Settantaseiesimo giorno del #ArtsakhBlockade. Il riconoscimento internazionale dell’Artsakh significa prevenire massicce violazioni dei diritti del popolo dell’Artsakh

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 25.02.2023 – Vik van Brantegem] I troll e gli ambasciatori dell’Azerbajgian continuano a diffondere fakenews esilarante sui social media, perché tutte le persone che detengono un’alta posizione sotto il regime di Aliyev devono ripetere la sua narrazione e menzogne o affrontare le conseguenze di essere gettate in prigione o giustiziati. La verità è che «oggi è il 76° del #ArtsakhBlockade illegale e disumano del regime di Aliyev. Le organizzazioni internazionali pertinenti hanno esortato l’Azerbaigian a rispettare l’ordine legalmente vincolante della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite di aprire il Corridoio di Lachin. Il regime di Aliyev ha ignorato gli appelli dal primo giorno, quindi dovrebbe essere costretta a farlo» (Tigran Balayan, Ambasciatore della Repubblica di Armenia nel Regno dei Paesi Bassi e nel Granducato del Lussemburgo).

I rappresentanti dell’Azerbaigian e dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh si sono incontrati sotto la mediazione del contingente per il mantenimento della pace russo e con i negoziati è stato raggiunto un accordo per riprendere la fornitura stabile di elettricità e gas all’Artsakh. Le linee di alta tensione che vanno dall’Armenia all’Artsakh sono state danneggiate il 9 gennaio di quest’anno e le forze armate azere che controllano l’area che attraversano non hanno permesso le squadre di riparazione dell’Artsakh di accedere nell’area.

Il Presidente dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev è in visita ufficiale in Turchia. Tra le cose in discussione ci sono le relazioni Armenia-Azerbajgian. Alcuni esperti prevedono che la Turchia possa declassare la sua capacità di politica estera nel Caucaso meridionale a causa di gravi problemi interni a seguito del devastante terremoto che ha colpito il paese il 6 febbraio di quest’anno. Oltre a questo, un’altra possibile modificazione della situazione geopolitica potrebbe venire da un nuovo governo non allineato con Erdoğan dopo le elezioni nel maggio di quest’anno, che potrebbe potenzialmente modificare le relazioni bilaterali tra Azerbajgian e Turchia.

Un’immagine da un filmato di CCTV mostra gli “eco-attivisti” che mantengono il blocco con le forze speziali dell’Azerbajgian che fiancheggiano il Corridoio Berdzor (Lachin) che connette l’Artsakh/Nagorno-Karabakh con l’Armenia e il resto del mondo.

Altre foto dal posto di blocco nel Corridoio di Berdzor (Lachin) nonostante la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite ha obbligato l’Azerbajgian a togliere il blocco.

Si è svolta il 24 e 25 febbraio 2023 una conferenza scientifica e pratica in occasione del 35° anniversario del movimento del Karabakh dal tema L’imperativo del riconoscimento internazionale della Repubblica dell’Artsakh a Yerevan, la capitale della Repubblica di Armenia, presso il Matenadaran, il cui nome ufficiale è Istituto Mesrop Mashtots di manoscritti antichi, un’istituzione culturale che custodisce una collezione di manoscritti antichi in lingua armena e in moltissime altre lingue. Si trova in cima ad un imponente viale che porta, come la stessa biblioteca, il nome di Mesrop Mashtots, celeberrimo inventore dell’alfabeto armeno. Per via del suo patrimonio, che conta più di 17.000 manoscritti e circa 100.000 documenti di archivio, medievali e moderni, si tratta di uno dei luoghi essenziali per l’elaborazione e la trasmissione della memoria nazionale in Armenia. Matenadaran, in armeno classico, è un termine polivalente, in quanto significa «biblioteca» ma qualifica anche un luogo che funge pure da scriptorium e dove, pertanto, veniva organizzata ed eseguita l’opera di trascrizione dei codici; in quanto tale, diversi monasteri armeni erano dotati di un loro matenadaran.

