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Papa Francesco ai belgi: la misericordia costruisce il futuro

Al termine della recita dell’Angelus papa Francesco ha preso da Bruxelles per rientrare a Roma con un volo della Brussels Air Line il Papa fa rientro in Vaticano, salutando la delegazione belga con un pensiero nel libro d’onore dell’aeroporto: “Grato per l’accoglienza ricevuta alla Basa aerea di Melsbroek, auspico che essa sia sempre a servizio della pace nel Belgio, in Europa e nel mondo intero”.

E prima del ritorno in Vaticano papa Francesco ha ricordato la Giornata del Migrante e del Rifugiato, sottolineando che il Belgio è terra di arrivo di tanti migranti: “Oggi si celebra la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato sul tema ‘Dio cammina con il suo popolo’.

Da questo Paese, il Belgio, che è stato ed è tuttora meta di tanti migranti, rinnovo all’Europa e alla Comunità internazionale il mio appello a considerare il fenomeno migratorio come una opportunità per crescere insieme nella fraternità, e invito tutti a vedere in ogni fratello e sorella migrante il volto di Gesù che si è fatto ospite e pellegrino in mezzo a noi”.

Inoltre ha invitato a pregare per le nazioni martoriate dalla guerra: “Continuo a seguire con dolore e con tanta preoccupazione l’allargamento e l’intensificazione del conflitto in Libano. Il Libano è un messaggio, ma in questo momento è un messaggio martoriato, e questa guerra ha effetti devastanti sulla popolazione: tante, troppe persone continuano a morire giorno dopo giorno in Medio Oriente.

Preghiamo per le vittime, per le loro famiglie, preghiamo per la pace. Chiedo a tutte le parti che si cessi immediatamente il fuoco in Libano, a Gaza, nel resto della Palestina, in Israele. Si rilascino gli ostaggi e si permetta l’aiuto umanitario. Non dimentichiamo la martoriata Ucraina”.

Infine ha sottolineato l’importanza della recita dell’Angelus: “Questa preghiera, molto popolare nelle passate generazioni, merita di essere riscoperta: è una sintesi del mistero cristiano, che la Chiesa ci insegna a inserire in mezzo alle occupazioni quotidiane. Ve la consegno, specialmente ai giovani, e vi affido tutti alla nostra Madre Santissima, che qui, accanto all’altare, è raffigurata come Sede della Sapienza. Sì, abbiamo bisogno della sapienza del Vangelo! Chiediamola spesso allo Spirito Santo”.

Nell’omelia della celebrazione eucaristica conclusiva del viaggio apostolico nello stadio ‘Re Baldovino’ papa Francesco ha parlato della libertà dello Spirito Santo: “Ce ne parlano la prima Lettura e il Vangelo, mostrandoci l’azione libera dello Spirito Santo che, nel racconto dell’esodo, riempie del suo dono di profezia non solo gli anziani andati con Mosè alla tenda del convegno, ma anche due uomini che erano rimasti nell’accampamento”.

Ed ha definito parole sagge quelle del libro dei Numeri: “Sono parole sapienti, che preludono a ciò che Gesù afferma nel Vangelo. Qui la scena si svolge a Cafarnao, e i discepoli vorrebbero a loro volta impedire ad un uomo di scacciare i demoni nel nome del Maestro, perché, affermano, ‘non ci seguiva’, cioè ‘non è nel nostro gruppo’…

Osserviamo bene queste due scene, quella di Mosè e quella di Gesù, perché riguardano anche noi e la nostra vita cristiana. Tutti infatti, con il Battesimo, abbiamo ricevuto una missione nella Chiesa. Ma si tratta di un dono, non di un titolo di vanto.., Egli continua a riporre in noi con amore di Padre, vedendo in noi quello che noi stessi non riusciamo a scorgere. Per questo ci chiama, ci invia e ci accompagna pazientemente giorno per giorno”.

E la libertà dello Spirito Santo avviene nella comunione, raccontata nella lettera dell’apostolo san Giacomo: “L’egoismo, come tutto ciò che impedisce la carità, è ‘scandaloso’ perché schiaccia i piccoli, umiliando la dignità delle persone e soffocando il grido dei poveri… Si crea un mondo in cui non c’è più spazio per chi è in difficoltà, né c’è misericordia per chi sbaglia, né compassione per chi soffre e non ce la fa. Non c’è”.

Ed ha rimarcato il dramma degli abusi sessuali nella Chiesa: “Pensiamo a quello che accade quando i piccoli sono scandalizzati, colpiti, abusati da coloro che dovrebbero averne cura, alle ferite di dolore e di impotenza anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nella comunità. Con la mente e con il cuore torno alle storie di alcuni di questi ‘piccoli’ che ho incontrato l’altro ieri. Li ho sentiti, ho sentito la loro sofferenza di abusati e lo ripeto qui: nella Chiesa c’è posto per tutti, tutti, tutti ma tutti saremo giudicati e non c’è posto per l’abuso, non c’è posto per la copertura dell’abuso”.

Quella del papa è stata una scelta precisa: “Chiedo a tutti: non coprite gli abusi! Chiedo ai vescovi: non coprite gli abusi! Condannare gli abusatori e aiutarli a guarire da questa malattia dell’abuso. Il male non si nasconde: il male va portato allo scoperto, che si sappia, come hanno fatto alcuni abusati e con coraggio. Che si sappia. E che sia giudicato l’abusatore. Che sia giudicato l’abusatore, sia laica, laico, prete o vescovo: che sia giudicato”.

E’ stato un chiaro invito alla scelta della misericordia: “Se vogliamo seminare per il futuro, anche a livello sociale ed economico, ci farà bene tornare a mettere alla base delle nostre scelte il Vangelo della misericordia. Gesù è la misericordia. Tutti noi, tutti, siamo stati misericordiati. Altrimenti, per quanto apparentemente imponenti, i monumenti della nostra opulenza saranno sempre colossi dai piedi di argilla. Non illudiamoci: senza amore niente dura, tutto svanisce, si sfalda, e ci lascia prigionieri di una vita sfuggente, vuota e senza senso, di un mondo inconsistente che, al di là delle facciate, ha perso ogni credibilità, perché? Perché ha scandalizzato i piccoli”.

Ed ha concluso l’omelia con la parola della testimonianza attraverso la vita di Anna di Gesù: “E così giungiamo alla terza parola: testimonianza. Possiamo prendere spunto, in proposito, dalla vita e dall’opera di Anna di Gesù, Anna de Lobera, nel giorno della sua Beatificazione. Questa donna è stata tra le protagoniste, nella Chiesa del suo tempo, di un grande movimento di riforma, sulle orme di una ‘gigante dello spirito’, Teresa d’Avila, di cui ha diffuso gli ideali in Spagna, in Francia e anche qui, a Bruxelles, e in quelli che allora erano chiamati Paesi Bassi Spagnoli”.

La vita povera è stata una sua scelta: “In un tempo segnato da scandali dolorosi, dentro e fuori la comunità cristiana, lei e le sue compagne, con la loro vita semplice e povera, fatta di preghiera, di lavoro e di carità, hanno saputo riportare alla fede tante persone, al punto che qualcuno ha definito la loro fondazione in questa città come una ‘calamita spirituale’.

