Processo 60SA in Vaticano. Il Promotore di Giustizia conferma le accuse, le conclusioni e le richieste di condanna. Come anche le parti civili sui risarcimenti

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 12.12.2023 – Ivo Pincara] – Il Promotore di Giustizia e le parti civili hanno fatto le loro repliche alle arringhe delle difese, ieri 11 dicembre 2023 nell’ottantaduesima Udienza del processo al Tribunale vaticano per la gestione dei fondi della Segreteria di Stato ([Procedimento penale n. 45/2019 RGP vaticano). Oggi 12 dicembre 2023 in Aula le difese degli imputati faranno le controrepliche. Entro la fine della settimana è prevista la sentenza.

Sull’Udienza di ieri possiamo essere brevi, per non perdere ulteriore tempo con un Promotore di Giustizia testardo peggio di un mulo. Alessandro Diddi, in circa quattro ore di replica, ha sostenuto soprattutto che nel dibattimento in Vaticano sono stati ampiamente rispettati i principi del «giusto processo».

Bontà sua, mentre l’opinione degli attenti osservatori che contano, va diametralmente nel senso opposto, come viene ribadito ancora una volta in due contributi pubblicati nella stessa giornata di ieri, che condividiamo di seguito:

  • Ernesto Galli della Loggia: «È venuto fuori di tutto, insomma, i questi due anni nell’aula del tribunale vaticano. Ma soprattutto è emersa la sostanziale innocenza del cardinale Becciu dalle accuse che gli venivano mosse. (…) Tutte accuse cadute fragorosamente nel nulla nei due lunghi anni del processo. Significa allora tutto ciò la sua probabile assoluzione? Non è per nulla detto. Proprio la palese inconsistenza dell’accusa via via sempre più evidente, infatti, è valsa a rivelare la natura vera, tutta politica, di questo processo. Natura politica in gran parte oscura ma almeno per un aspetto clamorosa, dal momento che solo il pieno coinvolgimento della massima autorità dello Stato vaticano – cioè della persona del Papa – nella preparazione del processo stesso e nel suo svolgimento lo ha di fatto reso possibile così come esso si svolto. (…) che l’autorità decisoria si convinca a intitolarsi l’assoluzione di Becciu. Che il Papa, assistito dal consiglio del presidente Pignatone, capisca, anche ricredendosi, che sulla base delle risultanze processuali, è quella l’unica scelta giusta. Non solo e non tanto un’assoluzione ma la presa d’atto della verità».
  • Sandro Magister: «Fino a un recente passato un cardinale poteva essere giudicato soltanto dal papa. Francesco ha cancellato questo suo diritto e dovere, ma a suo modo ha ugualmente sottoposto Becciu al proprio personale giudizio e alla conseguente condanna: il tutto in una sola udienza di venti minuti a tu per tu e a porte chiuse, nel pomeriggio del 24 settembre 2020, al termine della quale il presunto reo, pur conservando la porpora, si trovò spogliato di ogni sua carica e senza più i “diritti connessi al cardinalato”, compreso quello di partecipare a un conclave. Sino ad oggi Francesco non ha mai detto le ragioni di questa condanna, da lui emessa senza neppure la parvenza di un processo, né tanto meno con la possibilità per l’imputato di difendersi. Non solo. Ha promosso per vie oblique anche l’avvio di un processo giudiziario vero e proprio da parte del tribunale dello Stato della Città del Vaticano, sempre con Becciu tra gli imputati. È il processo che, iniziato il 27 luglio 2021, sta ora per terminare, e sul cui svolgimento Francesco non ha mancato di intervenire più volte cambiandone arbitrariamente le regole in corso d’opera, con al suo docile servizio il promotore di giustizia Alessandro Diddi nel ruolo di pubblico accusatore. Non stupisce che queste continue violazioni da parte di Francesco delle minime regole di uno stato di diritto abbiano assimilato la sua forma di governo a quella di una monarchia assoluta spinta all’estremo. (…) Se [Becciu] sarà assolto, come è probabile vista l’incapacità dell’accusa di produrre prove dei suoi presunti misfatti, toccherà allo stesso Francesco riconoscere d’aver abusato dei propri poteri».

Invece di rinunciare al suo teorema fondato sul nulla, il Promotore di Giustizia ieri nella sua replica, senza portare alcuna prova, né nuova, né vecchia, dei reati che ha addossato al Cardinal Becciu, ha confermato tutte le accuse contro di lui e gli altri 9 coimputati. Quindi, ha ribadito tutte le sue conclusioni e richieste, senza fare una piega.

Anche Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera ritiene che ci siano due possibilità: o vince la VERITÀ (l’innocenza del Cardinal Becciu) o vince la RAGIONE DI STATO (la “necessità” di confermare una condanna, per quanto assurda). Pignatone faccia la scelta giusta. E con lui la Chiesa tutta.