La conferenza si è svolta con la benedizione della Santa Sede di Etchmiadzin della Chiesa Apostolica Armena, in assenza del governo, con la partecipazione di organizzazioni e gruppi pubblici e politici attivi nella questione dell’Artsakh.

Durante l’evento, il Ministro degli Esteri della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, Sergey Ghazaryan, ha pronunciato un discorso di apertura in cui ha sottolineato che la comunità internazionale dispone di motivi giuridici, storici e politici sufficienti per il riconoscimento della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh. Il riconoscimento internazionale è sempre stato rilevante nell’agenda della politica estera dell’Artsakh, ha affermato. Al momento, ha proseguito il Ministro Ghazaryan, le autorità azere, bloccando per più di 70 giorni 120.000 abitanti dell’Artsakh, stanno tentando di attuare una politica di pulizia etnica. In effetti, questa politica criminale di Baku è stata confermata dalle sentenze della Corte Internazionale di giustizia, che ha registrato fatti di odio e discriminazione razziale nei confronti del popolo dell’Artsakh da parte delle autorità dell’Azerbajgian. In questo contesto, il riconoscimento internazionale della Repubblica di Artsakh è un mezzo per prevenire sistematiche e massicce violazioni dei diritti del popolo dell’Artsakh. A sua volta, l’entità dei crimini dell’Azerbajgian contro il popolo dell’Artsakh, commessi a livello statale, il programma criminale di pulizia etnica sono un’altra ragione per riconoscere l’indipendenza della Repubblica di Artsakh. Tenendo conto degli sviluppi geopolitici globali, ha proseguito il Ministro Ghazaryan, e delle nuove tendenze legali e politiche che sono apparse, oltre a una serie di altre questioni, il problema deve essere discusso dalla comunità professionale. A questo proposito, il Ministro Ghazaryan ha sottolineato l’importanza di unire le capacità professionali e di lobbying dell’Armenia, dell’Artsakh e della diaspora.

L’Artsakh sta affrontando cambiamenti molto seri, come accadde nel 1988, quando iniziò il movimento del Karabakh, ha detto l’ex Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, Ruben Vardanyan, alla conferenze attraverso una videocollegamento da Stepanakert.
Vardanyan ha detto che l’indipendenza viene prima di tutto dal desiderio del popolo e non dalle organizzazioni internazionali. «Sono stato in Artsakh negli ultimi sei mesi e posso dire con certezza che è così che pensa la maggior parte degli Artsakhiani, non possono immaginarsi nessun’altra opzione se non quella di essere indipendenti. Allo stesso tempo, abbiamo un problema, le persone hanno perso la fiducia in se stesse, la fede per la giustizia, la leadership e il futuro. È molto difficile lottare se non hai fede», ha detto Vardanyan.
«Trentacinque anni fa abbiamo discusso non solo della nostra indipendenza, ma anche dei nostri valori e principi, per i quali eravamo pronti e per i quali non eravamo pronti. Quelle erano domande molto serie, e non possiamo decidere la nostra strada verso il futuro senza rispondere.
È successo così che abbiamo un’Armenia indipendente, una diaspora, abbiamo 120.000 armeni che vivono in Artsakh, che vogliono unirsi all’Armenia, ma allo stesso tempo abbiamo un obiettivo che in questa situazione il primo passo che dobbiamo fare è portare il percorso dell’indipendenza e dell’auto-determinazione dell’Artsakh fino al suo legittimo completamento.
Questo percorso potrà essere percorso solo quando la questione del riconoscimento internazionale dell’Artsakh e dell’esercizio del suo diritto all’auto-determinazione diventerà il lavoro più importante e quotidiano per l’Armenia, l’Artsakh e la diaspora armena. Il Paese ha gravi problemi, e il più grave è quello della sicurezza, con problemi economici e sociali di cui tenere conto».
Vardanyan ha affermato che le difficoltà verranno superate solo quando questa sarà la priorità per tutti, ogni giorno. «E dopo aver trascorsi questi sei mesi, dopo aver acquisito questa esperienza, da un lato sono sicuro che abbiamo fondati motivi per cui l’Artsakh rimarrà armeno, l’Artsakh rimarrà indipendente e l’Artsakh non si arrenderà», ha detto Vardanyan.
Come 35 anni fa, l’attuale situazione in Artsakh richiede la mobilitazione della forza e dello spirito del popolo, ha affermato l’ex Ministro di Stato dell’Artsakh.
«Sono sicuro che l’indipendenza dell’Artsakh significhi non solo il riconoscimento internazionale, ma anche il nostro desiderio di continuare la nostra lotta, e siamo pronti a fare del nostro meglio per questo», ha aggiunto Vardanyan.
«Ognuno può avere la sua opinione, ma dobbiamo essere unanimi sull’Artsakh. Non abbiamo il diritto di perdere l’Artsakh. Dovremo affrontare seri problemi, ma sono sicuro che ce la faremo grazie agli sforzi congiunti», ha concluso Vardanyan.

