Cosa sappiamo fino ad ora del processo 60SA al Tribunale dello Stato della Città del Vaticano? Poi, cosa dicono i silenzi di Report e L’Espresso sul giallo del palazzo al 60 di Sloane Avenue a Londra?

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Oggi e domani, 22 e 23 giugno 2022 si svolgono la 22ª e la 23ª udienze del processo al Tribunale dello Stato della Città del Vaticano sulla gestione di fondi della Segreteria di Stato, con un nuovo interrogatorio a Enrico Crasso. Riportiamo di seguito due contributi in riferimento a questa interminabile saga da Alice nel Paese delle Meraviglie. Con il tempo che passa il puzzle diventa sempre più chiaro.

  • Processo Palazzo di Londra, cosa sappiamo fino ad ora di Andrea Gagliarducci su Vatican Reporting, 22 giugno 2022: la versione italiana, leggermente adattata per ragioni linguistiche e ampliata, del testo Here’s what the Vatican finance trial has revealed about the London deal pubblicato dall’autore in inglese su Catholic News Agency l’8 giugno scorso [QUI]
  • Per la vendita dell’immobile la stampa accusò Becciu. Ma a processo nessuno sa se il Vaticano ci ha rimesso di Felice Manti su Il Giornale, 21 giugno 2022: “Canovacci buoni per un film alla Dan Brown. Non per un processo infinito senza prove. Con un colpevole già scritto. Che magari è pure innocente”.

El eterno proceso Becciu en el Vaticano. Es un tema que lleva más de dos años con nosotros y , según parece, está empezando. Mucho nos tememos que se estirará hasta el final del pontificado y se dejara morir. El guion estaba escrito desde el comienzo:  Becciu es culpable y debe ser condenado, le dio dinero a su hermano, robó fondos del Óbolo y  desangró las arcas del Vaticano con acciones sin escrúpulos. Estamos ante un «podrido sistema depredador y lucrativo» creado por «sujetos improbables, si no poco realistas» para aprovechar los recursos de la Santa Sede gracias también a «una complicidad y connivencia interna limitada pero muy incisiva».  Todo apunta a que estamos ante un mal relato de misterio en el que el único culpable es  el narrador es el culpable. Las defensas de los imputados ya hace tres meses solicitaron acceso a los documentos, pro ahora sin respuesta. No hay elementos fácticos documentados. Y todavía no sería suficiente para probar el crimen. Mientras permanece el misterio: quién ha iniciado la operación. Seguimos envueltos en fantasmas y chismes, mientras pocos saben la verdad, tal vez solo el Papa. Nos movemos en un  Vatileaks infinito, lleno de intrigas y ajustes de cuentas, enfrentamientos entre Becciu y Pell,  enemistades con el IOR, los Caballeros de Malta, la «vieja guardia» y los «Bergogliani». Una película sobre un  juicio interminable, sin pruebas, con un culpable ya escrito que en este caso, en otros quizás no, tal vez, por una vez, es inocente.

Processo Palazzo di Londra, cosa sappiamo fino ad ora
di Andrea Gagliarducci
Vatican Reporting, 22 giugno 2022


Gli interrogatori del broker Raffaele Mincione, che per primo ha gestito per la Segreteria di Stato il palazzo di Londra al centro di un intricato processo vaticano, hanno permesso di svelare in qualche modo il pensiero alla base di quello che è stato il disastroso “London deal” vaticano.

L’interrogatorio del broker italiano non solo non smentisce, ma fornisce ulteriori dettagli agli interrogatori del Cardinale Angelo Becciu, dell’altro broker Enrico Crasso, dell’ex officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, dell’ex officiale di Segreteria di Stato e segretario del sostituto don Mauro Carlino. Gli stessi interrogatori confermano il contenuto del memoriale di Edgar Peña Parra, sostituto della Segreteria di Stato, che decise i passi finali dell’affare, ovvero la presa di controllo della Segreteria di Stato.

Mincione ha parlato di fronte al tribunale il 6 e 7 giugno, con il supporto di 18 faldoni blu con documentazione varia. Sono state quasi 16 ore di interrogatorio complessive, introdotte da dichiarazioni spontanee di Mincione che rivendicavano la sua rispettata carriera nel mondo della finanza, che ha incluso, negli anni Novanta, anche una collaborazione con l’Istituto per le Opere di Religione.

Prima di addentrarci nei dettagli dell’interrogatorio, vale la pena allora fare un quadro generale di come l’operazione di Londra è maturata, seguendo la storia degli interrogatori resi finora. Si tratta di un quadro ancora parziale, ma che permette di fare luce anche sui meccanismi, anche psicologici, che hanno dominato la vicenda.