Per scelta, non ha lasciato scritti. Si è impegnata invece a mettere in pratica ciò che a sua volta aveva imparato, e con il suo modo di vivere ha contribuito a risollevare la Chiesa in un momento di grande difficoltà”.

Infine, dopo aver visitato la tomba del re Baldovino, che rifiutò di firmare la legge sull’aborto nel 1990, annuncia che darà una nuova spinta alla causa di beatificazione del re, iniziata nel 1995, il papa ha invitato i vescovi belgi a portare a termine la causa di beatificazione: “Al mio rientro a Roma avvierò il processo di beatificazione di Re Baldovino. Che il suo esempio di uomo di fede illumini i governanti. Chiedo che i vescovi belgi si impegnino per portare avanti questa causa”.

(Foto: Santa Sede)

Papa Francesco chiede una Chiesa in ‘movimento’

“In questo crocevia che è il Belgio, voi siete una Chiesa ‘in movimento’. Infatti, da tempo state cercando di trasformare la presenza delle parrocchie sul territorio, di dare un forte impulso alla formazione dei laici; soprattutto vi adoperate per essere Comunità vicina alla gente, che accompagna le persone e testimonia con gesti di misericordia”: così papa Francesco ha iniziato l’incontro con religiosi, religiose, sacerdoti, vescovi e seminaristi nel santuario di Koekelberg, che è il quinto santuario più grande del mondo, Koekelberg, cuore pulsante della devozione popolare belga, dopo aver incontrato nella parrocchia di St. Giles, che produce anche una birra, dieci rifugiati e senza tetto che sono aiutati dalla parrocchia.

Al termine delle domande dei religiosi e religiose il papa si è soffermato su  tre parole (evangelizzazione, gioia, misericordia), di cui l’evangelizzazione è l’asse portante: “La prima strada da percorrere è l’evangelizzazione. I cambiamenti della nostra epoca e la crisi della fede che sperimentiamo in Occidente ci hanno spinto a ritornare all’essenziale, cioè al Vangelo, perché a tutti venga nuovamente annunciata la buona notizia che Gesù ha portato nel mondo, facendone risplendere tutta la bellezza”.

Però la crisi è necessaria: “La crisi (ogni crisi) è un tempo che ci è offerto per scuoterci, per interrogarci e per cambiare. E’ un’occasione preziosa (nel linguaggio biblico si dice kairòs, occasione speciale) come è successo ad Abramo, a Mosè e ai profeti. Quando sperimentiamo la desolazione, infatti, sempre dobbiamo chiederci quale messaggio il Signore ci vuole comunicare. E cosa ci fa vedere la crisi? Siamo passati da un cristianesimo sistemato in una cornice sociale ospitale a un cristianesimo ‘di minoranza’, o meglio, di testimonianza”.

E l’evangelizzazione conduce alla gioia: “Non parliamo qui delle gioie legate a qualcosa di momentaneo, né possiamo assecondare i modelli dell’evasione e del divertimento consumistico. Si tratta di una gioia più grande, che accompagna e sostiene la vita anche nei momenti oscuri o dolorosi, e questo è un dono che viene dall’alto, da Dio”.

La gioia, di cui ha parlato il papa, è quella del Vangelo, citando il card. Ratzinger: “E’ la gioia del cuore suscitata dal Vangelo: è sapere che lungo il cammino non siamo soli e che anche nelle situazioni di povertà, di peccato, di afflizione, Dio è vicino, si prende cura di noi e non permetterà alla morte di avere l’ultima parola. Dio è vicino, vicinanza… Ed allora vorrei dirvi: che il vostro predicare, il vostro celebrare, il vostro servire e fare apostolato lasci trasparire la gioia del cuore, perché questo suscita domande e attira anche coloro che sono lontani. La gioia del cuore: non quel sorriso finto, del momento, la gioia del cuore”.

Infine la misericordia: “Il Vangelo, accolto e condiviso, ricevuto e donato, ci conduce alla gioia perché ci fa scoprire che Dio è il Padre della misericordia, che si commuove per noi, che ci rialza dalle nostre cadute, che non ritira mai il suo amore per noi. Fissiamo questo nel cuore: mai Dio ritira il suo amore per noi”.

Però la misericordia non cancella la giustizia: “Tuttavia la giustizia di Dio è superiore: chi ha sbagliato è chiamato a riparare i suoi errori, ma per guarire nel cuore ha bisogno dell’amore misericordioso di Dio. Non dimenticatevi: Dio perdona tutto, Dio perdona sempre; è con la sua misericordia che Dio ci giustifica, cioè ci rende giusti, perché ci dona un cuore nuovo, una vita nuova”.

Per questo occorre la guarigione del cuore: “Gesù ci mostra che Dio non si tiene a distanza dalle nostre ferite e impurità. Egli sa che tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato. Nessuno è perduto per sempre. È giusto, allora, seguire tutti i percorsi della giustizia terrena e i percorsi umani, psicologici e penali; ma la pena deve essere una medicina, deve portare alla guarigione. Bisogna aiutare le persone a rialzarsi, a ritrovare la loro strada nella vita e nella società. Soltanto una volta nella vita di tutti ci è permesso guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla a rialzarsi. Solo così. Ricordiamoci: tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato, nessuno è perduto per sempre. Misericordia, sempre, sempre misericordia”.

Infine ha salutato i presenti raccontando un quadro di Magritte, ‘Atto di fede’: “E’ uno squarcio, che ci invita ad andare oltre, a volgere lo sguardo in avanti e in alto, a non chiuderci mai in noi stessi, mai in noi stessi. Questa è un’immagine che vi lascio, come simbolo di una Chiesa che non chiude mai le porte – per favore, non chiude mai le porte! –, che a tutti offre un’apertura sull’infinito, che sa guardare oltre. Questa è la Chiesa che evangelizza, vive la gioia del Vangelo, pratica la misericordia”.

(Foto: Santa Sede)

Mons. Delpini: la misericordia di Dio di fronte alla tragedia

Ieri nella chiesa di Santa Maria Nascente la comunità di Paderno Dugnano ha ‘salutato’ Fabio, Daniela e al figlio Lorenzo, le tre vittime della strage familiare dello scorso 1° settembre nei funerali presieduti dall’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, che ha affidato al Signore i tre familiari ‘strappati dai loro cari da una morte crudele’.

Nell’omelia l’arcivescovo ha guidato i fedeli a riflettere sulla tragedia, attraverso una serie di domande che immagina siano poste da Dio alle vittime: “Io mi immagino che accogliendo Lorenzo il Signore Dio gli abbia detto: perché sei qui, così giovane? Da dove vieni? Che cosa sono queste ferite? Che cosa è stato della tua vita?

Io mi immagino che Lorenzo abbia risposto: Sono qui, a causa di mio fratello, il mio fratello grande, il mio fratello intelligente. E’ stato lui che ha interrotto il mio incubo notturno, mentre avevo l’impressione di essere inseguito da un mostro e mi sarei svegliato, penso, come al solito spaventato e rassicurato di essere ancora vivo. Ma in quella notte non mi sono svegliato, a causa di mio fratello, il mio fratello grande, il mio fratello intelligente. E il Signore Dio ha chiesto a Lorenzo: Che cosa è stato della tua vita? Che cosa sarà della vita di tuo fratello, senza di te?”

