«È il segno dei tempi quando dei pazzi guidano i ciechi»

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«’Tis the time’s plague when madmen lead the blind» (William Shakespeare, Re Lear, Act IV, Scene 1). Questa frase shakespeariano – «È il segno dei tempi quando dei pazzi guidano i ciechi» – è un rafforzativo della parabola evangelica del cieco che guida un altro cieco. In Matteo 15,14 è raccontato che Cristo si rivolge ai Farisei in questo modo: «Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!».

Pieter Bruegel il Vecchio, «De Vlaamse spreekwoorden» (Proverbi fiamminghi), 1559, olio su tavola, 117 × 163 cm, Gemäldegalerie, Berlino.

La parabola fu tradotta da Pieter Bruegel il Vecchio in immagini – rinnovando il concetto portando il numero di ciechi da due a sei, tutti ben vestiti, che non presentano l’abbigliamento da contadino – nel dipinto (foto di copertina) La Parabola dei ciechi (in neerlandese: De parabel der blinden) a tempera su tela (86×154 cm), databile al 1568 circa e conservato nel Museo nazionale di Capodimonte in Napoli. Bruegel cita la parabola del cieco che guida i ciechi anche nella sua opera Proverbi fiamminghi (1559), dove egli raduna tutti i vari proverbi popolari della cultura fiamminga, ammonendo chi usa come guida una persona ignorante. «Attraverso quest’opera Pieter Bruegel si propose di dimostrare quanto di equivoco vi sia nell’esistenza umana» (Arnold Hauser).

Nel XVI secolo l’Europa divenne teatro di profondi cambiamenti sociali: la Riforma protestante avviata da Martin Lutero, l’Umanesimo e l’Empirismo, e l’ascesa al potere del ceto medio. Si trattava anche di un’epoca ricca di scoperte, allorché si passò alla teoria eliocentrica di Copernico e venne inventata la stampa a caratteri mobili da Johannes Gutenberg. La cartografia di Ortelius influenzò non poco la raffigurazione dei paesaggi, mentre con la fondazione dell’anatomia moderna da parte di Andrea Vesalio si pone l’accento sulla maggiore attenzione da parte degli artisti di ottenere una resa verosimile dei corpi. L’arte ormai si comprava nei mercati, e gli artisti per distinguersi dovevano relazionarsi con temi differenti da quelli tradizionali, mitologici e biblici: non a caso, da questo contesto emerge la pittura di genere, che ha per soggetto scene ed eventi tratti dalla vita quotidiana.

Pieter Bruegel il Vecchio nutriva simpatie per il calvinismo, anche se non è chiaro se nella sua Parabola dei ciechi (dipinta in quel periodo) inserì un messaggio politico. Ciononostante, è evidente quanto rigettasse la Chiesa Cattolica Romana. Le opere dei suoi ultimi anni sono caratterizzate da toni amari e grotteschi.

Nell’antica Grecia la cecità era considerata una condizione necessaria per ricevere doni sovrannaturali dagli dei. Nell’Europa medievale i ciechi erano protagonisti di miracoli. Con la Riforma protestante, invece, viene abolita l’iconografia religiosa, con un rafforzamento dell’idea che la Salvezza era ottenuta per la fede in Gesù Cristo, e non per le opere individuali. L’elemosina per i poveri e gli infermi quindi calò drasticamente, e i mendicanti videro le proprie circostanze deteriorarsi. Viene addirittura rovesciata la concezione greca del cieco, tanto che nella letteratura dell’epoca gli uomini senza vista erano vittima di scherzi oppure addirittura bruciati al rogo.

La Parabola dei ciechi di Bruegel ispirò anche numerosi poeti, fra cui i tedeschi Josef Weinheber e Walter Bauer, e il francese Charles Baudelaire che scrisse proprio I ciechi. Il poeta americano William Carlos Williams dedicò addirittura una raccolta di poesie alle opere di Bruegel: in quella incentrata su La Parabola dei ciechi si concentra sul significato della successione dei sei uomini ciechi (tra l’altro, il lemma «cieco» è ripetuto tre volte nelle otto terzine della composizione):

«… one
follows the other stick in
hand triumphant to disaster»
[… ciascuno
segue gli altri, bastone
in mano, trionfante verso il disastro].

L’espressione antica nel “King Lear” di Shakespeare – quando c’era la pesta nera – “the time’s plague”, letteralmente “la peste del tempo”, è una versione del detto contemporanea “segno dei tempi”, caratteristica peculiare di una data epoca storica. La frase “quando dei pazzi guidano i ciechi” è un commento letterale sul momento: Gloucester che letteralmente non ha occhi vuole che Edgar – che a conoscenza dell’oratore è un pazzo – lo lasci con suo guida, il Vecchio, che sembra pazzo. “Un pazzo che guida un cieco” si riferisce ad essere un problema dell’epoca.