Tutto comincia nel 2012, quando viene proposto alla Segreteria di Stato, tramite l’allora sostituto Angelo Becciu, un investimento su una società di estrazione petrolifera in Angola, la Falcon Oil. La proposta viene da Antonio Mosquito, un imprenditore e benefattore della Nunziatura a Lwanda, che Becciu aveva guidato come ambasciatore del Papa per sette anni.

Becciu propone l’affare, ma senza fare pressione. “Se vale la pena, andate avanti, altrimenti non c’è problema”, dice. È una versione dei fatti confermata dagli interrogatori di Becciu, Tirabassi, Crasso, Mincione nell’ordine.

I fondi della Segreteria di Stato sono gestiti da Credit Suisse, e l’uomo di Credit Suisse che se ne occupa è Enrico Crasso. È un dato importante. La Segreteria di Stato affida fondi in gestione,  non li gestisce direttamente. Approva o disapprova gli affari, ovviamente. Vuole profitti. In generale, però, quando ci si affida ad un gestore, tutto è nelle mani di un gestore.

Crasso viene incaricato di studiare l’affare, ma non ha molte competenze sulle questioni di commodities. La sua agenzia Credit Suisse gli suggerisce di riferirsi alla filiale di Londra. Credit Suisse Londra introduce Raffaele Mincione, perché questi aveva avuto altre competenze pregresse sulle questioni di investimenti in società estrattive.

È il 2013. Mentre si studia la fattibilità del progetto, per cui si chiedono 200 milioni di euro, Mincione costituisce l’Athena Fund, dove vengono versati i fondi. Questo perché, una volta che si prenderà la decisione, i fondi potranno essere immediatamente a disposizione. Lo confermano sia Tirabassi che Mincione.

Il progetto di investimento in Angola, però, piano piano perde trazione. Inizialmente, Mosquito abbasse le esigenze di investimento a 100 milioni di euro, liberando così l’altra metà del fondo per altri investimenti. È il momento in cui si pensa di investire nel famoso immobile di Sloane Avenue.

Mincione ha spiegato che parlare del “palazzo di Londra” è improprio. Si trattava di un “progetto”, che prevedeva un investimento sull’immobile. Gli ex magazzini Harrods sarebbero stati convertiti in abitazioni, l’immobile sarebbe stato elevato di un piano e poi l’immobile sarebbe stato venduto con grande profitto, considerando che gli affitti in quella zona di Londra sono altissimi.

Era un progetto ampio, ha spiegato Mincione, perché la legge in Inghilterra prevede che, quando si cambia la destinazione di uso di un palazzo destinato ad uffici, si debba anche costruire un altro immobile per uffici, in modo da mantenere inalterata la pressione fiscale. Per gli uffici, infatti, si paga molto di più di tasse che per gli appartamenti.

Era anche un progetto che arrivava in condizioni favorevoli, perché tutti gli affittuari dell’immobile di Sloane Avenue terminavano i loro contratti di affitto, ha spiegato sempre Mincione.

È facendo tutte queste valutazioni che si concretizza l’idea di un investimento sul palazzo, con la parte del fondo che non viene utilizzata per l’operazione Falcon Oil.

L’operazione Falcon Oil, alla fine, naufraga del tutto. Lo stesso Mincione fa sapere che non ci sono le necessarie garanzie, mentre Tirabassi – lo ha spiegato nel suo interrogatorio – mette in luce che ci sono anche perplessità morali sull’investire nel petrolio in un momento in cui Papa Francesco sta pubblicando la Laudato Si. Da notare che Monsignor Alberto Perlasca, al tempo capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, è descritto come “molto determinato” ad andare avanti nell’affare.

Il Cardinale Becciu, invece, non compare più nelle interlocuzioni.  “Avevo fiducia nei miei collaboratori, dovevo averla, non potevo occuparmi di tutto”, ha detto il Cardinale nel suo interrogatorio

Restano dunque 200 milioni di euro da investire. Mincione si dice disponibile a restituirli alla Segreteria di Stato. Lo dice verbalmente a Crasso, che lo include in un rapporto inviato alla Segreteria di Stato e mostrato in tribunale dalla difesa di Mincione.

La Segreteria di Stato, però, decide di dare fiducia a Mincione. Questi cambia la destinazione del fondo Athena e lo impiega per rilevare le quote dell’immobile di Sloane Avenue, dando il via all’operazione. È un contratto di gestione cosiddetto lock up, che dura cinque anni estendibile di altri due in caso di una particolare disruption. Non si esce dal contratto, se non pagando penali. È ancora il 2013.