In questo dialogo l’arcivescovo immagina anche la risposta di Lorenzo: “Io mi immagino che Lorenzo abbia risposto: Ecco, la mia vita è stata un inizio, la mia vita è stata un sogno. Forse qualcuno dirà che la mia vita è stata un niente. Ma invece io voglio essere un inno alla vita, io voglio vivere, vivere in eterno e voglio cantare alla vita, alla sua bellezza, alle sue promesse. Io voglio cantare la vita, anche per quelli della mia età che vivono tristi, arrabbiati, pessimisti.

Io voglio cantare la poesia della vita, degli amici, del diventare grande, del coltivare speranze. Mio fratello mi ha impedito di diventare grande e inseguire sogni, ma continuo a vivere in questa gloria della tua casa, Signore, e voglio cantare l’incanto dell’amore, lo stupore del pensiero, il coraggio della fatica.

Come farà senza di me Riccardo, il mio fratello grande, il mio fratello intelligente? Ecco io voglio stargli vicino sempre, io voglio consolare le sue lacrime, voglio calmare i suoi spaventi, voglio sperare con lui e per lui. Ecco, sono vivo e voglio cantare la vita, perché sono qui con te, Signore Dio!”.

Ugualmente con la madre: “E il Signore Dio ha chiesto a Daniela: Che cosa è stato della tua vita? E adesso che cosa sarà della vita del tuo Riccardo senza di te? E Daniela ha risposto: Signore Dio, che posso dire della mia vita? Ecco, posso dire del mistero, di quel buio impenetrabile in cui si accende una luce.

Posso dire del mistero, di quella gioia sovrabbondante e indicibile in cui si accende una vita; di quell’enigma impenetrabile che diventano talvolta le persone che amiamo; di quelle parole incomprensibili che sconcertano e zittiscono.

Posso dire del mistero: la mamma abita il mistero dell’amore, della vita, del generare e dell’accudire. La mamma abita il mistero e non sa come dire e non sa che cosa dire. La mamma abita il mistero ed è solo capace di amare.

Come farà senza di me Riccardo, il mio figlio grande? La mamma mette al mondo e lascia partire i figli per la loro strada, ma io continuerò ad abitare il mistero, voglio ostinarmi a seminare una scintilla di luce, anche nel buio più cupo, voglio stare vicino a Riccardo per continuare a rassicurarlo di fronte al mistero, infatti nel mistero abiti tu, Signore Dio, e io sono con te!”.

Poi l’immagine è corsa al padre: “Mi immagino che quando il Signore Dio ha accolto Fabio gli abbia detto: Come sei arrivato qui? Che cosa sono queste ferite? Mi immagino che Fabio abbia risposto: E’ stato Riccardo, il mio figlio grande, quasi un uomo ormai.

E’ stato Riccardo che mi ha teso un agguato nella notte dello spavento, e non ho potuto, non ho voluto difendermi, pur essendo forte non ho usato la forza, lo spettacolo era troppo assurdo, troppo sbagliato, troppo, troppo insanguinato. Ma poi subito la vista si è oscurata, l’assurdo è scomparso e sei apparso tu, Signore Dio”.

Il dialogo tra Dio ed uomo è serrato : “Ed il Signore Dio ha chiesto a Fabio: Che cosa è stata la tua vita? E ora che cosa sarà di Riccardo, il tuo figlio che diventa uomo, senza di te? E Fabio ha risposto: Riccardo, il mio figlio grande, quasi un uomo ormai, forse mi ha sentito come un peso, come un fastidio, come capita a tutti i figli che hanno momenti in cui sentono insopportabile il papà. Ma io ho parole da dire.

Ecco: il papà è uomo di parola, è uomo che ha parole da dire, è uomo che aiuta i figli a trovare le parole per dire di sé, della loro inquietudine e della loro speranza. Il mio Riccardo non ha ancora imparato a esprimere in parole quello che dentro l’animo si agita, si aggroviglia, si raggela. Voglio stare vicino a Riccardo e aiutarlo a dire le parole giuste, a dare il nome giusto alla vita, anche al dolore, anche alla rabbia. La parola è già una medicina.

Il papà, se ascolta la sua esperienza e ascolta la voce del Signore, sa la parola giusta, sa il discorso rassicurante, sa la parola che incoraggia, che corregge, che rimprovera, che perdona. Ecco: sono vivo presso di te, Signore, per avere una parola da dire al mio Riccardo, il mio figlio grande. Forse mi ascolterà, forse diventerà anche lui un uomo che conosce la parola della verità e la via della vita!”.

L’arcivescovo ha terminato l’omelia con l’affidamento di tutta la famiglia alla misericordia di Dio: “Ecco: di fronte all’incomprensibile tragedia la parola del Signore ci aiuta a decifrare l’enigma e a raccogliere da Lorenzo, Daniela, Fabio il cantico della vita e della speranza giovane di un fratello, l’intensità dell’amore misterioso di una mamma e la responsabilità della parola vera di un papà”.

Mons. Delpini si è accomiatato dai fedeli con un’ultima considerazione: “Desidero invocare la benedizione che sia di consolazione, e desidero esprimere la persuasione che noi abbiamo bisogno di silenzio, e di preghiera”.

Mentre nei giorni successivi a tale tragedia i membri del Consiglio Pastorale ‘San Giovanni Paolo II’ di Paderno Dugnano avevano invitato a non cedere alla rabbia od all’indifferenza: “Ci sentiamo di dire che non può prevalere la rabbia, il giudizio temerario come neppure l’indifferenza o la rassegnazione. La disperazione, il pessimismo e la sfiducia non possono caratterizzare il nostro tempo e neppure il ‘giudizio’ sulle giovani generazioni.

Molti di loro chiedono ascolto, fiducia, affetto e sguardo positivo sulle loro attese, dialogo e attenzione sinceri sui loro progetti e sulle fragilità, spesso velate, inesplorate e inespresse. Seppure non sempre capaci di dare risposte o spiegazioni ci sentiamo di dire che uno sguardo di speranza deve caratterizzare questi nostri giorni”.

(Foto: arcidiocesi di Milano)

‘Effatà, apriti’: Gesù e il sordomuto

L’episodio  del Vangelo è assai semplice e pregno di insegnamenti. Riporta la guarigione operata da Gesù in favore di un sordomuto. Davanti alla sofferenza che affligge l’uomo, Gesù si commuove e rivela la sua grande misericordia. Alcune persone avevano condotto davanti a Gesù un sordomuto pregandolo di imporle le mani e guarirlo. Gesù lo prende in disparte, lontano dalla folla, gli tocca con un dito la bocca e gli orecchi e dice: ‘Effatà, cioè apriti’ e subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della lingua e sentiva e parlava correttamente.

La buona Notizia che Gesù evidenzia e rivela alla folla è la sua divinità. Egli è uomo ed anche Dio, reso visibile agli occhi di tutti.  Come aveva predetto il profeta Isaia, Egli a ragione dice “agli smarriti di cuore: coraggio, non temete; ecco il vostro Dio”. Un miracolo che ha lo sfondo catechistico e battesimale. Gesù restituisce  a quell’uomo il dono di sentire e parlare, la sua vera dignità di persona umana. 

Gesù premia la fede di chi è ricorso a Lui; Egli non è un guaritore che si aggira tra la folla per farsi pubblicità, ma è Dio  che si aggira tra la folla con un programma di azione ben preciso: aprire le porte del regno dei cieli. Così un giorno davanti ad un paralitico, relegato da venti anni in un letto, dirà: ‘amico, ti sono rimessi i peccati’. Gli Scribi e i Farisei presenti alle parole di Gesù erano rimasti trasecolati  perchè solo Dio può rimettere i peccati.