L’ex vice ministro degli Esteri Shavarsh Kocharyan – che si era dimesso il 10 novembre 2020, durante la crisi politica causata dall’accordo di cessate il fuoco del Nagorno-Karabakh del 9 novembre 2020 – ha detto durante la Conferenza che le tragiche perdite del popolo armeno sono avvenute durante i periodi di cambiamento nel sistema delle relazioni internazionali e che ora siamo di nuovo nella fase dei cambiamenti nel sistema delle relazioni internazionali. Ha osservato che durante il cambiamento del sistema delle relazioni internazionali, le guerre iniziano senza dichiarazione e finiscono con un fragile cessate il fuoco. “L’accordo di pace è in realtà un’idea dei tempi antichi, e operava con il diritto della forza, quando in un trattato di pace il forte imponeva tutte le sue condizioni al debole. Oggi, quando dicono “trattato di pace”, Turchia e Azerbajgian sono guidati da questo. Successivamente, vengono applicati tutti quei meccanismi: pressioni politiche, diplomatiche, psicologiche, propagandistiche, il cui scopo è che tu sottometti la leadership dello stato opposto alla tua volontà, devono essere guidati dalla tua volontà. Successivamente, dovresti fare di tutto per dividere e demoralizzare le persone. Questo viene fatto prima di iniziare un’operazione militare. Tutto questo è vicino a noi, e in queste condizioni è ovvio che abbiamo bisogno di consolidamento, e dovrebbe essere intorno a obiettivi chiari. In questo caso, il riconoscimento dell’Artsakh diventa proprio quell’obiettivo, che è anche un incentivo per i due stati armeni a lavorare in modo più efficiente”, ha affermato Kocharyan.
In riferimento all’importanza del diritto all’auto-determinazione, Kocharyan ha detto: “Se la base del conflitto del Nagorno-Karabakh è l’autodeterminazione, allora l’aggressore è l’Azerbajgian, se non c’è auto-determinazione, allora l’aggressore è l’Armenia. Se rifiuti l’auto-determinazione, ti prendi la colpa dell’aggressore Azerbaigian. Nell’ambito della responsabilità dell’aggressore, esistono meccanismi di responsabilità, comprese le riparazioni finanziarie, materiali, del territorio sovrano. Ad esempio, oggi la Polonia chiede alla Germania 1,3 trilioni di euro di risarcimenti per la Seconda Guerra Mondiale. Ora immagina cosa ci succederà se l’Armenia venisse etichettata come aggressore. Implica anche l’individuazione e il perseguimento dei criminali di guerra, il controllo della vita interna, in modo che il revanscismo non alzi la testa. Immagina, il gruppo di Minsk ricomincia a lavorare, se non c’è il diritto all’auto-determinazione, allora di cosa si tratta? Oggi molte persone dicono che il gruppo di Minsk non funziona perché la Russia non lo vuole. E perché dovrebbe volerlo, se l’Armenia dice apertamente che rifiuta l’auto-determinazione? In altre parole, su cosa negozierà la Russia, sul fatto che le sue truppe non sono necessarie lì? Se definisci chiaramente i tuoi interessi e obiettivi, avrai alleati e potrai anche avere avversari. Se non lo fai, sei la monetina di tutti gli altri. Stiamo perdendo i nostri alleati e li perderemo fino a quando non dichiareremo chiaramente i nostri interessi”, ha affermato Kocharyan.
Per quanto riguarda le attuali autorità della Repubblica di Armenia, ha osservato: “Il gruppo di persone che è salito al potere ha il chiaro obiettivo di cacciare la Russia, e questo significa che la Turchia colmerà il vuoto”.