Credit Suisse approva l’investimento, mentre – dice Mincione nell’interrogatorio – “la Segreteria di Stato si rileva un investitore particolarmente inquieto”. Per Segreteria di Stato, si intende soprattutto Monsignor Alberto Perlasca, che è quello che, a detta di tutti, prende tutte le decisioni.

Mincione ha detto di non aver mai avviato i lavori per Sloane Avenue, ma di aver avviato quelli dell’altro edificio ad uso ufficio che si sarebbe dovuto costruire come compensazione del cambio di destinazione d’uso. Di fatto, non c’è modo di far partire l’investimento, e poi arriva la Brexit, che è una chiara disruption. Dunque, si dovrebbero garantire i due anni aggiuntivi. Ma la Segreteria di Stato, insoddisfatta del rendimento, decide di cambiare gestione.

Mincione ha raccontato che già nel febbraio 2018 comincia a capire che la Segreteria di Stato è insoddisfatta del rendimento, sente pressioni per cedere le quote dell’immobile, e si mette in moto per soddisfare il cliente. Il prezzo di acquisto possibile è di 350 milioni di euro, considerando il progetto, non lo stato del palazzo.

E gli acquirenti ci sono. Arriva anche una offerta di 350 milioni di euro della Invest, una società di Luciano CapaldoCapaldo è, al tempo, socio di Gianluigi Torzi, che Mincione ha conosciuto a fine 2017. “Aveva l’ufficio dall’altra parte della strada, a volte lo vedevo nelle pause, prendendo una boccata d’aria. Torzi ha presentato migliaia di progetti, qualcuno lo ho letto, pochissimi forse ne ho approvati”, dice Mincione.

Verso la seconda metà del 2018, Torzi diventa l’uomo della Segreteria di Stato per rilevare le quote dell’edificio di Sloane Avenue. Spiega che saprà convincere Mincione a cedere le quote, propone una nuova gestione in cui le quote vanno ancorate ad una sua società, la GUTT.

Il 20 novembre 2018, negli uffici di Mincione a Londra, siedono da una parte Mincione, e dall’altra Torzi, Tirabassi, l’avvocato Manuele Intendente e il broker Enrico Crasso. Crasso ha lamentato di essere stato coinvolto nella questione, ma di non essere mai voluto andare, e che anzi “andare a quell’incontro è stato il più grande errore della mia vita”. Tirabassi ha detto che era in costante contatto telefonico con monsignor Perlasca, e che lo stesso Perlasca gli ha detto che sarebbe stato Torzi a rappresentare gli interessi della Santa Sede. Tutti hanno confermato che la Santa Sede non avesse un legale che la rappresentasse in quell’incontro.

C’era, è vero, l’avvocato Intendente. Ma – ha detto Mincione – “pensavo fosse il capo della Gendarmeria. Si è seduto in fondo, senza parlare mai, con uno sguardo un po’ torvo che mi confermava l’idea che fosse un poliziotto”.

Mincione è delusissimo del fatto che gli viene tolto il controllo del palazzo, cui era affezionato anche perché “lo vedevo ogni giorno sulla strada del lavoro. Era un trophy asset per me, uno di quegli immobili che vuoi davvero sviluppare”. Ritiene che si sarebbe dovuto arrivare alla fine del contratto. Deluso, lascia ai suoi legali il compito di sviluppare l’accordo di uscita dalle quote. “Potevo chiedere qualsiasi prezzo, potevo rifiutare, ma ho lasciato andare”, ha detto.

Entra qui in scena Torzi, dunque. Torzi destina alla Segreteria di Stato la quasi totalità delle azioni e ne mantiene mille. Ma sono le uniche mille con diritto di voto.

Né Tirabassi, né Crasso sanno che quelle azioni sono quelle effettivamente con diritto di voto.

Quando Monsignor Perlasca se ne rende conto, vuole denunciare, e lo ha detto chiaramente anche in delle interviste rese prima di diventare un cosiddetto “super testimone” al processo. Una denuncia, però, potrebbe essere controproducente. Ci sono dei contratti, e i contratti vanno rispettati.

A metà del 2019, l’arcivescovo Peña Parra viene nominato sostituto e si trova nelle mani una situazione particolarmente intricata. Decide di prendere in mano la situazione, e la soluzione più logica è di acquisire direttamente l’immobile, tagliando i contratti con gli intermediari e così permettendo alla Segreteria di Stato di investire direttamente.