Vaticano. I verdetti del processo Becciu
Verso la conclusione. Una vicenda nella quale i motivi e i retroscena veri, i veri attori, restano tuttora nell’ombra più fitta
di Ernesto Galli della Loggia
Corriere della Sera, 11 dicembre 2023


Ormai vicino al momento del verdetto il processo al cadinale Becciu ha finito per trasformarsi non dico in un processo ma di sicuro in una decisa smentita ai suoi accusatori. Del resto era prevedibile che se la corte non si fosse lasciata intimidire (come è infatti è fortunatamente accaduto) le cose sarebbero andate più o meno così. E pazienza se a causa della «copertura» limitata che la stampa ha dato al dibattimento l’opinione pubblica non ha avuta modo di rendersene adeguatamente conto.

Non sono bastate infatti le già vistose anomalie, chiamiamole eufemisticamente così, a monte del dibattimento stesso – la condanna anticipata dell’accusato implicita nell’averlo il Papa spogliato inizialmente dei suoi diritti di cardinale, i ben quattro provvedimenti con cui a procedimento già in corso sempre il Papa ha modificato le regole della procedura(ma solo per questo processo e dunque sola a danno dell’imputato)- neppure è bastato il famigerato monsignor Perlasca benevolmente trasformato, guarda caso, da coimputato di Becciu in testimone d’accusa a suo carico.

A tutto ciò ogni seduta del processo ha aggiunto questo o quell’aspetto di un panorama nel complesso desolante: indagini secretate di cui gli avvocati della difesa non hanno saputo mai nulla, una fitta rete di scandali, di irregolarità, di leggerezze, di conti correnti cifrati che emergevano a ogni momento, ombre di corruzione, investimenti immobiliari dubbi, contrasti feroci tra le diverse istituzioni dello Stato Vaticano. E infine quasi in contemporanea, sullo sfondo (ma in un rapporto evidente con quanto andava accadendo nel corso processo) un decisivo mutamento dei tradizionali equilibri politici all’interno della Santa Sede: la drammatica perdita di immagine, di competenze e di potere da parte della Segreteria di Stato e lo Ior, invece, sempre più sul podio del vincitore.

È venuto fuori di tutto, insomma, i questi due anni nell’aula del tribunale vaticano. Ma soprattutto è emersa la sostanziale innocenza del cardinale Becciu dalle accuse che gli venivano mosse. Scrivo sostanziale perché nella lunga e complessa attività di una carriera come la sua sfido qualunque leguleio a non riuscire a trovare qualche parere omesso che andava richiesto, qualche procedura amministrativa non perfettamente eseguita, qualche insignificante «abuso d’ufficio». Ma non era certo di cose simili che l’alto prelato sardo doveva rispondere, come si sa. Bensì di essere stato un servitore infedele e corrotto della Santa Sede, di averle scientemente procurato un rilevantissimo danno finanziario con la gestione patrimoniale dell’edificio londinese di Sloane square, e da ultimo di essersi servito della propria carica per favorire in modo truffaldino parenti e conoscenti. Tutte accuse cadute fragorosamente nel nulla nei due lunghi anni del processo.

Significa allora tutto ciò la sua probabile assoluzione? Non è per nulla detto. Proprio la palese inconsistenza dell’accusa via via sempre più evidente, infatti, è valsa a rivelare la natura vera, tutta politica, di questo processo. Natura politica in gran parte oscura ma almeno per un aspetto clamorosa, dal momento che solo il pieno coinvolgimento della massima autorità dello Stato vaticano – cioè della persona del Papa – nella preparazione del processo stesso e nel suo svolgimento lo ha di fatto reso possibile così come esso si svolto. E dunque è per l’appunto un tale coinvolgimento che rende quanto mai delicato l’esito del processo stesso. Fino a qual punto, infatti, quel coinvolgimento si spingerà? E con quale intenzione?