Il nostro attuale governo è pronto a rinunciare oggi al diritto all’auto-determinazione dell’Artsakh, ha affermato Avetik Chalabyan. “Le dichiarazioni fatte da loro a Praga e Sochi sono in realtà questo. Sono pronti a ridurre lo status dell’Artsakh come problema dei diritti della minoranza etnica in Azerbajgian e a parlarne apertamente. È una ritirata fondamentale rispetto a ciò che avevamo ottenuto come risultato di quella lotta. L’attuale governo giustifica le sue azioni con la sfavorevole situazione geopolitica e la sconfitta militare. Sta cercando di giustificare oggi che non c’è alternativa e la lotta per il riconoscimento internazionale dell’Artsakh mette in pericolo l’Armenia, che lascia aperti i confini tra Armenia e Azerbajgian e, nelle condizioni di supremazia di forze dell’Azerbajgian, può portare al fatto che perde i suoi territori e, alla fine, la sovranità dell’Armenia”, ha detto.
Chalabyan ha posto una domanda. “Tuttavia, la situazione è davvero così disperata, una momentanea situazione sfavorevole non può essere motivo per noi di voltare oggi con trepidazione questa pagina della storia e, di fatto, chiudere la storia della nazione armena? Sopportiamo il fatto che non abbiamo un futuro nazionale, che stiamo diventando una parte insignificante e senza volto della civiltà mondiale e continuiamo a vivere così. Abbiamo davvero esaurito le nostre forze? Ci siamo riuniti qui oggi per cercare di mettere in campo le nostre forze, per cercare di unire il nostro potenziale mentale. Dobbiamo trovare nuove idee, nuova forza, nuove soluzioni per continuare questa lotta. Dobbiamo porci le domande più profonde. La lotta per l’Artsakh è una lotta per il nostro essere”.

Il riconoscimento internazionale dell’Artsakh è un requisito da tempo, ha detto ai giornalisti il capo della frazione parlamentare di opposizione “Armenia”, l’ex ministro della Difesa Seyran Ohanyan. Ha detto che il fatto che l’Artsakh si trovi oggi in una situazione così difficile è il risultato del lavoro dell’attuale governo. L’intero potenziale diplomatico è stato praticamente distrutto, le “linee rosse” di cui parla costantemente l’opposizione sono state distrutte. «Durante il crollo dell’URSS, l’Artsakh si è auto-determinato sul suo territorio storico, come l’Armenia e l’Azerbajgian. Dobbiamo ammettere che l’Artsakh si è auto-determinato. La prossima linea rossa è che l’Armenia non ha il diritto di “lavarsene le mani”. L’Armenia ha l’obbligo di garantire lo sviluppo sicuro e stabile del popolo dell’Artsakh. L’opposizione deve fare di tutto affinché il governo non firma documenti che danneggeranno il nostro Stato», ha concluso Ohanyan.
Il politico ha anche toccato le dimissioni del Ministro di Stato dell’Artsakh, Ruben Vardanyan: «Questa decisione avrà conseguenze negative per Artsakh», ha sottolineato Ohanyan, aggiungendo che conosce Vardanyan come uomo d’affari e filantropo di successo e che osserva le sue attività in Artsakh principalmente da un punto di vista patriottico.