Gesù leggendo i loro pensieri interviene dicendo: cosa è più facile dire al paralitico: ‘Ti sono rimessi i peccati? oppure alzati, prendi il tuo lettuccio e vai a casa?’ Due cose che solo Dio può fare e che evidenziano la sua potenza divina. Gesù conclude dicendo al paralitico: ‘Alzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua’. In forza del nostro Battesimo anche noi ci siamo innestati a Cristo e preghiamo  Dio dicendo: ‘Padre nostro, che sei nei cieli’. Gesù ancora oggi ripete a noi. ‘Effata!’: aprite gli orecchi per ascoltare la parola di Dio, la Verità di Dio che vi fa liberi e vi restituisce l’abito bianco, l’abito della purezza. 

E’ necessario però avere fede, una Fede viva in Dio come quella di Abramo o come quella di Maria che disse il suo ‘sì’ all’Angelo e il Verbo si fece carne.. Il Battesimo apre la via alla comunione con Cristo Gesù che conferisce la vita, la vera vita; il Battesimo è infetti quel dono mirabile di Dio, che deve essere accolto e vissuto; il dono dell’amicizia che implica da parte nostra un ‘sì’ alla vita ed un ‘no’ a quanto non è compatibile con l’amicizia con Dio. 

Il nostro ‘no’ deve essere articolato con la rinuncia a satana e l’adesione a Cristo Salvatore, morto e risorto e sempre presente nella Eucaristia sotto l’apparenza del pane e del vino.  Un Dio sempre presente nella nostra vita che segna la strada da percorrere e conferisce gli aiuti necessari per vivere la comunione con Dio e i fratelli. 

Un ‘sì’ che si esprime concretamente con l’osservanza dei comandamenti. ‘Effata’, cioè apriti, e sii uomo, abbandona l’uomo vecchio; inizia il tuo nuovo cammino nella Fede e nell’Amore. La Vergine Maria, sempre aperta all’ascolto della parola di Dio, ci aiuti ogni giorno ad ascoltare suo Figlio nel Vangelo e a camminare sulla giusta strada.

L’Aquila: la Perdonanza è testimonianza di vita

Giovedì 29 agosto, presieduta da mons. Antonio D’Angelo, arcivescovo metropolita de L’Aquila, si è chiusa la Porta Santa di Santa Maria di Collemaggio, nella 730^ Perdonanza Celestiniana, con l’attribuzione all’arcivescovo emerito, card. Giuseppe Petrocchi, del premio del Perdono 2024, che ha ringraziato l’amministrazione comunale del capoluogo abruzzese: “Un impegno comune per promuovere, sempre e dovunque, la spiritualità e la cultura della riconciliazione e della pace. È un obbligo morale che discende dal fatto che siamo ‘stirpe’ di Celestino V, perciò ‘eredi’ della grazia di custodire e diffondere, a livello planetario, l’evento della Perdonanza, di cui questo Uomo di Dio è stato un geniale e provvidenziale profeta”.

Chiudendo la Porta Santa della Perdonanza mons. D’Angelo ha riflettuto sull’importanza della Misericordia con lo sguardo già proiettato verso il prossimo Giubileo, prendendo spunto dal Vangelo del racconto del martirio di san Giovanni Battista: “Il brano del Vangelo ci presenta l’episodio del martirio di san Giovanni Battista. E’ significativa l’espressione di san Giovanni: ‘Non ti è lecito’. Questa espressione richiama alla giustizia, alla verità della vita e delle scelte che si devono fare. Non si può fare come si vuole, c’è un codice interiore che regolamenta la vita”.

San Giovanni Battista mostra l’ambiguità del potere, che deve essere ‘vinta’ attraverso un percorso di riconciliazione: “La celebrazione della Perdonanza che si ripete ogni anno, deve aiutarci proprio in questo, vincere la nostra ambiguità, rafforzare le scelte e i valori che portiamo dentro. L’incontro con la Misericordia rigenera e genera la coscienza di ogni persona, accogliendo l’invito di san Paolo ai Corinzi: ‘lasciatevi riconciliare con Dio’. Riconciliare è proprio mettere insieme, ricomporre o comporre una nuova realtà, perché si costruisca una vera sintonia tra le diverse dimensioni della persona umana e la vita relazionale”.

Il brano del Vangelo rimanda a san Celestino V: “San Celestino V ci dona questa testimonianza di equilibrio, di sintonia. Ciò lo possiamo cogliere dalla sua capacità di interpretare bene i vari momenti della vita, non senza difficoltà, ma sotto la luce di Dio, attingendo proprio dalla sua ricchezza interiore maturata nel tempo mediante l’ascolto della Parola e l’esperienza della Misericordia”.

La coerenza ai valori rende la persona ‘nobile’: “Bisogna sottolineare che la coerenza più difficile riguarda i valori che segnano la vita personale, quei valori che rendono nobile la persona. Essere veri e leali con se stessi è il principio attorno al quale ruota la grandezza di un uomo, dinamiche non immediatamente visibili agli altri. La vera nobiltà dell’uomo risiede nella sua intimità più profonda, sacrario nel quale si origina ogni sua scelta. Proprio in questo sacrario si costruisce la sua statura, luogo dove avviene l’incontro con la Misericordia, il perdono di Dio che tocca le corde più profonde della sua esistenza, non solo per guarire ma per generare il vero volto dell’essere umano”.

L’esempio è dato da san Giovanni Battista e da san Celestino V: “Uomini che hanno saputo tenere la loro posizione nei momenti cruciali della loro vita rimanendo fedeli a se stessi. Se oggi siamo qui a venerarli, a raccogliere la loro eredità umana e cristiana, non è per un semplice cerimoniale ma, per fede, crediamo che quanto da loro donatoci è vero anche per noi”.

E’ stato un invito a lasciarsi riconciliare con Dio, come ha scritto san Paolo: “Lasciamo che l’Amore di Dio tocchi la nostra vita per scoprire, consolidare e sperimentare in pieno la bellezza della vita che ci è stata donata. L’esistenza ci è stata donata, quindi lasciamoci accompagnare da Colui che ci ha fatto questo dono, nello spirito di umiltà e obbedienza”.

L’omelia è stata chiusa con uno sguardo al prossimo Giubileo: “Siamo prossimi all’inizio del Giubileo, ci stiamo preparando celebrando ‘l’Anno della Preghiera e del Perdono’, due coordinate fondamentali per il cammino della vita. La fede non è un optional nel corso dell’esistenza ma fuoco che illumina gli eventi della vita per fa entrare nell’eternità, non come tempo, ma come pienezza di vita in comunione con Dio…

Non lasciamoci rubare la vita da lucciole che non hanno consistenza, ma lasciamoci illuminare dal sole di Cristo, ‘via, verità e vita’. Sia il Vangelo della Misericordia a sostenere i passi della nostra vita per aprirci alla Speranza di una vita nuova”.