Questo è il vero interrogativo al quale è chiamato a rispondere il verdetto atteso tra pochi giorni che il tribunale ha il non facile compito di emettere ma dietro il quale è più che naturale che l’opinione pubblica immagini il peso condizionante dell’orientamento del Papa. Un sospetto che soprattutto in queste ore deve particolarmente gravare sulle spalle del presidente Pignatone. Esclusa, viste le risultanze del dibattimento, una sorprendente pronuncia di colpevolezza dell’imputato secondo le deliranti richieste dell’accusa (sette anni e rotti di galera), ed esclusa altresì la soluzione ipocrita di una «condannuccia» (la montagna che partorisce il classico topolino), tanto per far vedere che il processo ha avuto comunque motivo di essere, una sola strada sembra aprirsi capace di concludere in modo non indegno questa grigia vicenda. E cioè che l’autorità decisoria si convinca a intitolarsi l’assoluzione di Becciu. Che il Papa, assistito dal consiglio del presidente Pignatone, capisca, anche ricredendosi, che sulla base delle risultanze processuali, è quella l’unica scelta giusta. Non solo e non tanto un’assoluzione ma la presa d’atto della verità. Sì, anche ricredendosi: Bergoglio non ci ha forse abituati nel corso del suo pontificato a svolte improvvise, a repentini cambiamenti di umori e di prospettiva, a colpi di scena? Si metterebbe così fine a una vicenda nella quale i motivi e i retroscena veri, i veri attori, restano tuttora nell’ombra più fitta e in cui forse a tirare davvero i fili non è stato neppure il Papa stesso.

Peggio di un papa re. Uno storico e una canonista analizzano il malgoverno di Francesco
di Sandro Magister
Diakonos, 11 dicembre 2023


Tra pochi giorni il tribunale dello Stato della Città del Vaticano emetterà la sentenza finale di quello che è stato chiamato il “processo del secolo”, tra i cui imputati c’è anche un cardinale, Giovanni Angelo Becciu, che è stato fino al 2018 tra i più stretti collaboratori di papa Francesco con la carica chiave di sostituto segretario di Stato, prima di cadere in disgrazia.

Fino a un recente passato un cardinale poteva essere giudicato soltanto dal papa. Francesco ha cancellato questo suo diritto e dovere, ma a suo modo ha ugualmente sottoposto Becciu al proprio personale giudizio e alla conseguente condanna: il tutto in una sola udienza di venti minuti a tu per tu e a porte chiuse, nel pomeriggio del 24 settembre 2020, al termine della quale il presunto reo, pur conservando la porpora, si trovò spogliato di ogni sua carica e senza più i “diritti connessi al cardinalato”, compreso quello di partecipare a un conclave.

Sino ad oggi Francesco non ha mai detto le ragioni di questa condanna, da lui emessa senza neppure la parvenza di un processo, né tanto meno con la possibilità per l’imputato di difendersi. Non solo. Ha promosso per vie oblique anche l’avvio di un processo giudiziario vero e proprio da parte del tribunale dello Stato della Città del Vaticano, sempre con Becciu tra gli imputati. È il processo che, iniziato il 27 luglio 2021, sta ora per terminare, e sul cui svolgimento Francesco non ha mancato di intervenire più volte cambiandone arbitrariamente le regole in corso d’opera, con al suo docile servizio il promotore di giustizia Alessandro Diddi nel ruolo di pubblico accusatore.

Non stupisce che queste continue violazioni da parte di Francesco delle minime regole di uno stato di diritto abbiano assimilato la sua forma di governo a quella di una monarchia assoluta spinta all’estremo, senza contare tutti gli altri atti d’imperio “extra legem” compiuti durante il suo pontificato, da ultimo la vendicativa privazione di un altro cardinale, lo statunitense Raymond L. Burke, di casa e stipendio.

Il 13 maggio del 2023 Francesco ha inoltre pubblicato una nuova legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano che esordisce attribuendo al papa “poteri sovrani” su questo minuscolo Stato, e questo proprio “in forza del ‘munus petrino’”. Mai, in passato, nemmeno nei secoli del “papa re”, si era osato far derivare dal primato religioso conferito da Gesù a Pietro e ai suoi successori un potere anche temporale. Dal che sorge naturale la domanda: perché Francesco si è spinto oltre questo limite? E qual è invece il limite, se c’è, alla “plenitudo potestatis” di un papa?

A queste domande cruciali hanno risposto nei giorni scorsi, per vie diverse, un illustre storico del cristianesimo e una rinomata esperta di diritto canonico.

Lo storico è Alberto Melloni, docente all’Università di Modena e Reggio Emilia ed esponente di punta di quella “scuola di Bologna” famosa per una rilettura marcatamente “progressista” del Concilio Vaticano II.

In un saggio pubblicato il 4 dicembre sulla rivista “il Mulino”, Melloni definisce “quanto meno audace” la tesi codificata dalla nuova legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano, e “spericolato” il canonista che l’ha scritta e fatta firmare del papa.

Melloni non fa nomi, ma è ormai risaputo che è il gesuita e cardinale Gianfranco Ghirlanda lo “sherpa” che coadiuva il papa nel trascrivere in codicilli i suoi voleri.

E questa volta, a giudizio di Melloni, è proprio il processo contro il cardinale Becciu all’origine di questa estensione della potestà del papa anche al governo temporale dello Stato della Città del Vaticano.

