Il Processo 60SA vaticano. La verità ha un passo lento ma arriva sempre a destinazione

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 12.11.2023 – Ivo Pincara] – Un detto anonimo recita: prima di ingannare qualcuno ricorda che la verità, col suo peso, ha il passo lento ma arriva sempre a destinazione. Inoltre, ricordiamo l’avvertimento: «Le persone oneste non cadono di fronte alla menzogna, ma le persone squallide cadono prima o poi di fronte alla verità» (Silvia Nelli). Poi, c’è da tener presente l’aforisma del filosofo greco Democrito che recita: «In verità nulla sappiamo, giacché la Verità sta in fondo al pozzo», a cui fa riferimento il dipinto La Verità che esce dal pozzo di Jean-Léon Gérôme.

Jean-Léon Gérôme, La Verità che esce dal pozzo armata della sua frusta per punire l’umanità o La Verità che esce dal pozzo, 1896, Museo Anne de Beaujeu, Moulins.
A partire dalla seconda metà degli anni 1890, Gérôme dipinse almeno quattro dipinti della Verità nuda buttata in un pozzo, giacente sul fondo, o emergente da questo, una rappresentazione che deriva dall’aforismo di Democrito. La nudità della Verità potrebbe derivare dall’espressione “la nuda verità”, che indica un fatto più che certo.
Al Salone dei Champs-Élysées del 1895, Gérôme presentò un dipinto intitolato “L’alma verità giace in un pozzo, uccisa dai bugiardi e dagli attori”, che mostrava la nuda Verità uccisa dalla Menzogna ed il suo corpo gettato in un pozzo assieme al suo specchio da cui scaturiscono dei bagliori di luce che rischiarano l’abisso buio.
L’anno successivo, allo stesso Salone, Gérôme presentò il dipinto “La Verità che esce dal pozzo”. La Verità ha già messo un piede fuori dal pozzo e in mano non tiene più lo specchio luminoso, ma un tipo di frusta francese nota come martinet, con la quale intende fustigare coloro che hanno permesso che ella rimanesse rinchiusa laggiù. Lo sguardo è spietato e la Verità spalanca la bocca cacciando un urlo, come se stesse chiamando proprio lo spettatore: quest’ultimo teme la Verità non solo per la sua collera, ma perché egli in cuor suo sa di essere colpevole di averla costretta a rimanere rinchiusa nel pozzo.

Alcuni giorni fa, un amico – riportando il dipinto di Jean-Léon Gérôme, ricordano la parabola La Verità e la Menzogna – ci ha fatto pensare al destino del processo Becciu, da cui si spera esca fuori la nuda Verità come dal pozzo. Però, per adesso siamo ancora al dipinto L’alma verità giace in un pozzo, uccisa dai bugiardi e dagli attori.

Jean-Léon Gérôme, L’alma verità giace in un pozzo, uccisa dai bugiardi e dagli attori, 1895.

La fonte della parabola La Verità e la Menzogna è la Prefazione del libro – con un titolo che fa pensare anche al medesimo processo – Burattinai e Galoppini di Marianna Archetti e Chiaretta Mannari, sul perché la Verità è così difficile da scorgere:

«Secondo una leggenda del XIX secolo, la Verità e la Menzogna un giorno s’incontrarono. La Menzogna disse alla Verità: “Oggi è una giornata meravigliosa!” La Verità guardò verso il cielo e sospirò, perché la giornata era davvero bella. Trascorsero molto tempo insieme, arrivando infine accanto a un pozzo. La Menzogna si rivolse allora alla Verità e disse: “L’acqua è molto bella, facciamo un bagno insieme!” La Verità, ancora una volta sospettosa, si accertò riguardo le condizioni dell’acqua e si rese conto che era davvero molto bella. Si spogliarono e iniziarono a fare il bagno.
Improvvisamente la Menzogna uscì dall’acqua, indossò i vestiti della Verità e fuggì via. La Verità, furiosa perché le furono sottratti gli abiti, uscì dal pozzo e corse dappertutto per trovare la Menzogna e riprendersi i vestiti.
Il mondo, vedendo la Verità nuda, distolse lo sguardo, con disprezzo e rabbia. La povera Verità ritornò quindi al pozzo e scomparve per sempre, nascondendo in esso la sua vergogna.
Da allora, la Menzogna vaga in tutto il mondo, vestita come la Verità, soddisfacendo i bisogni della società, perché il Mondo, in ogni caso, non nutre alcun desiderio di incontrare la Verità nuda».