Ed aprendo la Porta Santa nella basilica di Collemaggio l’arcivescovo emerito, card. Giuseppe Petrocchi, ha ‘focalizzato’ l’omelia su san Celestino V: “Celestino, uomo coraggioso e profetico, è maestro e guida sulle vie della Parola e della Comunione, ecclesiale e sociale. Per ‘celestinizzare’ il nostro stile di vivere la Perdonanza occorre anzitutto assumere un autentico atteggiamento ‘penitenziale’.

Bisogna, perciò, entrare attraverso la ‘Porta Santa’ in compagnia della virtù dell’Umiltà, che rende capaci di “dirsi” e “sentirsi dire” la verità nell’amore. Questa lealtà, dai lineamenti biblici, mette allo scoperto le nostre negatività: illumina le zone d’ombra e le rende visibili. Ciò ci consente di ‘ispezionare’, con sapienza evangelica, i ‘tunnel’ dell’anima in cui sono occultati pensieri, sentimenti e comportamenti macchiati dal peccato, per poi avviare un processo di ‘purificazione’ della memoria”.

E dal perdono deriva la pace: “La Perdonanza è madre feconda e la sua figlia prediletta è la Pace: con se stessi e con gli altri. Discorso che ci interessa molto come credenti e abitanti di questa epoca storica: ma viene avvertito con vibrante intensità in questi giorni attraversati da drammatici ed impetuosi venti di guerra… Perdono, Giustizia e Pace, dunque, sono un trinomio inscindibile per edificare un mondo secondo Dio e, proprio per questo, degno dell’uomo”.

(Foto: arcidiocesi de L’Aquila)

Un’intera famiglia santa? La storia degli Ulma

Siamo nella Polonia della Seconda Guerra Mondiale, i nazisti stanno cercando gli ebrei in ogni angolo per sterminarli, in nome di un’ideologia folle, quella di Hitler, che predica la “pulizia razziale”. Mentre i gendarmi tedeschi seminano morte, tra molte persone semplici sopravvive, anzi, fiorisce ancora di più, la solidarietà. Una delle famiglie che rischierà e perderà la vita per salvare degli amici e vicini di casa ebrei, sarà la famiglia Ulma.

I coniugi Ulma, Joseph e Viktoria, avevano fatto del Vangelo il loro programma di vita e lo incarnavano in tutto ciò che facevano: nella cura della casa, nella crescita dei figli (sei, con il settimo in arrivo), nei rapporti con gli altri, nella solidarietà con chi aveva bisogno, nella fiducia verso la Provvidenza. E’ quando si vive da santi, che si può anche morire da santi.

Nel loro caso, la morte – tutta la famiglia è stata uccisa a colpi di fucile – è stata conseguenza di una scelta altruistica e coraggiosa: ospitare otto ebrei, cui sarebbe capitata in sorte, altrimenti, una morte sicura. Potrebbe sembrare una storia senza lieto fine, umanamente parlando, infatti, non c’è. Anche guardando agli Ulma, però, Gesù ci chiede di avere fiducia nella potenza della Resurrezione. Se si muore in Cristo, quella morte non è eterna: diviene solo un passaggio.

Nel dicembre del 2022 Papa Francesco ha proclamato beata tutta la famiglia, dal primo all’ultimo membro, compreso il piccolo non ancora nato. Questa famiglia, uccisa da un odio insensato, demoniaco, ci viene presentata dalla Chiesa viva, oggi, per sempre. Ci viene offerta e donata come esempio di carità e misericordia.

La Casa Editrice Mimep Docete mi propose, l’anno scorso, di scrivere un libro su di loro. Decisi di accettare (ed infatti il libro è uscito da poco) non solo per parlare del gesto eroico (accettare la morte per aiutare persone in difficoltà). Mi colpì, anzitutto, che quella famiglia era una piccola chiesa domestica.

Mi colpì il modo in cui la preghiera scandiva le loro giornate. Mi colpirono questa mamma, questo papà, capaci di stare in ginocchio davanti a Dio e di insegnarlo ai loro figli. Mi colpì la gratuità con cui Joseph aiutava i suoi vicini di casa, mettendo le sue doti al servizio degli altri senza chiedere nulla in cambio, sebbene vivessero in condizioni modeste. Mi colpì la generosità di Viktoria, la sua limpidezza, la capacità di aprire le porte di casa.

E questi esempi sono validi anche per noi oggi. Perciò, ho pensato di impostare il libro non solo come una biografia, bensì come un percorso a tappe, che offrisse spunti alle famiglie di oggi. Ogni capitolo ha lo scopo di far pensare il lettore su una qualità della famiglia cristiana: dalla fiducia in Dio, all’accoglienza degli altri; dalla cura dei figli, alla serietà nel lavoro.

Ecco cosa trovate in ‘Un angolo di Cielo in famiglia: i coniugi Ulma, modello di carità’ (Mimep Docete, 2024): un piccolo ‘manuale di manutenzione’ della famiglia cristiana, a partire non da mera teoria, ma dall’esempio di una famiglia reale, viva in Cielo, che ha posto le sue radici in Cristo.

Papa Francesco invita i palermitani ad affidarsi a santa Rosalia

“La felice ricorrenza del IV Centenario del ritrovamento del corpo di Santa Rosalia è una speciale occasione per unirmi spiritualmente a Voi cari figli e figlie della Chiesa palermitana, che desidera elevare al Padre celeste, fonte di ogni grazia, la lode per il dono di così sublime figura di donna e di ‘apostola’, che non ha esitato ad accogliere le prove della solitudine per amore del suo Signore. Il mio deferente pensiero va a Te caro fratello Corrado, alle Autorità civili e militari, come pure saluto con affetto i sacerdoti, le religiose ed i religiosi, gli appartenenti alle tante Confraternite, ai movimenti laicali, e quanti nel corso di questo Anno giubilare hanno aderito nella preghiera apprendendo da Santa Rosalia la passione per i poveri e la fedeltà alla Buona Notizia”.

Così inizia il messaggio inviato da papa Francesco a mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, in occasione del IV centenario del ritrovamento delle spoglie della loro patrona, santa Rosalia, in programma fino al 15 luglio, in occasione dell’imminente conclusione dell’Anno Giubilare Rosaliano.

Nel messaggio papa Francesco ha ripreso il motivo della santa palermitana, ‘Per amore Domini mei’, come scelta controcorrente: “La vita del cristiano, sia ai tempi in cui visse la nostra Vergine eremita sia ai giorni nostri, è costantemente segnata dalla croce; i cristiani sono coloro che amano sempre, ma spesso in circostanze in cui l’amore non è compreso o è addirittura rifiutato.

Ancora oggi si tratta di una scelta controcorrente, poiché chi segue Cristo è chiamato a far sua la logica del Vangelo che è speranza, che decide nel suo cuore di fare spazio all’amore per donarlo agli altri, per sacrificarlo a favore del fratello, per condividerlo con quanti non lo hanno sperimentato a causa delle ‘pesti’ che affliggono l’umanità”.

Ed i palermitani sono gli ‘eredi’ spirituali della santa palermitana: “Come Lei date un volto bello al vostro territorio, ricco di cultura, storia e fede profonda, dove grandi donne e uomini hanno trovato la forza per spendersi a motivo del Vangelo e della giustizia sociale. Alla scuola di Santa Rosalia, rinunciando a ciò che è superfluo, non esitate ad offrirVi con generosità agli altri”.

