciamo, di diminuiti per l’età: pensiamo ai nonni… Stiamo attenti con i vecchi: i vecchi sono saggezza. Non dimentichiamo questo. Lo dico con dolore: questa società tante volte nasconde i vecchi, abbandona i vecchi”.
Inoltre la pace va curata: “Tante volte le guerre vengono dall’impazienza di fare presto le cose e non avere quella pazienza di costruire la pace, lentamente, con il dialogo. La pazienza è la parola che dobbiamo ripetere continuamente: la pazienza per fare la pace. E se qualcuno (lo vediamo nella vita naturale) se qualcuno ti insulta, ti viene subito la voglia di dirgli il doppio e poi il quadruplo e così si va moltiplicando l’aggressione, le aggressioni si moltiplicano. Dobbiamo fermare, fermare l’aggressione… Quando noi vediamo che le cose incominciamo a essere bollenti, fermiamoci, facciamo una passeggiata o diciamo una parola, e le cose andranno meglio. Fermarsi in tempo, fermarsi in tempo!”
Inoltre la pace va sperimentata: “Il primo passo da fare per vivere in modo sano tensioni e conflitti è riconoscere che fanno parte della nostra vita, sono fisiologici, quando non travalicano la soglia della violenza. Quindi non averne paura: benvenuti, per risolverli. Non averne paura. Non temere se ci sono idee diverse che si confrontano e forse si scontrano. In queste situazioni siamo chiamati a un esercizio diverso. Lasciarci interpellare dal conflitto, lasciarci provocare dalle tensioni, per metterci in ricerca: come risolvere, come andare alla ricerca dell’armonia. Questo è un lavoro che noi non siamo abituati a fare: eppure è la ricchezza, è la ricchezza sociale, questo, sia della famiglia sia della società”.
Quindi è necessario convivere con i conflitti: “Ci sono dei conflitti? Andiamo, parliamo dei conflitti, confrontiamoci per risolverli. Per favore, non avere paura dei conflitti, siano conflitti famigliari, siano sociali. Ed è chiaro che se io non ho paura del conflitto, sono portato a fare il dialogo. E il dialogo ci aiuta a risolvere i conflitti, sempre. Ma il dialogo non è arrivare all’uguaglianza, no, perché ognuno ha la propria idea; ma ci fa condividere la pluralità… Dobbiamo imparare a vivere con i conflitti: quando i figli adolescenti incominciano a chiedere cose che non siamo abituati a dare loro, c’è un conflitto familiare: ascoltarli, dialogo. Papà che dialoga con i figli, mamma che dialoga con i figli, cittadini che dialogano tra loro… Dialogo. E i conflitti ti fanno progredire. Una società senza conflitto è una società morta; una società dove si nascondono i conflitti è una società suicida; una società dove si prendono i conflitti per mano e si dialoga è una società di futuro”.
E la pace va preparata con un riferimento all’abbraccio avvenuto tra un israeliano ed un palestinese: “Abbracciarci. Ambedue hanno perso i familiari, la famiglia si è rotta per questa guerra. A che serve la guerra? Per favore, facciamo un piccolo momento di silenzio, perché non si può parlare troppo di questo, ma “sentire”. E guardando l’abbraccio di questi due, ognuno dal proprio cuore preghi il Signore per la pace, e prenda una decisione interiore di fare qualcosa perché finiscano le guerre. In silenzio, un attimo”.
Il papa ha anche riservato un pensiero ai bambini che vivono nelle guerre: “Quale futuro avranno? Mi vengono in mente i bambini ucraini che vengono a Roma: non sanno sorridere. I bambini nella guerra perdono il sorriso. E pensiamo ai vecchi che hanno lavorato tutta la vita per portare avanti questi due Paesi, ed adesso… Una sconfitta, una sconfitta storica e una sconfitta di tutti noi. Preghiamo per la pace, e diciamo a questi due fratelli che portino questo desiderio nostro e la volontà di lavorare per la pace al loro popolo”.