Dopo questa introduzione, riportiamo di seguito la nostra traduzione italiana dell’articolo Un processo contorto che potrebbe essere ridotto ad una semplice domanda: il Papa è al di sopra della legge? di John L. Allen Jr. su Crux del 12 novembre 2023, che analizza quanto la giustizia vaticano è manovrata a piacimento dal Promotore di Giustizia vaticano e la sentenza sia predeterminata: «“Il Codice di diritto canonico impone limiti anche ai Rescritti”, ha affermato [l’Avv. Panella]. “Non si può andare dal Papa per chiedere qualcosa che non è conforme alla legge, e queste richieste sono contrarie alla legge”. (…) Questo processo avrebbe dovuto essere una pietra miliare della campagna di riforma del Vaticano del pontefice, una dimostrazione al mondo che stava nascendo una nuova era di trasparenza e responsabilità. (…) Francesco ha appena presieduto un intero Sinodo dei Vescovi dedicato al tema della sinodalità, una delle cui implicazioni è che tutte le voci nella Chiesa contano e che la gerarchia non può più semplicemente dettare risultati che riguardano tutti. Se la percezione fosse, tuttavia, che questo è esattamente ciò che sta accadendo in questo processo – vale a dire che il Papa (o il suo procuratore selezionatore) hanno abusato della loro autorità calpestando lo Stato di diritto, al fine di raggiungere una conclusione predeterminata. – allora potrebbe mettere in discussione la più ampia legittimità dell’agenda del Papa».

Seguono stralci dell’articolo Processo Palazzo di Londra, verso la sentenza a metà dicembre di Andrea Gagliarducci su ACI Stampa dell’11 novembre 2023: «Tre udienze, tutte molto critiche nei confronti sia del modo in cui sono state condotte indagini e interrogatori, sia degli atti di accusa».

Concludiamo con un Postscriptum, a firma di Andra Paganini, il curatore della Rassegna stampa sul “caso Becciu” [QUI]: «Abbagli, granchi, gravi pecche. Ma anche imbeccamenti calunniosi a certa stampa, leggi modificate a procedimento in corso (sempre in sfavore degli imputati), magistrati dell’accusa che non obbediscono al giudice, video di testimonianze censurati, verbali pieni di omissis, testimoni che ammettono d’essere stati manipolati (senza che si approfondisca per capire da chi e perché), interrogatori calendarizzati e poi cancellati, messaggi chat tenuti nascosti da chi dovrebbe cercare la verità, una pregiudicata che muove le pedine a proprio piacimento, promotori di giustizia indegni che non ne azzeccano una, giudici che approvano senza battere ciglio… E intollerabili interventi censori sul materiale probatorio. Perché? Cosa nasconde il Tribunale vaticano?».

Un processo contorto che potrebbe essere ridotto ad una semplice domanda: il Papa è al di sopra della legge?
di John L. Allen Jr.
Crux, 12 novembre 2023

(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

Da un lato, la questione che devono affrontare i tre giudici che supervisionano il lungo “processo del secolo” del Vaticano, che dovrebbero emettere un verdetto il mese prossimo, è estremamente semplice: gli imputati sono innocenti o colpevoli delle varie forme di crimine finanziario di cui sono stati accusati?

Eppure, in agguato sotto e oltre la superficie c’è un’altra domanda, con implicazioni molto più grandi del destino di questi dieci persone, la maggior parte dei quali, presumibilmente, torneranno nella relativa oscurità una volta terminato il processo. Vale a dire: il Papa è al di sopra della legge? Potrebbe sembrare una domanda pesante o retorica, ma in realtà è una seria questione legale, che è stata formulata in modo memorabile la scorsa settimana dall’Avvocato Luigi Panella, che rappresenta Enrico Crasso, un banchiere italiano ed ex consulente finanziario della Segreteria di Stato della Santa Sede.

Sostenendo che il pubblico ministero [Promotore di Giustizia vaticano] Alessandro Diddi si è affidato a un’interpretazione eccessivamente ampia dell’autorità papale, Panella ha affermato che un verdetto di colpevolezza riporterebbe la Chiesa indietro fino al 1075 e alle ampie affermazioni di una “pienezza” di potere contenute nella famigerata raccolta Dictatus Papae di Papa Gregorio VII.

Per dirla diversamente, Panella ha sostanzialmente affermato che Diddi sta riproponendo il celebre adagio nixoniano dell’era Watergate: “Quando lo fa il Presidente, significa che non è illegale”.

Panella ha presentato le sue argomentazioni conclusive – che gli Italiani, coloritamente, chiamano la sua “arringa” – nell’arco di due giorni questa settimana e, da un lato, si sono concentrati su uno sforzo scrupoloso per confutare l’accusa sostanziale secondo cui Crasso era coinvolto in una frode durante il suo ruolo nel controverso acquisto da 400 milioni di dollari di un ex magazzino di Harrod’s a Londra per conto della Segreteria di Stato.