Quindi è un invito ad affrontare le sfide per consentire la rinascita di Palermo: “Abbiate fortezza di spirito nell’affrontare le sfide che tuttora ostacolano la rinascita di codesta Città, il cui cammino è affaticato da tante problematiche e, di queste, alcune molto dolorose. Con coraggio guardate a Colui che è Misericordia, ai cui occhi non sono invisibili le sofferenze del Suo popolo poiché ‘perfino i capelli del vostro capo sono contati’; Egli conosce le nostre pene ed è pronto a versare il balsamo della consolazione che risana e dona rinnovato slancio”.

E’ un invito a rivolgersi a santa Rosalia per trovare il coraggio della testimonianza: “Con Rosalia, donna di speranza, Vi esorto dunque: Chiesa di Palermo alzati! Sii faro di nuova speranza, sii Comunità viva che rigenerata dal sangue dei Martiri dia testimonianza vera e luminosa di Cristo nostro Salvatore. Popolo di Dio in questo lembo di terra benedetto, non perdere la speranza e non cedere allo sconforto. Riscopri la gioia dello stupore di fronte alla carezza di un Padre che ti chiama a sé e ti conduce sulle strade della vita per assaporare i frutti della concordia e della pace”.

Infine ha auspicato che tale anno giubilare sia stato occasione di una rinascita spirituale: “Auspico che questo Anno Giubilare Rosaliano, che volge a conclusione, abbia favorito soprattutto una rifioritura spirituale inserita nel percorso avviato dalla vostra Comunità ecclesiale; pertanto, invito a porVi con docilità all’ascolto dello Spirito Santo affinché possiate realizzare una copiosa stagione pastorale, pronti a spandere il profumo dell’accoglienza e della misericordia.

Consegnate alla vostra Santa Patrona desideri e aspirazioni che portate nel cuore; chiedete a Lei, donna del silenzio orante, di dissipare le paure e di vincere le rassegnazioni che soffocano le radici del bene, per essere audaci discepoli del Maestro e costruttori di speranza”.

 In mattinata mons. Corrado Lorefice, presentando il ‘Quattrocentesimo Festino di Santa Rosalia’ dal titolo ‘Rosalia pellegrina di speranza, Palermo rifiorisce con te’, ha sottolineato che ella liberò la città dalla peste: “Questo 400° Festino in onore di Santa Rosalia segnerà la storia di questa città. Rosalia passò per le vie di Palermo facendo del bene e guarendo. La Patrona contribuì a sconfiggere la peste. A noi viene oggi fatta una sfida: mettere insieme diritti e responsabilità perché non si può vivere in una Babele dove non ci si capisce. Rosalia è la speranza di una città ferita dalla violenza, dalla diffusione della droga, dalla disoccupazione, dalle degradate periferie urbane e spirituali, da un centro storico che rischia di essere un grande pub. Ma non basta la convivialità gastronomica, si deve offrire anche la convivialità spirituale”.

Con un richiamo alla lettera del papa l’arcivescovo di Palermo ha invitato i cittadini ad assumersi la responsabilità della partecipazione: “E’ una festa, che non ci aliena ma ci fa camminare su queste strade, come Rosalia, eremita, donna, che guarda alla città da Monte Pellegrino con lo sguardo di Dio, pieno di compassione, che fa proprie le sofferenze e i destini degli uomini. Non è commiserazione, ma una sfida: partecipare dei pesi e delle attese degli altri. Da lei viene la speranza che viene a noi quando siamo capaci di assunzione di responsabilità per dare un volto bello alla città come suoi concittadini ed eredi spirituali”.

(Foto: Arcidiocesi di Palermo)

Sergio Paronetto: dal papa esperienze di riconciliazione

Di fronte a 12.500 persone, il dialogo del Papa con rappresentanti di società civile, movimenti e associazioni impegnati in percorsi di costruzione della pace: l’individualismo è la radice delle dittature, guardare con realismo ai conflitti per disinnescarli: una pace che va promossa, preparata, curata, sperimentata e organizzata. Di questo è convinta la rete di persone, dialogo a conclusione di un percorso, aperto a tutti, realizzato per la costruzione della pace, della giustizia e della cura della casa comune.

Il culmine dell’incontro è stato l’abbraccio di papa Francesco con l’israeliano Maoz Inon, a cui sono stati uccisi i genitori nell’attacco terroristico del 7 ottobre, e con il palestinese Aziz Sarah, a cui il conflitto ha strappato il fratello con l’invito a raccogliersi in silenzio: “Ambedue hanno perso i familiari, la famiglia si è rotta. A che serve la guerra? Per favore facciamo un piccolo spazio di silenzio. Non si può parlare troppo di questo. Ognuno preghi e faccia una riflessione interiore di fare qualcosa per finire con le guerre. In silenzio, un attimo. Pensiamo ai bambini in questa guerra e in tante guerre. Quale futuro avranno. Mi vengono in mente i bambini ucraini che vengono a Roma”.

Ed il centro del dialogo è stato il pensiero cattolico del teologo Romano Guardini, che si oppose al nazismo: “Oggi il Vescovo mi ha fatto vedere l’atto di nascita di un grande, Romano Guardini, che è nato qui a Verona. Lui diceva che sempre i conflitti si risolvono su un piano superiore, perché così i conflitti si trasformano in lievito di nuova cultura, di nuove cose per andare avanti. L’uniformità è un vicolo cieco: invece di andare avanti si va sotto; l’uniformità non serve, serve l’unità, e per raggiungere l’unità bisogna lavorare con i conflitti”.

Papa Francesco ha citato Romano Guardini, con l’invito a risolvere i conflitti su un piano superiore per trasformarli in lievito di nuova cultura: al presidente del Centro Studi di Pax Christi e partecipante al movimento ‘Beati i costruttori di pace’, Sergio Paronetto, chiediamo di spiegare in quale modo vivere con i conflitti: “Durante l’evento ‘Giustizia e pace si baceranno’ (Sal 85) dello scorso 18 maggio in Arena a Verona, papa Francesco, richiamandosi all’esortazione apostolica ‘Evangelii gaudium’ (226-230) ed all’enciclica ‘Fratelli tutti’ (244-245), osserva che ‘il primo passo da fare per vivere in modo sano tensioni e conflitti è riconoscere che fanno parte della nostra vita, sono fisiologici, quando non travalicano la soglia della violenza.

Quindi non averne paura… Ed il dialogo ci aiuta a risolvere i conflitti, sempre’. Dicendo questo, il papa ha in mente tante esperienze di riconciliazione, commissioni di ‘giustizia riparativa’ o ‘scuole di perdono’ diffuse in varie parti del mondo, comprese le zone ad alta conflittualità come Israele e Palestina, l’Africa e il Sud America (e anche in Italia)”.

Per quale motivo papa Francesco invoca sempre la pace?

“La invoca, ma, soprattutto, la testimonia, la promuove, la organizza. Prega e fa pregare per lei. Per lui costituisce la questione fondamentale dell’umanità, l’unico grande messaggio del Vangelo, anzi Gesù stesso ‘nostra pace’ (Ef), il cuore delle religioni, la sostanza di un nuovo umanesimo”.

Lei ha scritto un libro intitolato ‘Papa Francesco, l’uomo più pericoloso al mondo’: per quale motivo?

