Gli occhi letali dell’invidia. Desiderare il male di colui che ha il bene o la qualità che non si possiede

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Dalla fondazione del mondo, da Caino ai nostri giorni, l’invidia per la felicità altrui uccide. Il killer del Carrefour nel Centro Commerciale Mirafiori di Assago, Andrea Tombolini, ha detto di aver agito per una sorta di gelosia contro la gioia altrui. Come Antonio De Marco, che ammazzò i fidanzati vicini di casa. Ma fu Abele il primo a cadere. E oggi, l’invidia sperimentiamo ancora intorno a noi.

La Genesi – II libro della Genesi indica nell’invidia la più antica ragione per un assassinio: Caino non sopportava la preferenza che Dio manifestava per il fratello Abele. «Di che sorride Abele, se io sto male?».

Gli altri – Immaginiamo gli occhi di Antonio. Improvvisamente si accorge che non esiste solo lui, con la sua malattia. Deve aver sentito una parola allegra, forse uno zufolare. Alza gli occhi da terra. Li vede. Esistono gli altri! grande della vita, non per fanatismo ma per la dolcezza di quel che avevano ricevuto.

L’invidia, dal latino “in” (avversativo) e “videre” (guardare), guardare contro, ostilmente, biecamente o genericamente guardare male, quindi “gettare il malocchio”, si riferisce a una “emozione secondaria”, per cui, in relazione a un bene o una qualità posseduta da un altro, si prova dispiacere e astio per non avere noi quel bene e a volte un risentimento tale da desiderare il male di colui che ha quel bene o qualità. Non va confusa o compresente con la gelosia, che pur essendo simile all’invidia ne differisce perché riferita ad una possessività di carattere affettivo sentimentale. L’invidioso è una persona che vive senza amore e si nutre di odio.

L’invidia, che deriva dal desiderio di avere qualcosa che un altro possiede, è un’emozione complessa e ricca di sfumature: si può manifestare con tristezza, rabbia, frustrazione, depressione, sentimenti malevoli nei confronti della persona invidiata, insoddisfazione, fino a volere il suo annientamento. L’intensità di questi stati d’animo negativi e la difficoltà nel controllarli ha fatto sì che l’invidia sia spesso considerata alla stessa stregua di un pericoloso veleno.

Pensiamo alla descrizione che Dante fa degli invidiosi al Purgatorio nella Divina Commedia. Quando finalmente riesce a identificare i penitenti – figure spettrali appoggiate alla livida roccia, coperte da un panno ruvido dello stesso colore – il poeta scopre, commuovendosi fino alle lacrime, che questi hanno gli occhi cuciti con il fil di ferro. É attraverso la vista che viene punita l’invidia covata in vita con gli occhi letali.

E come a li orbi non approda il sole,
così a l’ombre quivi, ond’io parlo ora,
luce del ciel di sé largir non vole;

ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora.

(Dante Alighieri, Purgatorio, XIII, vv.67-72)

Giotto, Invidia, affresco, 120×55 cm, 1306 circa, parte del ciclo delle Virtù (parete destra) e dei Vizi (parete sinistra) che decorano la fascia inferiore delle pareti della Cappella degli Scrovegni a Padova. L’invidia fa bruciare l’invidiosa che denigra l’invidiato ma viene colpita dalla sua stessa malvagità. Il serpente della calunnia si rivolta contro di lei colpendole gli occhi.

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 29.10.2022 – Renato Farina] – La confessione dell’invidioso di Assago, Andrea Tombolini di 46 anni, è sincera. «Ho una malattia grave (un cancro allo stomaco, sostiene, ndr), devo morire. Volevo farla finita, poi ho visto quelle persone felici. Ho provato invidia e rabbia». E così invece di usare il coltello, preso dallo scaffale dell’Ipermercato Carrefour, contro sé stesso, lo ha scagliato contro cinque persone inermi. Omicidio e tentati omicidi. Ha piantato il ferro nella schiena o al torace di chiunque avesse un’ombra di gioia sul volto, non fosse solo come un cane ma, come nella canzone di Mogol-Battisti, raccontasse una storia comune, così comune che neppure ci accorgiamo coincidere con la felicità: «Una volta al mese… Spingere un carrello pieno, sotto braccio a te. E parlar di surgelati, rincarati. Far la coda mentre sento che ti appoggi a me».