Tra gli altri punti, Panella ha insistito sul fatto che le prove del processo non sono riuscite a dimostrare che Crasso abbia mai tratto alcun vantaggio finanziario dai suoi rapporti con il finanziere italiano Gianluigi Torzi, che ha mediato le fasi finali dell’accordo di Londra.

Infatti, Panella ha citato la registrazione audio di un incontro del 2018 tra Torzi, Crasso e Fabrizio Tirabassi, funzionario della Segreteria di Stato anch’egli imputato nel caso, in cui non solo Torzi non fa cenno di offrire un compenso a Crasso, ma sembra chiaro che Torzi in realtà voleva che fosse rimosso dall’accordo.

Passando ad un aspetto più tecnico, Panella ha anche sottolineato che molte delle accuse contro Crasso riguardano reati di diritto vaticano che possono essere commessi solo da un “pubblico ufficiale”, quando in realtà Crasso non ha mai lavorato per la Segreteria di Stato ed è stato pagato per i suoi servizi non dal Vaticano ma dalle banche e dalle holding con le quali era coinvolto.

Tutto ciò, però, riguarda soprattutto la situazione specifica di Crasso. Panella ha anche avanzato argomentazioni di portata molto più ampia, mettendo in discussione l’integrità del processo stesso. In effetti, Panella ha cercato di trasformare il verdetto in un referendum sui limiti del potere papale, tornando su una questione ampiamente discussa all’inizio del processo: il Papa, o Diddi in suo nome, hanno gettato le carte contro il difesa con una serie di quattro deroghe, tecnicamente note come Rescritti, tra luglio 2019 e febbraio 2020, che hanno concesso al pubblico ministero ampi poteri investigativi senza controllo giurisdizionale e in modi probabilmente incoerenti con la vigente legge vaticana?

A prima vista, si è tentato di dire che tale affermazione non ha senso, dal momento che il Papa è il sovrano assoluto. Nel sistema cattolico egli è il legislatore supremo, cioè la fonte del diritto, e quindi se vuole mettere da parte quella legge in un dato caso, ha il pieno diritto di farlo.

Eppure, Panella ha sostenuto che tale nozione di cosa significhi per un Papa possedere un’autorità “assoluta” è un anacronismo. I Papi moderni, ha insistito, sono andati oltre l’era del Dictatus Papae, approvando lo Stato di diritto e sottoponendo se stessi e i loro collaboratori ai requisiti delle leggi che essi stessi hanno emanato. Inoltre, ha osservato Panella, la Santa Sede è anche firmatario di una serie di convenzioni e trattati internazionali che creano allo stesso modo limiti legali vincolanti alla discrezionalità papale, come la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo. “La Santa Sede si è impegnata a rispettare il principio della supremazia della legge, di un governo delle leggi”, ha affermato Panella. “Oggi una monarchia assoluta non è più sostenibile”.

L’Avv. Panella ha anche osservato che i controversi Rescritti non sono mai stati pubblicati negli Acta Apostolicae Sedis, il registro ufficiale della legislazione vaticana, il che, a suo avviso, significa che non hanno mai avuto forza di legge, e quindi sono subordinati sia alla Legge Fondamentale dello Stato della Città del Vaticano e anche il Codice di Diritto Canonico. “Il Codice di diritto canonico impone limiti anche ai Rescritti”, ha affermato. “Non si può andare dal Papa per chiedere qualcosa che non è conforme alla legge, e queste richieste sono contrarie alla legge”.

Sulla base di queste considerazioni, Panella ha detto senza mezzi termini ai giudici che il loro dovere legale è quello di annullare l’intero processo durato due anni e mezzo e ricominciare sostanzialmente da capo. “Voi siete uomini di legge”, ha detto ai giudici, “e dovete rispettare e applicare la legge”.

Qualunque cosa accada il prossimo mese, gli appelli sono considerati probabili e quindi la disputa legale potrebbe continuare.

In termini di impressioni pubbliche più ampie, tuttavia, le argomentazioni avanzate da Panella, e riprese a vari livelli da altri avvocati difensori e vari commentatori del caso, sollevano la prospettiva che, anche se Diddi riuscisse a garantire la condanna di almeno alcuni degli imputati, potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro per Papa Francesco.

Questo processo avrebbe dovuto essere una pietra miliare della campagna di riforma del Vaticano del pontefice, una dimostrazione al mondo che stava nascendo una nuova era di trasparenza e responsabilità, un’era in cui nessuno, nemmeno un cardinale come il Cardinale italiano Angelo Becciu, sarebbe stato al di sopra la legge.