“Perché è un autentico rivoluzionario e chiede un cambio di rotta ai responsabili dell’economia e della politica. Perché è scomodo per i signori della guerra, per i predatori della finanza speculativa, per i negazionisti climatici, per nazionalisti e imperialisti. Lo definiscono pericoloso non solo i restaurazionisti o reazionari che guardano al passato ma anche i cosiddetti progressisti diventati devoti al dio del denaro e della guerra. Sono diffusi negli Stati Uniti, in Sud America, in Russia, in Europa e hanno tanti soldi con cui finanziano campagne denigratorie contro di lui. In ‘Arena’, sabato 18 maggio, gli ho detto che gli siamo grati per il suo coraggio, che siamo con lui, che vogliamo aiutarlo, che gli vogliamo bene”.

L’abbraccio del papa con un israeliano ed un palestinese è stato un segno evidente: in cosa consiste la ‘geopolitica’ della misericordia del papa?

“Ne ha parlato molto nel 2015, anno della misericordia. La misericordia è la profezia di un mondo nuovo. Cerca un nuovo ordine internazionale basato sul rispetto della dignità della persona e sui pilastri della pace, indicati dall’enciclica ‘Pacem in terris’ (verità, giustizia, libertà, amore). Misericordia è uno dei nomi della nonviolenza attiva. Assieme alla compassione e alla tenerezza, per lui costituisce anzi lo stile di Dio”.

Il primo incontro del 1986 dell’Arena di Pace verteva sull’educazione di pace: dopo 38 anni quanto è necessario educare alla pace?

“E’ decisivo. Tante sono le responsabilità delle violenze  ma la responsabilità educativa coinvolge tutti e tutte. La pace è un bene da cercare, studiare, preparare, diffondere. Un cammino pedagogico verso la nonviolenza deve cominciare tra le mura di casa e di scuola. E’ fondamentale risvegliare la passione educativa e coltivare l’intelligenza emotiva, cioè la capacità di prefigurare un’altra storia possibile. La scuola può organizzare la formazione alla nonviolenza facendo conoscere esperienze di gestione dei conflitti e pratiche di riconciliazione”.

‘In piedi tutti, costruttori di pace!’, ha invitato papa Francesco concludendo l’incontro: come rendere ancora vitale questo invito di mons. Bello?

“In tre modi. In primo luogo, cercando di conoscere bene l’opera di don Tonino, leggendolo in gruppi operativi. In secondo luogo, seguendo il magistero di papa Francesco che è l’erede del suo pensiero cui attinge moltissimo (ho detto, anzi, che Francesco è don Tonino diventato papa). In terzo luogo mettendosi in rete. Sono tante le iniziative in cantiere, comprese quelle indicate nei documenti dei cinque tavoli di Arena (democrazia, economia, ecologia, migrazioni, disarmo) e nel documento finale”.

Sant’Antonio protettore dei deboli

In continuità iconografica con lo scorso anno, ed al tempo stesso calata nell’attualità, l’immagine scelta per la manifestazione antoniana di quest’anno, giunta alla sua 18^ edizione, è ancora un affresco di Pietro Annigoni custodito nella ‘Cappella delle Benedizioni al Santo’, sulla parete di destra: ‘Sant’Antonio affronta il tiranno Ezzelino da Romano’.

L’opera, che guarda l’affresco ‘Sant’Antonio che predica ai pesci’, utilizzata lo scorso anno, raffigura l’incontro con Ezzelino da Romano, che si racconta essere accaduto poche settimane prima della morte del santo, secondo l’agiografia nel palazzo del tiranno a Verona nel maggio del 1231. Sebbene indebolito nel fisico e stremato nelle forze, sant’Antonio si recò a perorare la liberazione del conte Rizzieri di san Bonifacio e di altri nobili padovani catturati in battaglia durante un agguato, animato da umana solidarietà e con un’audacia quasi temeraria. Le sue parole però non sortirono effetto e fu cacciato dal despota.

Quindi il significato di questo episodio è il fil rouge della rassegna di quest’anno che guarda all’attualità: ‘Antonio difensore dei più deboli’, siano essi vittime del terrorismo o di guerre; donne maltrattate, violate o uccise dagli uomini; persone disabili o persone alla ricerca di giustizia e capaci di perdono, come ha raccontato padre Antonio Ramina, rettore della basilica di sant’Antonio da Padova:

“Molto probabilmente sant’Antonio ha capito ben presto che per cercare e incontrare Dio occorre chinarsi sui più deboli e sui più indifesi. I grandi uomini di fede lo capiscono subito: cercare Dio è impossibile se si escludono dai propri orizzonti le persone povere e indifese. Perché Dio ha cura di loro. La sua non è una scelta solo di carattere ‘sociale’, ma una scelta umana e di fede, allo stesso tempo. Gesù nel suo Vangelo ha ‘raccontato’ a tutti il volto misericordioso del Padre. Ed i primi a capirlo sono sempre stati i poveri. In questo Antonio ha cercato di seguire lo stesso stile di Gesù”.

Sant’Antonio dove trova la forza per affrontare il tiranno Ezzelino da Romano?

“Sant’Antonio trova questa forza semplicemente in se stesso, si potrebbe dire; nel senso che in se stesso ha sempre coltivato una grande amicizia e profondità con il Signore. Quando la fede diventa la ‘bussola’ e il senso della vita, allora emergono anche energie e coraggio inaspettati. Non si è più troppo preoccupati di se stessi, di perdere qualcosa; ci si sente al sicuro nelle mani di Dio, nel suo cuore. Ed allora anche le sfide che sembrano insormontabili diventano meno paurose. Sant’Antonio affronta il tiranno sapendo di non essere solo, di agire ‘per conto’ di Dio. Forse aveva anche fiducia che quel tiranno, in fondo, si sarebbe sentito toccato, mosso a cambiare. Sempre così: fede in Dio, fede nell’umano. Un unico anello”.

In quale modo sant’Antonio era uomo di riconciliazione?

Sono tanti i modi con cui sant’Antonio ha manifestato il suo essere ‘uomo di riconciliazione’. Predicando ha toccato il cuore di molti. Le divisioni all’interno delle famiglie trovavano via di uscita e si ristabiliva nuova comunione. Anche città tra loro in lotta, a volte, ispirate dalla parola forte di Antonio intuivano che la strada migliore sarebbe stata quella di coltivare ponti, legami. Ma Antonio è stato uomo di riconciliazione anche nei confronti dei peccatori che accoglieva e ascoltava. Intuiva nel loro cuore e nel loro pentimento il desiderio di poter ripartire, riconciliati con Dio, rappacificati nell’animo. E il suo stile di uomo forte sapeva da un lato condannare con forza il peccato e la sopraffazione; dall’altro accogliere tutti ed essere mediatore del perdono di Dio”.

Allora, è ancora possibile annunciare la liberazione?

“Sempre è possibile annunciare la liberazione. Credo che nella misura in cui ciascuno, nella propria vita ordinaria, si contrappone alle ingiustizie, agli inganni, alle bramosie di successo a scapito di altri, si sta annunciando liberazione. Non solo con le parole, ma soprattutto con la concretezza del proprio comportamento. A volte è importante anche esprimersi, a parole, contro ogni forma di schiavitù: le ingiustizie dello sfruttamento nel lavoro; le ingiustizie della violenza contro le donne; le ingiustizie contro i migranti. Sono solo alcuni esempi. Forse ci tornerebbe più comodo stare zitti, non interrogarci. E invece è importante riflettere, parlarne, capire, per poter denunciare tante forme di schiavitù e collaborare a creare una ‘forma mentis et cordis’ (‘forma della mente e del cuore’, ndr.) di persone libere e rispettose”.

