La liturgia tradizionale ridotta al rango d’«abuso»

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Condividiamo da Res Novae – Perspectives romaines del 1° febbraio 2022 [QUI].

Uno dei motivi secondari dell’irritazione provocata dal motu proprio Traditionis custodes e dalla risposta ai successivi dubia da parte della Congregazione per il Culto divino consiste nella simmetria ch’essi stabiliscono tra la liturgia tradizionale da una parte e gli abusi liturgici nel nuovo ordo dall’altra. Il che significa innanzi tutto che il vetus ordo in sé si vede ridotto al rango alquanto disprezzato di abuso, di cattivo utilizzo della lex orandi: e ciò si comprende, qualora si accetti con l’art. 1 ch’esso non ne sia espressione.

La seconda ragione dell’irritazione consiste nel fatto che la denuncia degli abusi liturgici nella celebrazione dei sacramenti, in primo luogo della messa, secondo i libri liturgici emanati da Paolo VI, rappresenta un topos proprio sin dalla loro promulgazione, al contempo irrisolto e, pare, insolubile. Ciò che, oggi come ieri, pone i fedeli legati all’usus antiquior in una situazione inestricabile. In effetti, si sostiene, l’attaccamento alla liturgia antica, in molti casi, deriverebbe da quanto in numerose situazioni non si celebra in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma che viene inteso come un’autorizzazione o addirittura un obbligo ad esser creativi, il che conduce spesso a distorsioni al limite del sopportabile» (lettera d’accompagnamento a Traditionis custodes, citando Benedetto XVI). Per difetto o per dispetto, si sarebbe rimasti o si sarebbe tornati al Messale antico. Ma ci si stupirà del fatto che non siano state sistemate le situazioni scabrose, servendosi della pedagogia, delle ammonizioni… o delle sanzioni adeguate! È in effetti curioso che un papa possa lamentarsi così circa cinquant’anni dopo la riforma liturgica e dopo che ciascuno dei suoi predecessori aveva già tenuto discorsi simili. Dunque, come, nel contesto di un simile argomento, rimproverare al Messale antico di continuare ad esistere? E soprattutto, dovendo venir prima di tutto la salvezza delle anime, come si può osare privare i fedeli del loro diritto di recarsi laddove più sicuro sia quanto concerne la loro salvezza, mediante i suoi mezzi eminenti che sono i sacramenti, dal momento che non si fa nulla – osiamo dirlo -, fuorché ripetute dichiarazioni, per rimediare alla situazione tuttavia denunciata?

Mezzo secolo di denunce vane degli abusi liturgici

Effettivamente è davvero considerevole l’elenco di queste dichiarazioni solenni e risolute, espresse dai pontefici romani contro gli abusi. Già Paolo VI, in un’allocuzione al Consilium il 19 aprile 1967, ammoniva contro le «forme arbitrarie», le «velleità d’esperimenti stravaganti». Giovanni Paolo II moltiplicò gli appelli ed i richiami all’ordine:

  • Lettera Dominicæ Cenæ (24 febbraio 1980): «La subordinazione del ministro, del celebrante, al “Mysterium”, che gli è stato affidato dalla Chiesa per il bene di tutto il popolo di Dio, deve trovare la sua espressione anche nell’osservare le esigenze liturgiche relative alla celebrazione del Santo Sacrificio. Tali esigenze riguardano, ad esempio, l’abito ed, in particolare, i paramenti, che indossa il celebrante. (…) Vorrei chiedere perdono – a nome mio e vostro a tutti, venerati e cari Fratelli nell’episcopato – per tutto ciò che, a causa di qualche umana debolezza, impazienza, negligenza che sia ed egualmente a causa di un’applicazione talvolta parziale, unilaterale, erronea delle prescrizioni del Concilio Vaticano II, possa aver suscitato scandalo e disagio riguardo l’interpretazione della dottrina e della venerazione, che è dovuta a questo grande sacramento».
  • Lettera Vicesimus quintus annus (4 dicembre 1988).
  • Enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003).

Quest’ultimo testo è stato seguito, su richiesta del papa, da un lungo ed assai dettagliato documento della Congregazione per il Culto divino, l’«Istruzione Redemptionis Sacramentum su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia» (25 marzo 2004). Nel preambolo si è segnalato come il lavoro sia stato realizzato in collaborazione con la Congregazione per la Dottrina della Fede; e questo stesso preambolo affermava con forza: «Non si possono passare sotto silenzio gli abusi, anche della massima gravità, contro la natura della Liturgia e dei sacramenti, nonché contro la tradizione e l’autorità della Chiesa, che non di rado ai nostri giorni in diversi ambiti ecclesiali compromettono le celebrazioni liturgiche. In alcuni luoghi gli abusi commessi in materia liturgica sono all’ordine del giorno, il che ovviamente non può essere ammesso e deve cessare» (n. 4).