Francesco ha appena presieduto un Sinodo dei Vescovi per intero dedicato al tema della sinodalità, una delle cui implicazioni è che tutte le voci nella Chiesa contano e che la gerarchia non può più semplicemente dettare risultati che riguardano tutti.

Se la percezione fosse, tuttavia, che questo è esattamente ciò che sta accadendo in questo processo – vale a dire che il Papa (o il suo procuratore selezionatore) hanno abusato della loro autorità calpestando lo Stato di diritto, al fine di raggiungere una conclusione predeterminata. – allora potrebbe mettere in discussione la più ampia legittimità dell’agenda del Papa.

La stima convenzionale è che la Santa Sede abbia perso circa 150 milioni di dollari nell’accordo di Londra. In termini di possibili danni alla sua eredità, tuttavia, Francesco potrebbe scoprire che il costo in dollari-e-centesimi dell’affare di Londra è l’ultima delle sue preoccupazioni.

Tutto ciò fa pensare che quando Diddi prenderà la parola il mese prossimo, nella sala multifunzionale dei Musei Vaticani dove si svolge il processo, per pronunciare la propria arringa finale – e, ripeto, è il termine adatto – lui non è l’unico con molta preoccupazione sulle le loro performance.

Nota a margine: Diddi potrebbe avere un altro fuoco da spegnere, se non presso il Tribunale vaticano, almeno presso il tribunale dell’opinione pubblica. Il mese scorso è venuto alla luce, anche se non ha attirato molta attenzione perché il Sinodo era ancora in corso, che mentre lui guida l’accusa vaticana, Diddi lavora anche come avvocato difensore di un pubblico ufficiale accusato di corruzione in un caso a Napoli.

Concetta Ferrari, Capo di Gabinetto del Ministero del Lavoro italiano, è una delle sette persone accusate nel caso, che prevede lo scioglimento di quello che gli Italiani chiamano patronato, ovvero un ufficio sovvenzionato con fondi pubblici che aiuta le persone a ottenere pensioni e benefici di previdenza sociale. L’accusa è che Ferrari ha dato il via libera alla riorganizzazione dopo essere stata corrotta con doni da altri imputati, tra cui un lavoro per suo figlio, una vacanza a Tropea, il noleggio scontato di una barca e un’auto, una borsa Luis Vuitton del valore di circa 800 dollari, e un forte sconto sull’acquisto di un’Audi Q3 per un altro figlio.

In linea di principio, non esiste un conflitto di interessi diretto per Diddi, dal momento che gli imputati del caso Vaticano e dell’affare napoletano non sembrano sovrapporsi – anche se, onestamente, non è chiaro se qualcuno abbia effettivamente esaminato attentamente se ci sono tali connessioni, che potrebbero benissimo esserci. Come disse una volta il giornalista italiano Leo Longanesi: “La rivoluzione in Italia non si può fare perché ci conosciamo tutti”.

Più in generale, i critici hanno sollevato la questione se sia appropriato che Diddi accumuli ore fatturabili come avvocato difensore mentre agisca anche come pubblico ministero nel processo penale di più alto profilo nella storia del Vaticano. Alcuni hanno suggerito che in effetti il processo vaticano sia semplicemente uno spot pubblicitario di lunga durata per la pratica personale di Diddi, sostenendo che il suo obiettivo non è tanto l’amministrazione della giustizia quanto la notorietà.

Come sempre, ci sono diversi modi di vedere la cosa e, dati gli standard tristemente bassi dei compensi vaticani, probabilmente non si può criticare Diddi per aver voluto integrare le sue entrate. D’altra parte, la situazione crea l’ennesimo punto interrogativo su un processo che, diciamocelo, non era proprio deficitario di dubbi e perplessità.

Processo Palazzo di Londra, verso la sentenza a metà dicembre
Tre udienze, tutte molto critiche nei confronti sia del modo in cui sono state condotte indagini e interrogatori, sia degli atti di accusa. Verso la sentenza a metà dicembre
di Andrea Gagliarducci
ACI Stampa, 11 novembre 2023


(…) La sentenza non metterà una pietra tombale sulla vicenda, perché ci saranno gli appelli. Però avrà la capacità di mettere in luce come il Tribunale vaticano ha recepito questi due anni e tre mesi di processo, quattro anni includendo le indagini, la cui narrativa era inizialmente squilibrata verso le tesi dell’accusa e poi, man mano che si dipanavano le vicende, diventava più simpatetica verso gli imputati, fino al drastico cambio di narrativa che è avvenuto con le ultime arringhe.