Immaginiamo gli occhi di Andrea. Improvvisamente si accorge che non esiste solo lui, con la sua malattia mortifera, e il coltello che lo separa dalla propria morte. Deve aver sentito una parola allegra, forse uno zufolare. Alza gli occhi da terra. Li vede. Esistono gli altri! Perché quel tale cammina in quel modo unico di chi ha certo i suoi guai, ma è contento di stare al mondo, ama qualcuno, e spera di essere riamato, e invece io no? Che fare? Uccidersi? Prima pugnalo non la gente felice, ma la felicità stessa, che ha scelto di evitarmi e di guizzare altrove. Dopo quelle frasi sincere, Tombolini cerca di scansarsi dalla colpa, prova a scavare un fossato incolmabile tra i sentimenti provati e il brandire l’arma bianca fino ad uccidere e dice: «Mi sembra impossibile aver fatto quello che ho fatto». Quest’ultima dichiarazione sarà lo scudo fornito dall’assassino ai suoi difensori per farlo dichiarare incapace di intendere e di volere.

Abisso

Non sono psichiatra né ardisco ergermi a giudice della sanità mentale di quel vendicatore di tutti gli infelici del mondo, del resto vale la presunzione di innocenza, ed era in cura per depressione, che peraltro solitamente si dirige verso gesti estremi contro la propria vita, salvaguardando gli altri dal proprio abisso di buio. L’evidenza dice che A.T. è stato capace di intendere: ha inteso chiara come il sole la propria mestizia senza sbocchi in paragone insopportabile con la letizia silenziosa, della quale chi la porta con sé, sul volto, nelle mani, neppure si accorge, ma che pure esiste. Ecco sorgere come un geyser l’invidia. L’invidia è in sé stessa la prova della capacità di intendere. Ma anche di volere?

Il libro della Genesi indica nell’invidia la più antica ragione del mondo per un assassinio: Caino non sopportava la preferenza che Dio manifestava per il fratello Abele. Ma di che sorride Abele, se io sto male? Ne nasce rancore. Perché lui ha il bene, la gioia, ed io invece sono trafitto dal pungiglione del male e dal disprezzo di Dio? Ecco allora la scelta: faccio io giustizia, parifico le cose. E uccido l’uomo felice, fortunato, che cammina con la fronte alta. Anzi uccidendo Abele o il cassiere di Carrefour non ammazzo il singolo, non è un fatto personale, uccido la luce che ha evitato accuratamente me, per baciare sulla bocca chi non ne avrebbe più diritto di me.

L’invidia per Biancaneve della matrigna.

Guardare male

L’invidia, dal latino in-videre, significa guardar male. E la natura dell’uomo e della donna, come dimostrano le fiabe che sono archetipi dei sentimenti e dei comportamenti umani. (Chi è la più bella del reame? E Biancaneve. Va uccisa). Tra i sette vizi capitali, nella tradizione cristiana l’invidia è individuata come il peccato più pernicioso. L’istinto funziona maledettamente così. Spinge ad eliminare l’avversario più bravo o più fortunato. Ma esiste la libertà, accidenti. Il libero arbitrio. Da essa possono sgorgare due desideri opposti:

Sana

La sana invidia che porta all’emulazione, il voler essere come chi è inondato di qualità e per di più è persino buono di cuore. Dispiacersi di non possedere una grazia che l’altro ha, ma esserne attratti per condividerne il segreto, cercare un pretesto per berci un caffè in compagnia. E la santa invidia. E quella che ti fa da bambino ostinarti a esercitarti e ancora riprovarci per riuscire a palleggiare come Messi, vuoi diventare come lui, più bravo di lui: non è che ammazzi Messi. C’è la santa invidia. 11 cristianesimo si è diffuso così, sin dai primi decenni. Avevano la faccia di salvati, non erano più virtuosi degli altri, si volevano bene, accettavano di morire per un bene più.

Cattiva

L’invidia cattiva, biliosa, è purtroppo quella prevalente. Per fortuna – e ci mancherebbe – raramente trasforma il suo cultore nel Caino che ammazza Abele. Anche quando non versa sangue, spegne ogni gioia in te e in chi ti vuol bene. Toglie il fiato. Succhia in qualunque ambiente di lavoro odi convivenza il gusto di vivere. Odora di morte. Homo homini lupus. E talvolta, come accaduto ad Assago, il lupo sbrana gli inermi.

Questo articolo è stato pubblicato oggi su Libero Quotidiano.

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