Concludendo la mattinata il papa ha ripetuto l’invito di mons. Tonino Bello: “Fratelli e sorelle, le nostre civiltà in questo momento stanno seminando, distruzione, paura. Seminiamo, fratelli e sorelle, speranza! Siamo seminatori di speranza! Ognuno cerchi il modo di farlo, ma seminatori di speranza, sempre. E’ quello che state facendo anche voi, in questa Arena di Pace: seminare speranza. Non smettete. Non scoraggiatevi. Non diventate spettatori della guerra cosiddetta ‘inevitabile’. No, spettatori di una guerra cosiddetta inevitabile, no. Come diceva il vescovo Tonino Bello: ‘In piedi tutti, costruttori di pace!’ Tutti insieme”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: la speranza non marcisce
“Tra canti di gioia Gesù è asceso al Cielo, dove siede alla destra del Padre. Egli (come abbiamo appena ascoltato) ha ingoiato la morte perché noi diventassimo eredi della vita eterna. L’Ascensione del Signore, perciò, non è un distacco, una separazione, un allontanarsi da noi, ma è il compimento della sua missione: Gesù è disceso fino a noi per farci salire fino al Padre; è disceso in basso per portarci in alto; è disceso nelle profondità della terra perché il Cielo si potesse spalancare sopra di noi. Egli ha distrutto la nostra morte perché noi potessimo ricevere la vita, e per sempre”.
Nel pomeriggio papa Francesco ha celebrato nella basilica vaticana i secondi vespri della solennità dell’ascensione, in cui all’inizio della celebrazione ha consegnato, leggendo alcuni passi, la bolla di indizione del Giubileo del prossimo anno, ‘Spes non confundit’; nell’omelia il papa ha invitato a non confondere la speranza con ottimismo:
“Fratelli e sorelle, è questa speranza, radicata in Cristo morto e risorto, che vogliamo celebrare, accogliere e annunciare al mondo intero nel prossimo Giubileo, che è ormai alle porte. Non si tratta di semplice ottimismo (diciamo ottimismo umano) o di un’effimera aspettativa legata a qualche sicurezza terrena, no, è una realtà già compiuta in Gesù e che ogni giorno è donata anche a noi, fino a quando saremo una cosa sola nell’abbraccio del suo amore”.
Infatti per san Pietro la speranza radicata in Cristo non ‘marcisce’: “La speranza cristiana sostiene il cammino della nostra vita anche quando si presenta tortuoso e faticoso; apre davanti a noi strade di futuro quando la rassegnazione e il pessimismo vorrebbero tenerci prigionieri; ci fa vedere il bene possibile quando il male sembra prevalere; la speranza cristiana ci infonde serenità quando il cuore è appesantito dal fallimento e dal peccato; ci fa sognare una nuova umanità e ci rende coraggiosi nel costruire un mondo fraterno e pacifico, quando sembra che non valga la pena di impegnarsi. Questa è la speranza, il dono che il Signore ci ha dato con il Battesimo”.
In questo anno dedicato alla preghiera il papa ha sottolineato che nella società c’è bisogno di speranza: “Ne ha bisogno la società in cui viviamo, spesso immersa nel solo presente e incapace di guardare al futuro; ne ha bisogno la nostra epoca, che a volte si trascina stancamente nel grigiore dell’individualismo e del ‘tirare a campare’; ne ha bisogno il creato, gravemente ferito e deturpato dagli egoismi umani; ne hanno bisogno i popoli e le nazioni, che si affacciano al domani carichi di inquietudini e di paure, mentre le ingiustizie si protraggono con arroganza, i poveri vengono scartati, le guerre seminano morte, gli ultimi restano ancora in fondo alla lista e il sogno di un mondo fraterno rischia di apparire come un miraggio.
Ne hanno bisogno i giovani, spesso disorientati ma desiderosi di vivere in pienezza; ne hanno bisogno gli anziani, che la cultura dell’efficienza e dello scarto non sa più rispettare e ascoltare; ne hanno bisogno gli ammalati e tutti coloro che sono piagati nel corpo e nello spirito, che possono ricevere sollievo attraverso la nostra vicinanza e la nostra cura”.