Documenti alla mano, ci si trova di fronte ad indagini che non hanno considerato tutti i contesti e le vicende, che hanno creato un quadro accusatorio sul quale sono rimasti fermi (nella sua requisitoria, Diddi ha mantenuto tutti i punti del rinvio a giudizio di tre anni fa, come se non ci fosse stato dibattimento), e che ora si trovano messe in discussione dai difensori degli imputati.

Questo scenario si è ripetuto durante le ultime tre udienze, che hanno visto l’arringa dell’avvocato Matteo Santamaria, uno dei difensori del broker Gianluigi Torzi, e poi la lunga arringa dell’avvocato Luigi Panella, difensore di Enrico Crasso, che per anni è stato incaricato di gestire i fondi della Segreteria di Stato. Panella, tra l’altro, ha ribadito la necessità di azzerare il processo di fronte ai tanti vizi procedurali, e soprattutto di fronte agli interventi pesanti del Papa sulle procedure (ben quattro rescritti) che avrebbero portato ad un processo che “non si sarebbe potuto celebrare in questo modo”. (…)

L’arringa dell’avvocato di Torzi

Va ricordato che il 5 giugno 2020 Gianluigi Torzi è stato incarcerato in Vaticano, dove si era recato per essere interrogato, con una procedura quanto mai inusuale. Oggi è latitante a Dubai, negli Emirati, perché sulla sua testa spicca un mandato di cattura, ma di certo non ha dimenticato l’esperienza del carcere vaticano, da cui è uscito con un corposo memoriale. (…)

L’avvocato ricorda l’episodio “doloroso” dell’arresto, parla di “interrogatorio aggressivo”, “Domande nocive”, “presupposti errati”, e sottolinea che l’arresto è “il simbolo delle modalità in cui è stata condotta l’indagine”. Santamaria definisce l’indagine “caotica”, fatta sulla base di tesi, lamentando che “anche chi ci insegna e ci fa appassionare al valore dei diritti è disposto a sacrificarli sull’altare di interessi ulteriori, come quello investigativo”.

Santamaria ha smontato una per una le ipotesi accusatorie, partendo proprio dalla descrizione del presunto reato. Ha ricordato che le clausole contrattuali sulle quote dell’immobile erano chiare, che Mincione non era tenuto a cedere le quote perché c’era un lock up, era un contratto che prevedeva uno sviluppo su una base temporale, e che lo stesso broker ha rinunciato a quello che lui chiamava un trophy asset per una cifra definita da Santamaria congrua pari a 40 milioni di euro.

Il dito dell’avvocato Santamaria è stato puntato poi sull’architetto Luciano Capaldo, prima collaboratore di Torzi e poi della Segreteria di Stato, che sarebbe stato, secondo le testimonianze di Pena Parra. Secondo l’avvocato, Capaldo ha rilasciato una “deposizione inquietante”, anche perché lui stesso avrebbe determinato “valori gonfiati” dell’immobile. Santamaria sostiene che si nota che “Capaldo è al centro del progetto, fa tutto lui”, “Capaldo dovrebbe stare sul banco degli imputati”, e punta il dito anche sullo studio Dentons, di cui fa parte l’avvocato Lipari dello IOR.

“Se si dovesse applicare la disciplina che indica la parte civile IOR – sottolinea Santamaria – io credo che ci dovrebbe essere Dentons”. Questa, aggiunge l’avvocato “fa da consulente nella trasformazione del fondo UK Opportunities”, ed è una consulenza “non solo formale, ma sostanziale”, “non fa una consulenza fiscale”, “ha visto tutti i contratti, è responsabile di tutti i contratti. Se leggete, i documenti costitutivi sono tutti approvati e rivisti da Dentons e Segreteria di Stato”. È comunque un tema che fino ad ora è stato sollevato solo dall’avvocato Santamaria e non prevede alcun tipo di reato.

Non si è affrontato il tema della presunta estorsione, che sarà invece parte di una seconda fase dell’arringa difensiva di Torzi. Resta la feroce critica delle procedure adottate durante l’indagine, che non è nuova all’aula e che mette, ancora una volta, in discussione il modo in cui l’impianto accusatorio è stato costruito.

L’arringa dell’avvocato di Crasso

Luigi Panella, avvocato di Enrico Crasso, è andato ancora oltre con la critica, chiedendo addirittura l’azzeramento dell’intero dibattimento, perché si sarebbe derogato dalle regole del giusto processo. In particolare, Panella ha parlato di “mancato rispetto” da parte del promotore, durante le indagini, dell’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. In realtà, la Santa Sede non ha mai sottoscritto la convenzione (ci sono dei problemi, soprattutto riguardo i nuovi diritti che promuove), ma secondo Panella comunque la Santa Sede vi avrebbe aderito quando ha sottoscritto la Convenzione Monetaria dell’Unione Europa.