Destituire Ruben Vardanyan dal suo incarico è stato un passo riprovevole e sconsiderato, ha affermato il movimento socio-politico alternativo “Insieme” in una dichiarazione: « Il movimento politico-culturale alternativo “Insieme” esprime la sua profonda preoccupazione in occasione delle recenti azioni avviate dal Presidente della Repubblica di Artsakh. Il licenziamento di Ruben Vardanyan, Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh, su richiesta delle autorità azere, è un passo riprovevole e sconsiderato, che crea un pericoloso precedente per fare ulteriori concessioni distruttive e rinunciare alla sovranità della Repubblica di Artsakh sotto la pressione della politica genocida e offensiva attuata dalla parte azera. Durante i 112 giorni molto difficili del suo mandato, Ruben Vardanyan, insieme ai membri del governo, è riuscito a indicare modi autosufficienti ed efficaci per internazionalizzare la questione dell’Artsakh, sviluppare l’economia assediata, infondere speranza e fiducia negli armeni dell’Artsakh nella loro forza. In questo periodo difficile e responsabile del blocco genocida dell’Artsakh e della prigionia del popolo dell’Artsakh, quando le autorità armene non solo non adottano misure efficaci per fornire il necessario sostegno all’Artsakh, ma servono anche l’agenda dei paesi ostili, noi consideriamo inaccettabile e distruttivo una simile intromissione nella vita politica interna dell’Artsakh, da parte di un criminale internazionale dell’Azerbaigian, che è il risultato della repressione da parte del governo. Chiediamo a tutti i rappresentanti del governo della Repubblica di Artsakh, funzionari e dipendenti pubblici, di concentrare tutte le loro forze e capacità per la resistenza degli Armeni dell’Artsakh e la sopravvivenza dell’Artsakh come entità indipendente dall’Azerbajgian».

ArmInfo ha scritto in precedenza che le dimissioni di Ruben Vardanyan erano una richiesta dell’Azerbajgian e della Turchia. È interessante notare, ha osservato ArmInfo, che nel dicembre dello scorso anno, le fonti di informazione collegate al Presidente della Repubblica di Artsakh hanno riferito che i rapporti tra Arayik Harutyunyan e Ruben Vardanyan erano diventati tesi.

Il Primo Vicepresidente del Comitato della Duma di stato per gli affari della CSI, l’integrazione eurasiatica e le relazioni con i compatrioti della Federazione Russa, Konstantin Zatulin, ha collegato le dimissioni di Ruben Vardanyan alle pressioni della parte azera. In una conversazione con una emittente radiofonica, il parlamentare russo ha osservato che, giunto alla carica di Ministro di Stato, l’imprenditore “ha sollevato speranze tra la popolazione sofferente del Nagorno-Karabakh”, che ora sarà costretta a “votare con i piedi”, lasciando la regione: «Certo, lo valuto come conseguenza della pressione esercitata, prima di tutto, dall’Azerbajgian, non solo su Ruben Vardanyan e sul Nagorno-Karabakh, ma anche sulla parte armena in linea di principio, che non ha difeso Vardanyan. Sono molto dispiaciuto, perché l’apparizione di Vardanyan era importante non solo di per sé, ma anche perché dava speranza alla popolazione sofferente del Nagorno-Karabakh di non essere abbandonata, ha sollevato queste speranze e le sue dimissioni, ovviamente, danneggeranno questo e incoraggiare molti a votare con i piedi, cioè a lasciare il Nagorno-Karabakh, lasciando la terra dei loro antenati. Questo è un tragico risultato, non il primo nella storia del popolo armeno. Non voglio fare affermazioni personali a Vardanyan – probabilmente ha dovuto soppesare tutti i problemi prima di accettare questo incarico. A quanto pare, ha sottovalutato il grado di pressione su di lui».
La parte russa “si è lavata le mani” sul destino di Vardanyan, ha aggiunto Zatulin: «Vorrei sottolineare che qui puoi anche applicare la tua goccia di catrame alla Federazione Russa, a cui è stata rivolta all’infinito la richiesta di costringere Ruben Vardanyan a partire da lì. Dopo che Vardanyan ha rinunciato alla cittadinanza russa per diventare cittadino armeno, abbiamo avuto una risposta ufficiale che non avevamo nulla a che fare con Vardanyan, con i suoi piani. Credo che anche in questo caso abbiamo dato risposte formali e non abbiamo voluto litigare con la parte azera, ci siamo lavati le mani come Ponzio Pilato. Nel Caucaso, la posizione di chi si lava le mani in futuro, purtroppo, non porta benefici a chi si lava le mani. Ciò non ha rimosso i sospetti delle parti azera e turca, hanno continuato a insistere su questo e hanno persino collegato l’apertura del Corridoio Lachin alla condizione che Vardanyan avrebbe lasciato il suo posto. Questo requisito aveva in effetti un carattere semi-ufficiale. Penso che ora, dopo tutto quello che è successo, possiamo scoprire se è davvero così, se il Corridoio di Lachin verrà aperto, se i cosiddetti ecologisti dell’Azerbajgian, che, ovviamente, non sono ecologisti di alcun tipo, e vengono controllati da Baku, si ritirano».