Nel frattempo, Capaldo è diventato un consulente per la Segreteria di Stato. La sua difesa sostiene che ha tagliato tutti i contatti con Torzi. Mincione dice che, dopo l’offerta per l’acquisizione dell’edificio portata con la sua società, Capaldo è arrivato con un’altra offerta di 350 milioni, rappresentando un certo Sheikh Salah. Anzi, il fatto che la Santa Sede gli tolga la gestione dell’immobile lo fa sospettare – dice – che questi abbiano deciso di rivendere poi a Salah per intascare la plusvalenza. Non sarà così.

Quello che Peña Parra eredita è comunque un mondo di reciproci sospetti. Monsignor Carlino ha detto durante il processo che è stato messo sotto controllo Giuseppe Milanese, il Presidente della cooperativa sanitaria OSA che il Papa coinvolge nella mediazione per convincere Torzi ad uscire dall’affare. Crasso ha detto che gli fu chiesto di trovare, nel fondo della Segreteria di Stato, anche 6 milioni di euro da destinare alle cosiddette cartolarizzazioni delle quote sanitarie di Milanese.

Peña Parra, lo ha detto Carlino, mette sotto osservazione anche il Direttore Generale dello IOR Gianfranco MammìLa Segreteria di Stato ha chiesto allo IOR un prestito per poter rilevare il mutuo che è acceso sul palazzo e rinegoziarlo. Lo IOR ha detto sì, con nota ufficiale. Poi, improvvisamente, ha ritirato la disponibilità. Mammì ha fatto una segnalazione al revisore generale, che ha poi fatto partire l’indagine.

Da qui, le perquisizioni in Segreteria di Stato e nell’Autorità di Informazione Finanziaria, il processo sommario deciso dal Papa, e questo processo che ora si sta celebrando in Vaticano. Mincione ha sempre sottolineato che il suo rapporto era con Credit Suisse, e non direttamente con la Santa Sede. “Non capisco perché io sono qui e non Credit Suisse”, ha detto.

L’andamento degli interrogatori sta creando più domande che risposte, anche sulle risultanze delle indagini del promotore di Giustizia. Si deve ricordare che nel processo vaticano gli imputati sono interrogati, non danno testimonianza. Non giurano di dire la verità. È ammesso che possano mentire per difendersi. Dunque, la ricostruzione viene da dichiarazioni di parte.

Colpisce, però, che tutte le dichiarazioni, con varie sfumature, si tengano. E così, si comincia a ricostruire un puzzle che ha i contorni ancora sfumati, ma che diventa sempre più chiaro.

I silenzi di “Report” e “Espresso” sul giallo del palazzo di Londra
Per la vendita dell’immobile la stampa accusò Becciu. Ma a processo nessuno sa se il Vaticano ci ha rimesso
di Felice Manti
Il Giornale, 21 giugno 2022


Il canovaccio era già scritto: il Cardinale Angelo Becciu è colpevole e va condannato. Ha dato soldi al fratello, ha sottratto fondi all’Obolo di San Pietro, ha dissanguato le casse vaticane con azioni spregiudicate come l’operazione sull’ex magazzino di Harrod’s nel palazzo di Sloane Avenue 60 a Chelsea, quartiere posh di Londra. Un «marcio sistema predatorio e lucrativo» messo in piedi da «soggetti improbabili se non improponibili» per attingere alle risorse della Santa Sede grazie anche a «limitate ma assai incisive complicità e connivenze interne». Quali? Bisognerebbe chiederlo agli attori sul palco del processo in Vaticano, che avrebbero dovuto recitare bene le loro battute, come da copione. La commedia dell’arte, si sa, riserva sempre qualche sorpresa a chi come il Giornale, a scapito di un finale già scritto, si è seduto in poltrona a guardare lo spettacolo.

Così ciò che doveva essere, non è stato. Chi doveva dire, non ha detto. Chi doveva provare, non ha provato nulla. Chi doveva confermare, ha smentito. È come quando in un giallo di Agatha Christie l’io narrante è il colpevole. Quanto è costato, ad esempio, il palazzo di Londra a Sloane Avenue? La causa del più clamoroso processo mai fatto in Vaticano è priva di un’informazione fondamentale. Tutte le difese degli imputati già tre mesi fa hanno fatto richiesta di accesso agli atti. Risposta: nessuna. E sentendo parlare i protagonisti delle vicende (sul Palazzo di Londra e non solo) la nebbia, anziché diradarsi, si infittisce.

