La superiorità morale. Il virus che Enrico Berlinguer ha iniettato alla politica
Tutti celebrano l’anniversario della nascita dello storico Segretario del Partito Comunista Italiano (PCI), ma Enrico Berlinguer fu il padre di Mani pulite e dei Grillini. Parlava di etica e intascava rubli dall’’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Uno ha il dovere di inchinarsi davanti alla resistenza da guerriero antico. È la moralità della politica. Morire per l’idea. Ma uccidere la reputazione degli altri resta un delitto anche se muori da eroe.
Il 25 maggio scorso è stato il centenario della nascita di Enrico Berlinguer. È stato celebrato ovunque sotto l’insegna palpitante della nostalgia. Avvertenza. Siamo qui a rovinare, educatamente però, la festa. Non ci riusciremo, lo sappiamo da prima: siamo una vocina che si disperderà nel coro trionfale. Ma ci prendiamo la soddisfazione di desacralizzare, con un paio di petardi fornitici a suo tempo dal Gattosardo, il clima da alba rugiadosa che pare essere di precetto per la circostanza. Ecco la coppia di frasi dettatemi da Francesco Cossiga, il quale portava ancora i segni, a un passo dalla morte, delle pugnalate subite dal cugino:
1) “Di Berlinguer non posso dire figlio di buona donna perché la madre era mia zia”.
2) “Berlinguer aveva la fissazione moralistica”. Ma la applicava altruisticamente solo agli altri.
Ma certo. Berlinguer è stato la rovina di questo Paese, inquinando con poche sciagurate mosse sia la politica sia la morale. Istituendo il dogma della superiorità morale del Partito Comunista e in generale della sinistra. Eleggendo a suprema categoria politica, dopo il compromesso storico, la “questione morale”. E ad avere in mano il vaglio non poteva che essere il Partito comunista, dividendo i giusti dai corrotti, chiamando come una chioccia intorno a sé “gli onesti”, con il sostegno dei quali ripulire l’Italia dai dirigenti degli altri partiti, tutti corrotti. Una giravolta tattica.
Dopo l’ascesa che pareva irresistibile dei consensi a metà degli anni 70 (era diventato segretario dopo Luigi Longo nel 1972), l’elettorato gli stava voltando le spalle, il sodalizio con la DC non rendeva più, ed ecco il rinnegamento. Si era illuso di consumare la DC, di inghiottirsela grazie alla inerzia della storia che andava a sinistra. Fiasco. Improvvisamente si era accorto di essersi lasciato ingannare da una congrega di mascalzoni. Pose insomma (ed era il biennio 80-81) le premesse teoriche e propagandistiche del giustizialismo forcaiolo (e dunque di Mani Pulite) e dell’anti-politica, quindi è lui, il vero padre (ig)nobile – in tutti i sensi – del grillismo e del contismo.
La dichiarazione
Perché nessuno lo ricorda? Carta canta. L’occasione è il terremoto in Irpinia del novembre 1980. Sull’Unità del 7 dicembre si annuncia la svolta con una intervista ad Alfredo Reichlin. Berlinguer spiega la sostituzione della politica con l’etica: “La questione morale è diventata la questione politica prima ed essenziale… non possiamo più chiedere al Partito Comunista di logorare il suo grande, intatto, prestigio politico-morale in un’azione di appoggio subalterno a questa DC… fra le masse dei credenti è diffusa la riprovazione verso la corruzione nella DC”. Ma non siamo ancora alla dichiarazione ufficiale della superiorità morale. Accade con l’intervista di Eugenio Scalfari del 31 luglio 1981, poi riedita, negli anni seguenti, con qualche aggiunta, come vero e proprio manifesto del partito dell’onestà nel 2012, pro Cinque Stelle. Citiamo le frasi di E.B. equivalenti a sassate contro il prossimo e a ghirlande di fiori intorno alla propria testa: “Noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri. I partiti hanno degenerato, quale più quale meno, recando danni gravissimi allo Stato. Ebbene, il Partito comunista italiano non li ha seguiti in questa degenerazione. A noi hanno fatto ponti d’oro, la DC e gli altri partiti, perché abbandonassimo questa posizione d’intransigenza e di coerenza morale e politica. Ci hanno scongiurato in tutti i modi di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al banchetto. Abbiamo sempre risposto di no. Se l’occasione fa l’uomo ladro, le nostre occasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non siamo diventati”. (La questione morale. La storica intervista di Eugenio Scalfari. Roma, Aliberti, 2012, pp. 33–5).