Il Ministro degli Esteri dell’Azerbajgian, Jeyhun Bayramov, ha assicurato ancora una volta che l’Azerbajgian si sta battendo per l’instaurazione della pace e della normalizzazione nella regione in conformità con i principi del diritto internazionale relativi all’integrità territoriale e alla sovranità dei Paesi. Tuttavia, ha taciuto sul fatto che l’Azerbajgian interpreta questo diritto a suo piacimento, ignorando completamente i suoi principi fondamentali, tra cui il diritto all’auto-determinazione dei popoli e il diritto alla vita. Poi, come di consueto, ha accusato l’Armenia di aver silurato la normalizzazione. “Se l’Armenia vuole davvero raggiungere la pace, allora deve correggere il suo corso”, ha detto, minacciando di ritenere l’Armenia responsabile di presunti crimini di guerra contro l’Azerbajgian. Allo stesso tempo, Bayramov ha dimenticato che dallo scorso settembre il mondo intero è diventato testimone oculare dell’aggressione azera contro l’Armenia. Ci sono stati molti fatti di questa aggressione diffuso da account azeri sui social media, tra cui la tortura di un’infermiera militare armena e l’esecuzione di soldati armeni disarmati.

Un mese fa Suren Sargsyan ha pubblicato dati declassificati dagli organismi competenti americani riguardanti gli eventi intorno al Nagorno-Karabakh nei primi anni ’90. E lì si nota che i fatti del presunto massacro di Azeri da parte degli Armeni a Khojali non sono stati confermati. Cioè, questo è un altro fatto che contradice la narrazione azera sui tragici eventi di quei giorni. Va notato che la parte armena ha ripetutamente sottolineato che le stesse autorità azere hanno commesso la strage di civili per trasferire successivamente la responsabilità alla parte armena. Le autorità dell’Artsakh hanno ripetutamente affermato che prima dell’attacco a Khojali avevano lasciato un corridoio per la ritirata dei civili.

L’Azerbajgian conduce da diversi anni una campagna di disinformazione sui fatti di Khojali, anzi sul “genocidio” di Khojali come i media e le istituzioni azere amano definire la morte di alcune centinaia di civili nel 1992 in quella località del Nagorno-Karabakh. Già l’uso di questo termine suona “anomalo”; non solo per il numero di vittime (oltretutto in un contesto bellico) ma anche e soprattutto perché usato come accusa nei confronti di un popolo, quello armeno, che esso sì ha effettivamente subito un genocidio.

Khojali (oggi Ivanian), prima ancora che l’Azerbajgian scatenasse la guerra contro la neonata Repubblica di Nagorno-Karabakh, era diventata un avamposto dell’artiglieria azera che quasi quotidianamente bombardava la capitale Stepanakert da est mentre da ovest (e dall’alto) i colpi di mortaio arrivavano da Shushi.  Solo nel mese di febbraio 1992, a guerra appena iniziata, erano morti sotto i bombardamenti azeri più di duecentoquaranta Armeni. Con lo scoppio del conflitto Khojali è infatti divenuta la spina nel fianco per la difesa armena e uno dei primi obiettivi che essa si pone è quello di neutralizzare le batterie lancia missili Grad che morte e distruzione stanno arrecando alla popolazione.