Citando Romano Guardini il papa ha evidenziato che anche la Chiesa ha bisogno di speranza: “E inoltre, cari fratelli e sorelle, di speranza ha bisogno la Chiesa, perché, anche quando sperimenta il peso della fatica e della fragilità, non dimentichi mai di essere la Sposa di Cristo, amata di un amore eterno e fedele, chiamata a custodire la luce del Vangelo, inviata a trasmettere a tutti il fuoco che Gesù ha portato e acceso nel mondo una volta per sempre”.
Ed anche noi: “Di speranza ha bisogno ciascuno di noi: le nostre vite talvolta affaticate e ferite, i nostri cuori assetati di verità, di bontà e di bellezza, i nostri sogni che nessun buio può spegnere. Tutto, dentro e fuori di noi, invoca speranza e va cercando, anche senza saperlo, la vicinanza di Dio”.
E nella bolla di indizione il papa ha sottolineato che la speranza è un desiderio umano: “Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé.
L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni. Lasciamoci condurre da quanto l’apostolo Paolo scrive proprio ai cristiani di Roma”.
Nella lettera il papa coniuga la speranza con la pazienza: “Per l’Apostolo, la tribolazione e la sofferenza sono le condizioni tipiche di quanti annunciano il Vangelo in contesti di incomprensione e di persecuzione. Ma in tali situazioni, attraverso il buio si scorge una luce: si scopre come a sorreggere l’evangelizzazione sia la forza che scaturisce dalla croce e dalla risurrezione di Cristo. E ciò porta a sviluppare una virtù strettamente imparentata con la speranza: la pazienza. Siamo ormai abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è diventata una costante”.
E’ un invito ad essere segno di speranza con gesti concreti: “Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto.
Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”.
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: la pazienza è vitamina per il cristiano
Alla viglia del Triduo pasquale papa Francesco ha continuato il ciclo di catechesi su ‘I vizi e le virtù’, incentrando la riflessione sul tema ‘La pazienza’, attraverso l’inno paolino alla carità con un appello alla pace in Ucraina ed in Terra Santa, aggiungendo anche considerazioni a braccio per la pioggia, attraverso il racconto della Passione:
“Alle sofferenze che subisce, Gesù risponde con una virtù che, pur non contemplata tra quelle tradizionali, è tanto importante: la virtù della pazienza. Essa riguarda la sopportazione di ciò che si patisce: non a caso pazienza ha la stessa radice di passione.
E proprio nella Passione emerge la pazienza di Cristo, che con mitezza e mansuetudine accetta di essere arrestato, schiaffeggiato e condannato ingiustamente; davanti a Pilato non recrimina; sopporta gli insulti, gli sputi e la flagellazione dei soldati; porta il peso della croce; perdona chi lo inchioda al legno e sulla croce non risponde alle provocazioni, ma offre misericordia. Questa è la pazienza di Gesù”.
Però la pazienza di Cristo non è quella stoica, ma è frutto dell’Amore di Dio, come emerge dall’inno alla Carità dell’apostolo Paolo: “Infatti, nel descrivere la prima qualità della carità, utilizza una parola che si traduce con ‘magnanima’, ‘paziente’. La carità è magnanima, è paziente.
Essa esprime un concetto sorprendente, che torna spesso nella Bibbia: Dio, di fronte alla nostra infedeltà, si mostra ‘lento all’ira’: anziché sfogare il proprio disgusto per il male e il peccato dell’uomo, si rivela più grande, pronto ogni volta a ricominciare da capo con infinita pazienza. Questo per Paolo è il primo tratto dell’amore di Dio, che davanti al peccato propone il perdono”.
Però spesso a noi manca questa virtù: “Tuttavia, dobbiamo essere onesti: siamo spesso carenti di pazienza. Nel quotidiano siamo impazienti, tutti. Ne abbiamo bisogno come della ‘vitamina essenziale’ per andare avanti, ma ci viene istintivo spazientirci e rispondere al male col male: è difficile stare calmi, controllare l’istinto, trattenere brutte risposte, disinnescare litigi e conflitti in famiglia, al lavoro o nella comunità cristiana. Subito viene la risposta, non siamo capaci di essere pazienti”.