In forza di questa estensione, infatti – scrive Melloni –, l’accusa e l’eventuale condanna di Becciu non sarebbero formulate “a nome del papa in quanto pastore della Chiesa universale, ma a nome del capo di Stato della Città del Vaticano”. Con l’effetto di “esonerare il pontefice dalle conseguenze di un processo dal quale, comunque vada, la Chiesa non uscirà più umile, ma più umiliata”.

Da storico qual è, Melloni ricorda un precedente: quello in cui “fra il 1557 e il 1559 papa Paolo IV Carafa inquisì, arrestò, chiuse a Castel Sant’Angelo e mandò sotto processo il cardinale Giovanni Morone, correggendo le norme a suo sfavore”. Con metodi “immorali” analoghi a quelli adottati oggi.

Morone fu poi riabilitato dal successivo papa, Pio IV. Di Becciu non si sa. Se sarà assolto, come è probabile vista l’incapacità dell’accusa di produrre prove dei suoi presunti misfatti, toccherà allo stesso Francesco riconoscere d’aver abusato dei propri poteri.

A rispondere all’altra domanda, più generale, se cioè c’è un limite alla “plenitudo potestatis” di un papa, è la grande canonista Geraldina Boni, ordinario di diritto ecclesiastico e di storia del diritto canonico all’Università di Bologna e nominata da Benedetto XVI nel 2011 consulente del pontificio consiglio per i testi legislativi.

In un saggio in due puntate pubblicate il 5 e 6 dicembre su “La Nuova Bussola Quotidiana”, Boni esordisce citando le parole impeccabili pronunciate dallo stesso papa Francesco il 17 ottobre 2015: “Il papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il collegio episcopale come vescovo tra i vescovi, chiamato al contempo – come successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese”.

Nemmeno nei secoli di maggiore accentramento dei poteri pontifici – fa notare Boni – è mai venuta meno la “granitica consapevolezza che la potestà del successore di Pietro è certamente suprema, ma non affatto assoluta”, né tanto meno arbitraria. Questo perché la potestà del papa ha comunque il suo limite invalicabile nella “oboedientia fidei” ed è quindi come “recintata” dal diritto divino, sia naturale che rivelato.

Poi però – scrive – occorre riempire tale asserzione di contenuti concreti, come è stato fatto nei secoli dalla Chiesa.

In primo luogo, l’affermazione che il papa è “legibus solutus”, sciolto dalle leggi, è stata sempre intesa esclusivamente nel senso che egli è al di sopra del diritto positivo, cioè delle leggi di produzione umana – alle quali resta comunque ordinariamente soggetto –, ma non è certo libero dalla legge divina.

Di conseguenza, “le esigenze promananti dal diritto divino naturale non possono essere compresse o mortificate”. È quindi inammissibile che un papa, nell’esercizio dei suoi poteri, “calpesti e conculchi i diritti correlati alla dignità della persona umana: ad esempio, il diritto alla vita, all’intimità e alla riservatezza o alla buona fama, ma anche – per riferirci a un ambito delicato, oggi sotto i riflettori nella Chiesa – il diritto di difesa in un giusto processo, la presunzione di innocenza, la tutela di preesistenti diritti acquisiti, non escluso quello di non essere punito per un delitto prescritto”.

Inoltre, ha “cruciale importanza il rispetto, anche da parte di quel legislatore supremo che è il papa, della legalità ‘in legiferando’”, cioè nella produzione delle norme.

Perché invece – denuncia Boni – da alcuni anni sta accadendo troppo spesso il contrario. In Vaticano si assiste a “un sovrapporsi frenetico, alluvionale e caotico di leggi, ovvero di precetti scanditi senza un’appropriata tecnica normativa, di cui nebulosi appaiono il rango e la portata giuridica”. Come pure si moltiplicano provvedimenti approvati volutamente dal papa in una forma tale da rendere impossibile un ricorso, neppure quando tali provvedimenti siano lesivi di diritti.

“Tutto ciò va censurato – scrive Boni – non per un accademico gusto di geometrie astratte”, ma per ragioni drammaticamente più sostanziali. “Al di là dei pericoli per il patrimonio stesso della fede, è soprattutto la carne viva delle persone ad essere afflitta e lacerata là dove le norme risultino irragionevoli, mettendo così gravemente a repentaglio quella giustizia che per diritto divino ad essi è dovuta, e al cui servizio è posta l’autorità ecclesiastica, anche quella primaziale”.

Insomma, nell’enumerare i limiti della potestà del papa, ciò su cui “occorre insistere positivamente e costruttivamente” è “il buon governo della società ecclesiale”, della cui unità “il romano pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento” (“Lumen gentium”, 23).
Un buon governo, diremmo noi, che è di là da venire.

Indice – Caso 60SA [QUI]

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