All’epoca la cittadina di 6.000 residenti era abitata quasi esclusivamente da azeri e turchi meshketi (ossia provenienti dalla Meshketia nel sud ovest della Georgia) fatti affluire negli ultimi quattro anni dal governo azero fino a triplicare la popolazione residente nel quadro di una politica demografica finalizzata a diminuire la percentuale di Armeni della regione. Nonostante questo, le autorità della Repubblica di Nagorno-Karabakh, avendo come unico obiettivo il solo annientamento della postazione militare, preavvisano la popolazione riguardo l’imminente attacco e la invitano a lasciare la città.

Gli Armeni decidono così di agevolare la fuoriuscita della popolazione e di aprire un corridoio umanitario che la conduca in territorio azero, oltre confine. Una scelta di civiltà, pur nell’asprezza del conflitto, ma anche di tattica militare per consentire ai reparti armeni di avere campo libero e potersi concentrare unicamente sul nemico in divisa. Per una settimana le autorità di governo del Nagorno-Karabakh avvisano quelle municipali e la popolazione, ma l’invito non viene raccolto. Invero gli abitanti avrebbero volentieri lasciato Khojali e gli stessi funzionari locali ripetutamente si appellano a Baku perché favorisca l’esodo, ma dalla capitale dell’Azerbajgian arriva una secca risposta negativa: gli abitanti devono rimanere là dove si trovano; la teoria degli “scudi umani” trova dunque una delle sue prime applicazioni.

La sera del 25 febbraio 1992, i soldati armeni lanciano la preannunciata offensiva contro le postazioni avversarie e in cinque ore di combattimento riescono ad avere la meglio sul nemico. Decine di soldati nemici cadono, molti scappano nelle retrovie e si mescolano alla popolazione. Le batterie lanciamissili sono finalmente silenziate. Circa settecento sono i prigionieri e, secondo le fonti armene, si contano solo undici civili fra le vittime dell’attacco.

A quel punto la popolazione civile, e mescolati ad essa numerosi soldati in fuga, si riversa su quel corridoio umanitario che comunque gli Armeni avevano garantito. Questo percorso di fuga si dirige verso est, alla volta di Agdam in Azerbajgian. Poco oltre confine, in territorio azero, si sarebbe consumata la carneficina di civili. Precisamente nei pressi del villaggio di Nakhichevanik, fuori dal corridoio umanitario predisposto. Qui numerosi soldati azeri in fuga si sarebbero scontrati con forze di difesa locali, in territorio, come detto, fuori dal controllo della Repubblica di Nagorno-Karabakh.

Il 28 febbraio, ossia tre giorni dopo l’operazione militare su Khojali, giornalisti turchi e azeri filmano, in territorio azero, un numero imprecisato di cadaveri.

Il Presidente azero Mutalibov (che in un’intervista alla Nezavisimaya Gazeta il 2 aprile confermerà la notizia del corridoio umanitario lasciato aperto dagli Armeni) denuncia un  complotto contro di lui organizzato dal Fronte Popolare e ritiene i morti di Khojali un attacco al suo potere.

Due giorni dopo le prime riprese dei cadaveri, alti giornalisti vengono invitati a esaminare i corpi; l’organizzazione del “tour” non è perfetta e una giornalista ceca (Dana Mazalova) riceve per errore un secondo pass e si accorge quindi che molti dei corpi che aveva visto nei giorni precedenti sono stati “arrangiati” per mostrare un accanimento sulle vittime.

Il Fronte Popolare spinge per le dimissioni di Mutalibov a causa delle disfatte militari che l’esercito azero sta collezionando; il Presidente è costretto a dimettersi il 6 marzo. Poi poco alla volta il caso Khojali prende un’altra piega: con il passare dei mesi il numero dei morti aumenta fino a superare quota seicento nonostante non vi sia un solo scatto fotografico o un solo filmato che mostri più di qualche decina di cadaveri.

Da problema interno il massacro si trasforma in arma di propaganda e negli ultimi anni (a partire dal ventennale del pogrom anti armeno di Sumgait del 1988) l’Azerbajgian cerca di coprire le proprie responsabilità per i tanti eccidi prima e durante la guerra addebitando agli armeni il “genocidio” di Khojali.