Per questo motivo il papa ha ricordato che la pazienza è una ‘chiamata’: “E ciò chiede di andare controcorrente rispetto alla mentalità oggi diffusa, in cui dominano la fretta e il ‘tutto subito’; dove, anziché attendere che maturino le situazioni, si spremono le persone, pretendendo che cambino all’istante. Non dimentichiamo che la fretta e l’impazienza sono nemiche della vita spirituale. Perché? Dio è amore, e chi ama non si stanca, non è irascibile, non dà ultimatum, Dio è paziente, Dio sa attendere… La pazienza ci fa salvare tutto”.
E la pazienza si può accrescere con la contemplazione al Crocifisso: “Specialmente in questi giorni ci farà bene contemplare il Crocifisso per assimilarne la pazienza. Un bell’esercizio è anche quello di portare a Lui le persone più fastidiose, domandando la grazia di mettere in pratica nei loro riguardi quell’opera di misericordia tanto nota quanto disattesa: sopportare pazientemente le persone moleste. E non è facile. Pensiamo se noi facciamo questo: sopportare pazientemente le persone moleste. Si comincia dal chiedere di guardarle con compassione, con lo sguardo di Dio, sapendo distinguere i loro volti dai loro sbagli”.
Ed infine il consiglio per ‘coltivare’ la pazienza è quello di ampliare la propria visione, come insegna il libro ‘Imitazione di Cristo’: “Infine, per coltivare la pazienza, virtù che dà respiro alla vita, è bene ampliare lo sguardo… Ed ancora, quando ci sentiamo nella morsa della prova, come insegna Giobbe, è bene aprirsi con speranza alla novità di Dio, nella ferma fiducia che Egli non lascia deluse le nostre attese. Pazienza è saper sopportare i mali”.
Inoltre, al termine dell’udienza papa Francesco ha ricordato che sono presenti due padri, che hanno perso le figlie nella guerra, uno israeliano e una arabo, e sono amici: “Non guardano all’inimicizia della guerra, ma guardano l’amicizia di due uomini che si vogliono bene e che sono passati per la stessa crocifissione. Pensiamo a questa testimonianza tanto bella di queste due persone che hanno sofferto nelle loro figlie la guerra della Terra Santa. Cari fratelli, grazie per la vostra testimonianza!”
(Foto: Santa Sede)
Papa Francesco: l’accidia si vince con la fede
“Tutti noi abbiamo letto, abbiamo sentito le storie dei primi martiri della Chiesa, che furono tanti. Qui, dove adesso sorge il Vaticano, c’è un cimitero e molti che erano stati giustiziati sono qui sepolti; scavando, se ne trovano le tombe. Ma anche oggi ci sono tanti martiri in tutto il mondo: tanti, forse più che agli inizi. Ci sono tanti perseguitati per la fede. E oggi mi permetto di salutare in modo speciale un ‘martire vivente’, il cardinale Simoni. Lui, da prete, da Vescovo, ha vissuto 28 anni in carcere, nelle carceri dell’Albania comunista, la persecuzione forse più crudele. E continua a dare testimonianza. E come lui, tanti, tanti, tanti. Adesso ha 95 anni e continua a lavorare per la Chiesa senza scoraggiarsi. Caro fratello, ti ringrazio della testimonianza”.
Papa Francesco invita ad essere santi
“Dopo domani, 1° settembre, si celebra la Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del creato, inaugurando il ‘Tempo del creato’ che durerà fino al 4 ottobre, festa di San Francesco d’Assisi. In quella data ho intenzione di pubblicare un’Esortazione, una seconda ‘Laudato sì’. Uniamoci ai nostri fratelli e sorelle cristiani nell’impegno di custodire il creato come dono sacro del Creatore. E’ necessario schierarsi al fianco delle vittime dell’ingiustizia ambientale e climatica, sforzandosi di porre fine alla insensata guerra alla nostra Casa comune. Esorto tutti a lavorare e pregare affinché essa abbondi nuovamente di vita”.