Panella punta il dito contro i rescripta del Papa, che avrebbero riportato le lancette della storia indietro a Canossa, al 1075, con il Papa re. “Questo – sottolinea Panella – è un processo storico: saremo giudicati per quello che diremo e per quello che faremo”.

Pannella affronta, uno ad uno, i 20 capi d’imputazione a carico del suo assistito, e quello, la truffa, a carico delle società riconducibili a Crasso, da HP Finance LLC a Prestige Family Office SA, fino a Sogenel Capital Investment. Crasso in realtà ha gestito i fondi della Segreteria di Stato prima come dipendente di Prime Consult e poi di Credit Suisse.

Panella contesta il fatto che Crasso fosse “un pubblico ufficiale”, come si definisce in dodici imputazioni, anche se poi in un’altra imputazione, del 30 marzo 2023, viene definito estraneo alla Pubblica Amministrazione Vaticana.

L’avvocato ha dunque gioco facile a sottolineare che il promotore di Giustizia “confonde la gestione degli investimenti della Segreteria di Stato e la gestione del cliente Segreteria di Stato per conto della società Credit Suisse”, che è quello che avrebbe fatto il suo assistito. Che “è sempre stato retribuito dalle banche e dalle società d’investimento, non dalla Segreteria di Stato”.

Non solo. Crasso controllava soprattutto che gli investimenti di Segreteria di Stato fossero compatibili con la sua classe di rischio, e l’avvocato mette in luce come quel tipo di investimenti immobiliari fossero operati dalla Segreteria di Stato già dagli anni Novanta.

Diverso il discorso delle presunte “tangenti”, che in realtà sono – spiega l’avvocato – le fees che Crasso riceveva per la sua attività di introducer.

Da Falcon Oil al Fondo Athena

Come si è arrivati all’investimento di Londra? Si partiva dall’ipotesi di investire sulla Falcon Oil, una società petrolifera in Angola, e Mincione era stato individuato come un esperto di commodities. Quando si decise di non investire più perché non ce n’erano le condizioni, fu lasciata a Mincione libertà di investire. Ma cosa sapeva Crasso di come Mincione gestisse l’investimento? Nulla, secondo l’avvocato, che contesta così molti dei reati già nei presupposti.

Panella poi sottolinea che “è un’assurdità anacronistica pensare che la Chiesa debba liberarsi dei sui beni, dei suoi immobili per darli ai poveri: anche secondo il Codice di Diritto canonico, la Chiesa può possedere, gestire e amministrare i suoi beni per ottenere i suoi fini” pastorali e di evangelizzazione. “La stessa destinazione delle offerte dei fedeli – per Panella – può essere il mantenimento della Sede apostolica e il complesso delle sue attività, cosa sfuggita al promotore di giustizia, che ha confuso l’impiego dei beni con la loro amministrazione”.

Gli investimenti di Crasso

Considerando che gli investimenti sono sempre stati in linea a partire dagli anni Novanta, dice l’avvocato, è “grave dire, come ha fatto la parte civile Segreteria di Stato, che grazie al Cardinale Becciu i mercanti sono entrati nel tempio”. Anzi, anche il “credit Lombard” – una particolare forma di prestito – utilizzato nel 2012 per reperire le risorse per Falcon Oil “ha fruttato 16 milioni di sterline di plusvalenze” e dunque è stata una ottima soluzione per la Segreteria di Stato.

Per quanto riguarda invece il coinvolgimento di Crasso nell’acquisto del palazzo di Londra, questi non aveva “prima di tutto idea del valore dell’immobile”. Poi, è vero, partecipò alle riunioni a Londra per il passaggio delle quote dalla GOF di Mincione alla GUTT di Torzi, ma non solo non fu parte di “alcun accordo fraudolento”, ma era stato anche escluso dalle riunioni dopo aver messo in luce alcune criticità. Insomma, Crasso, non aveva partecipato alla definizione dell’accordo che conferiva a Torzi le uniche mille azioni con diritto di voto, e non ha mai “dettato” il famoso memorandum del novembre 2018, richiesto dal nuovo sostituto, l’arcivescovo Edgar Peña Parra, all’avvocato Squillace, un altro degli imputati.