Benedetto XVI, nella Lettera apostolica Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007), che faceva riferimento all’XI assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, riunitosi sul tema dell’Eucaristia nell’ottobre 2005, non fu da meno e scrisse a favore di un’ars celebrandi, che agevoli il senso del sacro con «l’utilizzo di forme esteriori, che educhino ad esso (…)» (n. 40). Tutto sommato, però, il papa è rimasto discreto circa gli abusi, non ricorrendo tale termine che in due occasioni nel testo. Senza dubbio, colui ch’era stato prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede quando venne redatta la suddetta Istruzione, ha ritenuto – a torto – ch’essa fosse sufficiente. D’altronde, come tratto della sua affabilità intellettuale, ha imputato le deviazioni all’ignoranza: «Nelle comunità ecclesiali, si crede forse di conoscerle già e di poter dare un giudizio illuminato, ma spesso non è così» (ibid). Tuttavia, se ci si permette un commento, vi sono ignoranze colpevoli…

Il messale nuovo, «un messale-percorso, plurale, indicativo e facoltativo»

Lo abbiamo anticipato, niente o così poco è stato fatto o senza grand’efficacia. In ogni caso, Benedetto XVI, nella lettera ai vescovi, che accompagna il motu proprio Summorum Pontificum, aveva evidenziato di nuovo: «Molte persone, che accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli al Papa ed ai Vescovi, desideravano ciò nonostante ritrovare anche la forma della santa Liturgia, ch’era loro cara; ciò è accaduto prima di tutto perché in molti luoghi non si celebrava seguendo fedelmente le prescrizioni del nuovo Messale; che, al contrario, finiva per essere interpretato come un’autorizzazione e addirittura un obbligo alla creatività; questa creatività ha spesso portato a deformazioni della Liturgia al limite del tollerabile. Io parlo per esperienza, poiché ho vissuto anch’io questo periodo, con tutte le sue aspettative e le sue confusioni. E ho constatato quanto le deformazioni arbitrarie della Liturgia abbiano profondamente nuociuto alle persone, ch’erano totalmente radicate nella fede della Chiesa».

Quattordici anni dopo, mentre Francesco pensa di poter giudicare il fallimento dell’«esperimento Summorum Pontificum», compie nel contempo la medesima analisi di una riforma liturgica inficiata nel tempo da gravi ed insopportabili abusi, «in numerosi luoghi».

Si torna allora all’accusa contenuta nella Traditionis custodes contro il vetus ordo e contro coloro che vi sono legati. Cosa possiamo dire, alla fine? O l’accusa simmetrica è puramente formale, retorica, per quanto concerne un ramo (quello del Messale di Paolo VI), perché non v’è alcuna intenzione di toccare ciò che si pretende di deplorare: il ragionamento complessivo è allora disonesto. O, altra possibilità, la sincerità è reale, in Francesco e nei suoi predecessori, ma questo significa segnalare come il movimento verso gli abusi sembri irreprimibile e ciò pone una domanda senza mezzi termini: ciò non certifica di fatto un bilancio fallimentare del novus ordo?

Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno richiamato, in merito, la forza dell’individualismo moderno, segnato da una sfiducia nell’oggettività delle norme e da una sopravvalutazione della dimensione soggettiva. E tutti e tre segnalano questo difetto in taluni protagonisti della liturgia. Ma nessuno di loro verifica la liturgia in quanto tale. Ora, ci sembra che la questione debba essere posta e posta in questo modo: non vi sono nelle stesse norme dei nuovi libri liturgici delle carenze, che, pur non incoraggiando esplicitamente gli abusi, ne rendono vago il concetto, aumentandone pertanto la probabilità? Alla luce della situazione descritta, pare che la definizione più appropriata d’abuso sia la seguente: «risultato dell’atto d’abusare; ingiustizia introdotta e decisa per consuetudine» (Trésor de la Langue Française – Tesoro della Lingua Francese). Non ci si può accontentare di parlare di cattive pratiche occasionali, è necessario dimostrare almeno il carattere ricorrente di tale fenomeno, pressoché ordinario, accettato o addirittura avallato; ciò che indica poi la parola consuetudine. Rimandare la responsabilità a individui o comunità particolari è molto sbrigativo e non osa affrontare la specificità dei libri liturgici. Una citazione aprirà alcune piste in tal senso, piste che noi non possiamo qui esplorare. In un’opera, che precedette di poco Summorum Pontificum, Padre Cassingena-Trévedy scriveva del vetus ordo: «un messale-specchio… plenario… normativo e precettivo… un messale-forma… cattolico… messale della Presenza»; e del novus ordo: «un messale-percorso… plurale… indicativo e facoltativo… un messale-spazio… cattolico (e) in più ecumenico… un messale della Filantropia» [1] (id.). Da una parte una liturgia « “assoluta”… il cielo-sulla-terra», dall’altra una liturgia « “relativa”… il cielo-per-la-terra». È, questo, fare un gioco di parole per avvertire che, ai nostri giorni, il relativo può condurre al relativismo o quanto meno prepararlo?

Un’ultima osservazione merita d’esser fatta: i motu proprio Ecclesia Dei afflicta e Summorum Pontificum – soprattutto quest’ultimo – hanno conservato un legame tra i due messali, una cui dimensione era certamente quella di beneficiare il nuovo con la stabilità tradizionale dell’antico. Alcuni l’avevano percepito e riempivano i silenzi delle norme del novus con le prescrizioni o le consuetudini del vetus. A causa della sua radicalità, Traditionis custodes rende impossibile una simile integrazione. Si dubita quindi che «la partecipazione plenaria, cosciente e attiva di tutto il Popolo di Dio alla liturgia», posta in epigrafe nella lettera d’accompagnamento, possa essere altro che la misera maschera della creatività.

Don Jean-Marie Perrot

[1] François Cassingena-Trévedy, Te igitur, Ad Solem, Genève, 2007, p.87, 94.

Indice degli articoli precedenti: QUI.

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