Al termine dell’udienza generale odierna papa Francesco ha annunciato che nella festa del santo di Assisi pubblicherà un’altra esortazione sul creato; e prima di questo annuncio ha raccontato la santità della prima donna nativa del Nord America, Kateri Tekakwitha, figlia di un capo Mohawk non battezzato e di madre cristiana Algonchina, attraversa i drammi del suo popolo a fine ‘600:
“Anche molti di noi siamo stati presentati al Signore per la prima volta in ambito familiare, soprattutto dalle nostre mamme e nonne. Così inizia l’evangelizzazione e anzi, non dimentichiamo questo, che la fede sempre è trasmessa in dialetto dalle mamme, dalle nonne”.
Il papa ha affermato che la fede si trasmette in famiglia: “La fede va trasmessa in dialetto e noi l’abbiamo ricevuta in questo dialetto dalle mamme e dalle nonne. L’evangelizzazione spesso inizia così: con gesti semplici, piccoli, come i genitori che aiutano i figli a imparare a parlare con Dio nella preghiera e che raccontano loro il suo amore grande e misericordioso. E le basi della fede per Kateri, e spesso anche per noi, sono state poste in questo modo. Lei l’aveva ricevuta dalla mamma in dialetto, il dialetto della fede”.
Le difficoltà della vita le fecero amare Gesù: “Tutto ciò diede a Kateri un grande amore per la croce, segno definitivo dell’amore di Cristo, che si è donato fino alla fine per noi. La testimonianza del Vangelo, infatti, non riguarda solo ciò che è piacevole; dobbiamo anche saper portare con pazienza, con fiducia e speranza le nostre croci quotidiane. La pazienza, davanti alle difficoltà, alle croci: la pazienza è una grande virtù cristiana.
Chi non ha pazienza non è un buon cristiano. La pazienza di tollerare: tollerare le difficoltà e anche tollerare gli altri, che alle volte sono noiosi o ti mettono difficoltà … La vita di Kateri Tekakwitha ci mostra che ogni sfida può essere vinta se apriamo il cuore a Gesù, che ci concede la grazia di cui abbiamo bisogno: pazienza e cuore aperto a Gesù, questa è una ricetta per vivere bene”.
Fu accolta dai Gesuiti, che furono ‘impressionati’ dalla sua fede: “Queste sue pratiche spirituali impressionavano tutti alla Missione; riconobbero in Kateri una santità che attraeva perché nasceva dal suo profondo amore per Dio. E’ proprio della santità, attrarre. Dio ci chiama per attrazione, ci chiama con questa voglia di essere vicino a noi e lei ha sentito questa grazia dell’attrazione divina.
Allo stesso tempo, insegnava ai bambini della Missione a pregare e, attraverso il costante adempimento delle sue responsabilità, compresa la cura dei malati e degli anziani, offrì un esempio di servizio umile e amorevole a Dio e al prossimo. Sempre la fede si esprime nel servizio. La fede non è per truccare sé stessi, l’anima: no; è per servire”.
Quello del papa è un invito a seguire la santità:”Cari fratelli e sorelle, la vita di Kateri è un’ulteriore testimonianza del fatto che lo zelo apostolico implica sia un’unione con Gesù, alimentata dalla preghiera e dai Sacramenti, sia il desiderio di diffondere la bellezza del messaggio cristiano attraverso la fedeltà alla propria vocazione particolare… Non dimentichiamoci: ognuno di noi è chiamato alla santità, alla santità di tutti i giorni, alla santità della vita cristiana comune. Ognuno di noi ha questa chiamata: andiamo avanti su questa strada. Il Signore non ci mancherà”.
(Foto: Santa Sede)
XVI Domenica del Tempo Ordinario: le parabole del regno e la pazienza misericordiosa di Dio
La liturgia oggi presenta tre parabole di Gesù, ciascuna di esse esprime le vera natura del regno di Dio e della Chiesa. Inizialmente questo regno appare minuscolo, come un granello di senapa, è nascosta come il lievito in mezzo alla massa di farina. I figli di questo regno sono chiamati a coesistere pazientemente con accaniti avversari (abbiamo ottimo seme e zizania).