Per quale motivo è importante essere ‘custode’?

“Di solito si custodisce ciò che è prezioso e ciò che è fragile. Se una cosa non è preziosa, non la si custodisce. Se una cosa non è fragile, non ha bisogno di custodia. La vita umana, la dignità delle persone, la qualità bella delle nostre relazioni: sono tra alcuni esempi, i  più alti, di ciò che è immensamente prezioso e decisamente fragile. Tutto questo va custodito. E la prima forma di ‘nemico’ da combattere, per essere custodi della vita degli altri, dei nostri fratelli e sorelle, è il nemico della indifferenza. L’indifferenza ci farebbe andare diritti per le nostre strade, ci porterebbe a non scomodarci.

La persona che sa custodire, è innanzitutto una persona che di fronte agli altri sta ‘sentendosi in debito’, sentendo cioè che l’altro si aspetta sempre qualcosa di buono da lei. Noi siamo custodi degli altri se allontaniamo l’indifferenza e la paura, se apriamo occhi e cuore alle vite degli altri, se non giudichiamo secondo i nostri pregiudizi e se sappiamo accogliere gli altri facendoli ‘respirare’ meglio”.

Sull’esempio di sant’Antonio in quale modo i frati minori conventuali lavorano per la pace?

“Come frati minori conventuali cerchiamo di fare nostro lo stile di Antonio: Vangelo e carità. La pace si costruisce così: cercando nel Vangelo la ragione per cui vivere, vale a dire l’amore di Dio riversato su tutti gratuitamente. E avendo scoperto il vangelo come fonte di vita, si capisce che tale tesoro così grande non può essere trattenuto, ma va condiviso. Ed allora si aprono tante iniziative di carità, che nel nome di sant’Antonio sono davvero tante sparse in tutto il mondo. Non sono solo i frati conventuali a fare questo.

I frati sono solo delle mediazioni, ma la vera ricchezza è quella di tantissime persone che, pour non essendo ricche, scelgono di donare qualcosa per i poveri, per i bisognosi. E’ davvero fonte di meraviglia continua poter constatare che ci sono tantissime persone generose sparse in tutto il mondo disposte a privarsi di qualcosa per curare e soccorrere chi è meno fortunato. Noi frati conventuali abbiamo molto da imparare da tantissime persone buone e generose; e molto da ringraziare!”

(Tratto da Aci Stampa)

X Domenica Tempo Ordinario: i veri familiari di Gesù

Terminato il tempo della Pasqua, nella Liturgia si riprende il tempo ordinario, che nell’insieme dura sino alla 34^ domenica.  Il brano del Vangelo oggi ci presenta Gesù costretto ad affrontare due tipi di incomprensione: quella degli avversari e l’altra dei suoi familiari. Gli avversari (scribi e farisei) accusano Gesù di cacciare i demoni e guarire gli ammalati in nome di Beelzebul, principe dei demoni. Dicono: Gesù è indemoniato e un demonio  caccia l’altro. Gesù non si lascia intimidire: sappiamo infatti che Satana ha dominato sempre nella storia dell’uomo; questo essere creato da Dio a sua immagine e somiglianza, che Satana aveva spinto a ribellarsi a Dio con il peccato originale: un peccato di orgoglio e di superbia, che Dio subito punì.

Nel suo amore misericordioso Dio però non abbandonò l’uomo, ed annuncia l’arrivo del Salvatore: ‘Metterò inimicizia tra te e la donna, tra il seme tuo e il seme di lei; verrà un’altra donna che ti schiaccerà il capo ed inutilmente insidierai il suo calcagno’. Nella pienezza dei tempi nasce Maria, la Vergine immacolata, nel cui seno si incarna Gesù, il Figlio di Dio. Satana aveva sempre dominato nei secoli precedenti, si sentiva il padrone assoluto dell’uomo ormai peccatore, nemico di Dio. L’arrivo di Gesù incatena Satana e le forze del male.

Ora gli scribi, avversari di Gesù, cercano di screditate l’opera di Gesù, il Salvatore, accusandolo di essere un indemoniato: Satana schiaccia Satana. Gesù di fronte all’accusa reagisce con parole forti e chiare evidenziando che i suoi avversari stanno mentendo, negano l’amore di Dio che si manifesta in Cristo Gesù cacciando satana e il suo male agire; questo, evidenzia  Gesù, è un peccato contro lo Spirito Santo, l’unico peccato imperdonabile. Gesù è l’unico che incatena Satana e le forze del male; salva l’uomo e riapre le porte del regno dei cieli.

Nella vittoria di Cristo è posta tutta la nostra speranza sulla vita eterna. Però è necessario seguire Cristo, accogliere il suo amore misericordioso; è necessario da parte dell’uomo essere vigilante e deciso; partecipare alla lotta e alla vittoria di Gesù seguendo il Signore con fede sincera e amore profondo. Vi ho dato l’esempio, dirà Gesù,: come ho fatto io, fate voi.

Con Cristo Gesù possiamo vincere e stravincere: per vincere è necessario prendere ogni giorno la croce e seguirlo. La nostra adesione a Cristo con il Battesimo ci strappa a Satana e alle sue opere, ci fa aderire a Cristo e al suo progetto di salvezza: la vittoria è assicurata dalla nostra fede in Cristo, vero Dio e vero uomo, e dalle opere di amore verso Dio e i fratelli.

La vittoria di Cristo è così partecipata a tutti i credenti attraverso l’azione dello Spirito Santo in noi. La seconda incomprensione è da parte dei suoi familiari. Si rivelano preoccupati per la persona di Gesù perché la sua vita itinerante sembrava ora una pazzia. Gesù non aveva spesso tempo neppure per mangiare e i familiari erano venuti da Nazareth forse per ricondurlo alla loro città: ‘Ecco tua madre, gli dicono gli scribi, i tuoi fratelli, le tue sorelle stanno fuori e ti cercano’. La risposta di Gesù è istantanea e fulminea; Egli additando quanti stavano ad ascoltarlo rispose: ‘Ecco mia madre, i miei fratelli e sorelle: colui che fa la volontà di Dio, costui per me è madre, fratello e sorella’.

Gesù ha ormai costituito una nuova famiglia non più basata su legami naturali ma sulla fede in Lui. Accogliere la parola di Gesù ci costituisce ‘famiglia di Gesù’. Gesù non rinnega la sua famiglia di sangue o i suoi rapporti con Maria, sua madre, o con gli altri familiari, ma evidenzia che ciò che conta dinnanzi a Dio è ‘fare la volontà di Dio’ con le parole e le opere. Difende il comandamento ‘onora il padre e la madre’ ma nel contempo evidenzia l’importanza di un legame ancora più proficuo che deriva dalla fede nel Figlio di Dio, che ci costituisce fratelli di Lui e fratelli tra noi: veri figli di Dio.

Questa appartenenza alla famiglia di Dio è la radice della vera fraternità cristiana. Da qui la preghiera del ‘Padre nostro: … Padre, sia fatta la tua volontà’. Nella Messa oggi si prega: ‘Il Signore è mia roccia e mia fortezza: è Lui il mio Dio, che mi libera e mi aiuta’.

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