La giustificazione ideologica di Mani pulite nasce da queste parole, da quella creduta e falsa dichiarazione di purezza, viene l’epurazione del Pentapartito, e la salvezza degli allora PDS. Il pool sarà incoronato come implementazione dell’idea berlingueriana di “questione morale” tradotta in manette. A sostenerlo furono, a riprova dell’ideologia forcaiola inaugurata da E.B., i “ragazzi di Berlinguer”, così definiti nel libro di Umberto Folena. E – altrettanto non a caso – l’idea squamosa dell’alleanza tra PD e M5S cos’è se non suggello berlingueriano postumo all’alleanza degli onesti.
Alessandro Natta, allora vice di E.B., in privato aveva commentato così le parole del Segretario: «Le cose sono dette in modo irritante: gli altri sono ladri, noi non abbiamo voluto diventarlo! C’è una verità sostanziale, ma il tono è moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri».
Da puri? Da sepolcri imbiancati. Il PCI era il partito più sporco di tutti. Qui non si parla di arricchimenti individuali, ma di falsificazione del gioco democratico, grazie a finanziamenti colossali ottenuti da Mosca o tramite mediazioni import-export. La quantità è di circa 500 milioni di dollari, secondo le carte analizzate negli archivi da Valerio Riva e Francesco Bigazzi. Il tutto comprendeva un’”assistenza fraterna” reciproca: cioè l’aiuto alla penetrazione di spie fino alla formazione di una vera e propria quinta colonna sovietica protetta da Botteghe Oscure.
La politica degli onesti con Berlinguer era questa miseria di doppia morale. Mentre proclamava il primato dell’etica, chiedeva i soldi a Mosca per finanziare la sua propaganda sulla moralità. La tangente sul lavoro dei detenuti nel gulag sovietico. Complimenti.
Invece di enunciare queste verità, si celebra il mito dell’eroe. Si somministra l’incantamento di massa, grazie a frammenti televisivi che sono icone di un paradiso perduto, trasfigurazione mediatica del taumaturgo, colui che se non fosse morto avrebbe risanato l’appestata Italia.
Come un eroe?
In tutti questi anni, ed anche il 25 maggio scorso, è stata riproposta la tragica sequenza del decesso del segretario del PCI. La potenza delle immagini traballanti e la magia dei commenti commossi è tale, che è come se Berlinguer, deceduto 38 anni fa, morisse sempre di nuovo per noi italiani, centomila volte, su quel palco di Padova dove stava tenendo un comizio, e stava male, barcollava, il cervello gli si apriva in due, ma non voleva arrendersi, finché cadde come corpo morto cade. Uno ha il dovere di inchinarsi davanti a questa resistenza da guerriero antico. È la moralità della politica. Morire per l’idea. Ma uccidere la reputazione degli altri resta un delitto anche se muori da eroe.
Le due pugnalate a Cossiga inferte dal cugino
L’aver fatto pesare su di lui, su Andreotti e su Paolo VI l’assassinio di Aldo Moro, che invece fu liquidato dalla sentenza – si legga Leonardo Sciascia – che il segretario del PCI pronunciò alla Camera un’ora dopo il rapimento quando incise una lapide per il morituro: “Il grande statista”, seppellendolo. Moro che lo capì, non gli scrisse dalla sua prigionia neppure una lettera, neanche un rigo, lo conosceva, accusò l’amico Francesco di essersi lasciato ipnotizzare dal cugino Enrico di cui aveva soggezione sin dall’infanzia.
La seconda coltellata è stata quando Berlinguer usò con cinismo la pietas di Cossiga per costringerlo alle dimissioni: Francesco aveva detto una parola innocua e umanissima a Donat-Cattin sul figlio di quest’ultimo, Marco, ricercato per terrorismo. Ah, la moralità comunista.
Questo articolo è stato pubblicato ieri, 26 maggio 2022 su Libero Quotidiano.