La prima domanda che ci si deve fare parlando di Khojali è per quale motivo gli Armeni, dopo aver preannunciato per una settimana l’operazione e aver ripetutamente invitato la popolazione ad abbandonare la città avrebbero poi dovuto accanirsi contro gli abitanti in fuga?

Il secondo interrogativo è ancora più stringente: perché dopo un’operazione militare certamente non facile, costata impegno, fatica, e vittime anche fra le propria file, gli Armeni sarebbero dovuti andare a inseguire gli abitanti in fuga e colpirli in un territorio sotto controllo azero, a pochi chilometri di distanza dalle caserme di Agdam dove stazionavano centinaia, se non migliaia di soldati nemici? Che senso aveva tutto questo? Dopo cinque ore di combattimento, nel cuore della notte (la battaglia cominciò intorno alle 23 e si concluse verso le quattro della successiva gelida mattina di febbraio) perché mai gli Armeni avrebbero dovuto mettere a repentaglio ulteriormente le proprie vite per andare a inseguire qualche decina o qualche centinaio di civili in fuga?

Anche la dislocazione dei corpi a uno dei fotografi lascia aperti inquietanti dubbi sulla dinamica dei fatti. A parte la composizione “postuma” dei cadaveri, documentata dalla giornalista ceca, le poche immagini a disposizione sembrano confermare che le vittime siano state raggiunte da colpi d’arma da fuoco frontali. Quindi cerchiamo di capire: gli Armeni dopo aver conquistato le postazioni militari nemiche, si mettono all’inseguimento dei civili in fuga, li sopravanzano e in territorio controllato militarmente dal nemico a meno di venti chilometri dal quartier generale azero li fronteggiano (spalle all’esercito azero!) per farne fuori alcune decine… Che follia è questa? Eppure la propaganda azera, rilanciata dal cerchio magico di amichetti, questo afferma.

E ancora: perché tutti i giornalisti azeri che hanno provato a indagare a fondo sui fatti di Khojali sono stati arrestati o uccisi? Perché sui siti azeri dedicati a Khojali vengono postate foto che nulla hanno a che fare con tale località e che mostrano corpi di vittime di terremoti o di pulizie etniche nei Balcani? Domande rimaste senza risposta mentre la campagna sul “genocidio” di Khojali si ripropone ogni anno con gli stessi interpreti pronti a recitare il consueto mantra dei diritti umani, della verità storica e della giustizia per Khojali. Siamo solidali con loro. Non deve essere facile assumere posizioni serie ed accademiche su un argomento di cui si conoscono poco o nulla i dettaglia, solo per sentito dire, da fonte azera.

L’Azerbajgian aveva appena iniziata la guerra a fine gennaio dopo la proclamazione di indipendenza della Repubblica di Nagorno-Karabakh, le forze armene erano poche e mal equipaggiate, nessuno avrebbe scommesso un rublo sul successo di Stepanakert e il neonato stato sembrava destinato a essere spazzato via; e invece… I partigiani armeni avevano subito dimostrato di vender cara la loro pelle e che per la libertà di quel pezzetto di terra avrebbero combattuto fino alla morte; “pensavano che non saremmo stati capaci di prendere  Khojali e invece…”. Che suona molto diversamente da come gli Azeri cercano di far intendere la cosa.

Due mesi dopo a Maragha, piccolo villaggio della regione di Martakert quasi al confine con l’Azerbajgian, squadracce azere con la complicità di alcuni carristi russi compiono una strage di civili armeni: oltre una cinquantina sono decapitati, un centinaio viene rapito e di loro non si avrà più alcuna notizia. Il comandante del gruppo, Shanin Tagiyev, viene insignito a giugno del titolo di “eroe nazionale” dell’Azerbajgian; quindici anni più tardi il collega Safarov decapiterà a Budapest l’ufficiale armeno Margaryan. Stesso stile, stessa barbarie, stesso riconoscimento nazionale.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

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