Chi conosce le segrete stanze vaticane ammette che anche Papa Francesco è rimasto sorpreso. Lui che con «un’azione tanto eclatante e praticamente senza precedenti», come ricorda il vescovo francescano Gianfranco Girotti, chiese e ottenne il 24 settembre di due anni fa la rinuncia di Becciu ai diritti connessi al cardinalato sulla base di presunte «informazioni precise e riservatissime». Ora, con le novità emerse dal processo in corso da quasi un anno, il Pontefice «adesso sa» che l’ex potente monsignore aveva un rapporto fondato sulla fiducia delle indicazioni degli uffici tecnici della Segreteria di Stato guidati da Monsignor Alberto Perlasca. Capo ufficio, vero e proprio decisore su ogni profilo di merito secondo la difesa di Becciu, Perlasca però è rimasto fuori dal processo. Più le udienze offrono contributi, meno si spiega perché non sia al banco tra gli imputati. Con l’andare avanti dell’istruttoria, insomma, il racconto dell’accusa sembra faccia sempre più acqua. Da tutte le parti. Il Presidente del Tribunale, Giuseppe Pignatone, magistrato di esperienza ultradecennale (le cui intuizioni sulla Mafia Capitale a Roma hanno trovato conferme solo «postume», ed è un peccato), deve fare i conti in aula con le frequenti e a volte stizzite reazioni del Promotore di Giustizia Alessandro Diddi e alle veementi proteste degli avvocati che spesso costringono il Tribunale a frequenti interruzioni per placare gli animi. La colpa è tutta dei giornaloni: avevano già preparato la croce per inchiodare Becciu, ingannando i propri lettori. Ma oggi tacciono, forse di vergogna. Se guardiamo al famoso Palazzo, Becciu non può certo pagare gli errori commessi dopo che era stato sostituito alla Segreteria di Stato. Nessuno dice che nella vendita del Palazzo di Londra tutto sia stato fatto nel migliore dei modi. Né che la gestione degli investimenti fosse irreprensibile (ma anche il contrario è tutto da dimostrare). C’è stata una perdita? Non ci sono elementi di fatto documentati. E non sarebbe comunque sufficiente a dimostrare il reato. Mentre resta il mistero: chi aveva intavolato l’operazione, come Perlasca, avvalendosi di consulenti e mediatori sconosciuti a Becciu, è stato prosciolto da tutte le accuse.

E si continua a parlare del «caso Angola». C’è voluta la deposizione del finanziere Raffaele Mincione per scoprire quello che si sapeva già. Becciu aveva chiesto all’Ufficio di valutare l’eventuale convenienza dell’operazione relativa allo sfruttamento di un giacimento petrolifero. Ricevuto un report negativo, decise di non dar luogo all’operazione. «Tutto provato documentalmente» dicono i legali Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo. Eppure L’Espresso, per primo a sparare su Becciu («un’inchiesta giornalistica che farà epoca»), aveva promesso la rivelazione di uno squarcio di verità «sullo scontro di potere gigantesco nel cuore della Chiesa, sul tradimento del messaggio di Papa Francesco, sul tentativo di un gruppo di sodali di impossessarsi di quanto c’è di più caro ai fedeli». Cosa resta di queste roboanti promesse? Nulla. Anche Report, che ha seguito il solco del settimanale, ha impasticciato veline e veleni in una narrativa preconcetta e unilaterale che ha ignorato le plurime ricostruzioni, accostando Becciu a fatti mai avvenuti e ampiamente smentiti come le fantomatiche richieste di denaro dalla Congregazione per le Cause dei Santi nel giugno del 2018 (il cardinale, tanto per dirne una, arriverà solo a settembre). E guarda caso proprio il Papa in questi giorni ha voluto mandare un messaggio ai giornali «convulsi, nelle mani di tutto un mondo di comunicazione, che o dice la metà, o una parte calunnia l’altra, o una parte diffama l’altra, o una parte sul vassoio offre degli scandali perché alla gente piace mangiare scandali, cioè mangiare sporcizia». A giorni si tornerà in aula, a inseguire i fantasmi e le maldicenze, mentre la verità la sanno in pochi. O forse solo il Papa.

In questa infinita Vatileaks, come la chiama Andrea Mainardi, ci sono anche gli scontri tra Becciu e George Pell, accusato ingiustamente di pedofilia ma mai umiliato pubblicamente come Becciu. Ci sono le faide con lo Ior, i Cavalieri di Malta, la «vecchia guardia» e i «bergogliani». Canovacci buoni per un film alla Dan Brown. Non per un processo infinito senza prove. Con un colpevole già scritto. Che magari è pure innocente.

Foto di copertina: un’udienza al Tribunale vaticano del 31 maggio 2022 (Foto di Vatican Media).

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