Secondo l’avvocato Panella, il processo è stato costruito su “elementi privi di fondamento”. Crasso è coinvolto anche in un incontro con l’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi (anche lui sotto processo) e il broker Torzi all’Hotel Bulgari di Milano nel dicembre 2018. Lo stesso Crasso registrò la conversazione, e l’avvocato dice che dalla conversazione integrale si nota chiaramente come Crasso sia estraneo alle vicende, piuttosto marginale, mentre sono attivi gli officiali di Segreteria di Stato che cercano di convincere Torzi a cedere le sue quote alla Santa Sede. L’obiettivo di Torzi – secondo il suo avvocato – era quello di “fare fuori” Crasso dalla gestione degli investimenti e prendere il suo posto. La riunione era “molto tesa” – spiega il legale – ma dalla registrazione non risulta nemmeno che nessuno abbia mai offerto a Torzi 9 milioni, e dunque né l’estorsione di Torzi né la corruzione potrebbero sussistere. Anzi, il momento in cui viene proposto di far transitare le azioni attraverso il fondo Centurion riconducibile a Crasso viene considerato da Torzi un “atto di guerra”, ed è in quello stesso giorno che si apre la chat di gruppo “I magnifici tre” con Torzi, Giuseppe Milanese (ovvero l’amico di Papa Francesco chiamato dal Papa a fare il negoziato con Torzi per rilevare l’immobile, che poi uscirà di scena) e l’avvocato Manuele Intendente. Torzi escluderà l’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi dal board GUTT.

Era stato Perlasca, continua la difesa, a consigliare, per uscire dall’impasse, la sottoscrizione di quote del fondo Centurion.  Panella sottolinea che la Segreteria di Stato “non ha tratto alcun dalle operazioni” svolte con le società di Crasso Hp Finance, Prestige e Sogenel, anzi come sottoscrittore di Centurion la Santa Sede ha goduto di una plusvalenza di 5,5 milioni di euro.

L’avvocato Panella sottolinea che non ci sono prove nemmeno della corruzione di Crasso e Tirabassi compiuta dal broker Raffaele Mincione, tra gli imputati, come sostenuto da Torzi (in una dichiarazione non utilizzabile nel processo) e il testimone Fabio Perugia, che riferisce accuse sentite da Alessandro Noceti e che “aveva solo l’interesso di prendere il posto di Crasso come consulente della Segreteria di Stato”.

L’avvocato nega l’accusa di autoriciclaggio. La società Aspigam, che veniva usata come veicolo ed era di proprietà del broker Simetovic e non di Crasso, ha ricevuto dal Fondo Athena 2 milioni 259 mila dollari americani, e 3,5 milioni di euro sono stati versati a Divanda, società di Crasso. Ma questa cifra sarebbe quelle delle commissioni da Credit Suisse attraverso Apsigam a Crasso, per la sua attività di introducer, esercitata dal 2014, una volta lasciata la banca svizzera da pensionato.

Le parti civili

Panella ha contestato anche le richieste di risarcimento delle parti civili. L’avvocato nota che la Segreteria di Stato ha chiesto 128 milioni di danni non patrimoniali, ma di immagine, sulla base di una perizia che era piuttosto – dice Panella – “una rassegna stampa del processo”. Dunque, il danno di imagine lo avrebbe fatto il clamore mediatico del processo, non le accuse. “È legittimo chiedere un danno – ha insistito Panella – se c’è un nesso di casualità diretto con i fatti che vengono contestati”.

Per quanto riguarda l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA), questa non sarebbe nemmeno intitolata a chiedere un risarcimento, perché l’eventuale perdita finanziaria riguardava la Segreteria di Stato, e solo successivamente le competenze amministrative furono trasferite alla Segreteria per l’Economia. Era un tema sollevato all’inizio del processo, anche se poi il presidente del Tribunale Pignatone aveva ammesso la presenza della parte civile APSA.

Lo IOR è addirittura arrivato a chiedere alla Segreteria di Stato i soldi versati come contributo volontario dal bilancio perché siano restituiti al Papa. Si tratta di un contributo dal profitto dello IOR, nell’ultimo bilancio definito dividendo, che ha sempre aiutato la Santa Sede a coprire il bilancio e che veniva dato dallo IOR senza vincolo di destinazione, versati alla Segreteria di Stato.

Panella sottolinea che quelli sono “soldi della Segreteria di Stato”, e “non erano sufficienti alla gestione della Curia Romana e che nulla dimostra che siano state investite a Londra”.

Nel corso della requisitoria, Panella ricorda anche che non sono mai stati usati soldi dell’Obolo di San Pietro, come era la narrativa iniziale, ma altri fondi.

Enrico Crasso

Al termine dell’udienza dell’11 novembre, Enrico Crasso ha voluto leggere una lunga dichiarazione spontanea. Rotto dall’emozione, ha ripercorso i passi della sua vita, la sua carriera, i suoi inizi da famiglia modestissima, e la sua crescita di “un ragazzo che si è fatto da solo”, passo dopo passo. Crasso ha rivendicato di aver sempre operato per la Segreteria di Stato e di aver fatto il massimo per il cliente.

Ora si trova anche con una richiesta del fisco svizzero, che ha valutato la sua società Sogenel dieci volte quanto ascritto a bilancio, e con fondi congelati che non gli permettono di ottemperare alle richieste delle autorità svizzere. L’avvocato chiede per lui l’assoluzione con formula piena, ma anche la revoca della confisca e, nel momento della sentenza, una rapida trasmissione della stessa alle autorità svizzere.

Postscriptum

«Abbagli, granchi, gravi pecche. Ma anche imbeccamenti calunniosi a certa stampa, leggi modificate a procedimento in corso (sempre in sfavore degli imputati), magistrati dell’accusa che non obbediscono al giudice, video di testimonianze censurati, verbali pieni di omissis, testimoni che ammettono d’essere stati manipolati (senza che si approfondisca per capire da chi e perché), interrogatori calendarizzati e poi cancellati, messaggi chat tenuti nascosti da chi dovrebbe cercare la verità, una pregiudicata che muove le pedine a proprio piacimento, promotori di giustizia indegni che non ne azzeccano una, giudici che approvano senza battere ciglio… E intollerabili interventi censori sul materiale probatorio. Perché? Cosa nasconde il Tribunale vaticano (che fra l’altro è pagato anche con l’Obolo di San Pietro)?
La cosa più grave – a mio parere – è accaduta nel gennaio del 2023: i Giudici, dopo averlo calendarizzato, hanno improvvisamente e inspiegabilmente cancellato l’interrogatorio della Chaouqui previsto per il 16 febbraio (già spostato una volta), nonché il confronto Chaouqui-Ciferri (richiesto dalle difese). In un articolo del 14 gennaio 2023 si legge un’affermazione di Chaouqui: “Io e il papa abbiamo un nostro modo di comunicare informazioni, e non lo spiegherò nei dettagli certo a voi” [QUI]. Parlava ai giornalisti che aveva convocato per il suo show, ma… in tribunale non si potrebbe pretendere che spieghi questo “modo di comunicare”? Chi faceva (o fa) da tramite tra Chaouqui e il Papa? Forse la stessa persona che gli portò L’Espresso prima ancora che arrivasse nelle edicole? E come mai il PdG Diddi ha effettuato macroscopici “omissis” nei messaggi intercorsi tra la Chaouqui e la Ciferri, nascondendone 120 su 126? E come mai i documenti pontifici e il materiale riservato della Santa Sede detenuti abusivamente dalla Chaouqui, trovati durante una perquisizione effettuata dalla Guardia di Finanza di Roma nel dicembre del 2020, non hanno ancora avuto conseguenze sul piano giuridico? Le contraddizioni emerse sono davvero troppe ed è necessario che tutte le parti dispongano di tutti i messaggi inoltrati dalla Ciferri, com’era necessario che potessero interrogare la Chaouqui, onde far emergere i retroscena e le motivazioni delle sue montature calunniose. Non adempiendo le condizioni minime per il giusto processo, la Giustizia vaticana – che in questo “incongruo processo, tignosamente perseguito oltre le ragioni e le regioni del diritto” (Filippo Di Giacomo), dimostra di non amare la verità – perde completamente la propria credibilità. E quanto sia importante essere credibili l’ha detto con la vita un magistrato serio e beato: Rosario Livatino.
“Guardatevi da coloro che creano l’atmosfera per un processo, qualunque esso sia. Lo fanno attraverso i media in modo tale da influenzare coloro che devono giudicare e decidere. Un processo deve essere il più pulito possibile, con tribunali di prima classe che non hanno altro interesse che salvare la pulizia della giustizia” (Papa Francesco)» (Andrea Paganini).

Indice – Caso 60SA [QUI]

Foto di copertina: Gustav Klimt, Nuda Veritas (dettaglio), 1899, Österreichisches Theatermuseum, Vienna. Si tratta di uno dei quadri a più alto contenuto simbolico di Klimt, che con quest’opera si scontra ancora una volta con il rifiuto da parte di una società borghese di Vienna, fissa su dei principi di repressione moralistica, che risente del clima culturale di stampo vittoriano. La donna, rivolgendo lo specchio verso lo spettatore, lo esorta a fuggire dalla menzogna, rappresentata invece dal serpente, che si trova ai suoi piedi. In questo senso, il dipinto rappresenta un’allegoria della guerra tra verità e menzogna, coerentemente con le intenzioni dell’artista.

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