Riferendosi all’epoca come alla peste nera, suggerisce che si diffonde ampiamente e rapidamente. Potremmo anche renderci conto, che sia contagioso.

I ciechi si affidano agli altri per essere guidati, specialmente in un territorio sconosciuto.

I pazzi sono malati di mente e non sanno distinguere tra realtà e fantasia.

Mettere insieme questi elementi, suggerisce che agli spettatori viene esposto uno dei problemi dell’epoca storica: coloro che devono fidarsi degli altri per garantire loro un passaggio sicuro nel mondo, sono guidati da coloro che non vedono il mondo con chiarezza o nel suo stato di realtà, neanche per sé stessi.

La frase riflette un giudizio sulla natura dello stato dell’epoca, che suona famigliare ai lettori e agli spettatori moderni, nel senso che la fede nella chiarezza della visione del mondo da parte dei leader politici ha subito qualche battute d’arresto negli ultimi tempi.

Il #brancodibalordi che ci “governa” può “convincere” – con la costrizione, con il ricatto, con la repressione, con l’informazione – il gregge, che è cieco alle realtà o reso tale, che solo lor signori possono vedere e che, quindi. il gregge debba accettare la loro guida, se vuole andare verso un mondo nuovo, che non sarà più come quello di prima.

Isaac Asimov scrisse: «Se la conoscenza può creare dei problemi, non è con l’ignoranza che possiamo risolverli». Se le visioni dei politici sono distorte o malsane, caratterizzate dall’ignoranza, è sicuri, che i cittadini ne soffriranno. Non usciranno mai dal tunnel, visto che l’immunità di gregge è una chimera: l’immunità non sarà mai raggiunto, il gregge sarà sempre più gregge e il mondo peggio di prima. Come un’amica ha riassunte in poche parole strazianti: «A me ha distrutto i miei progetti, i sacrifici di una vita… e la pena sono i miei figli»…

Nel frattempo, usando l’emergenza sanitaria, le guide hanno instaurato la dittatura della sanitocrazie, con il consenso del gregge, estorto con tutto l’arsenale dei stratagemma (dal latino strategema, che è dal greco στρατήγημα, derivato di στρατηγέω, cioè, comandare [l’esercito]). Eccezione fatta delle pecore nere che – non essendo ciechi né pazzi – vedono, guardano, osservano. E – essendo sane di mente – continuano a pensare con la loro testa, ignorando la narrazione mainstream e il goblottismo da nicchia.

Tre giorni fa, il caro amico e collega di lunga data (che lo sa anche lunga) Marco Tosatti ha scritto in un commento ad un mio post sul mio diario Facebook: «Caro Vik, è tipico di chi non vuol vedere e sapere (sarebbe imbarazzante) focalizzarsi solo un dettaglio, minimo, di un problema per negare il problema. Credo che tu abbia chi ci può spiegare di quale meccanismo psicologico e mentale si tratti…».

È vero, in questa epoca di un mondo in stato di follia, abitato da ciechi guidati da pazzi, c’è disperatamente bisogno di assistenza piscologica, e talvolta psichiatrica. Ed è altrettanto vero, come ha ricordato Tosatti, che ho «chi ci può spiegare di quale meccanismo psicologico e mentale si tratti». Proprio fortunato sono… di avere una compagna, non solo bellissima, con classe ed intelligente, ma pure psicologa clinica.

A che punto siamo arrivato, Valentina Villano l’ha esemplificato oggi – in 15 righe e 196 parole – nella sua rubrica “La Mente-Informa”, in un commento dal titolo “Il delirio” [QUI], lucido, preciso, drammatico, ma assolutamente vero (come ha osservato l’amico Lorenzo Galli), secondo la sua formazione professionale: «L’aspetto più drammatico di tutta la faccenda, è la mancanza di consapevolezza dello stato in cui riversano determinate persone, indebitamente definite tali. Costrette a queste forme di “isolamento” fisico e mentale, hanno cronicizzato problemi psichici preesistenti, di cui non hanno alcuna contezza. Pertanto si sentono in diritto di parlare per strada, al bar, in famiglia e spessissimo sui social».

La frase citata nel titolo è, quindi, un altro esempio di ciò che rende l’opera di Shakespeare così eterno. Come ha osservato sempre Valentina Villano in un commento sul suo diario Facebook: «Si ispirava e si lasciava coinvolgere dalle dinamiche delle opere classiche che aveva studiato. Da buon inglese era avvezzo all’apertura mentale». Ormai, oggi un’abitudini più unica che rara e anche questo «is the times plague».

Al riguardo, permettetemi di osservare che non sia casuale, che l’inglese è considerato la lingua con più vocaboli. L’Oxford Dictionary raccoglie circa 500.000 parole e trascura altri 500.000 termini tecnici e scientifici. Una delle ultime edizioni dell’americano Random House Unabridged Dictionary of the English Language comprende 315.000 vocaboli. Per contro, il tedesco ha solo 185.000 vocaboli, l’italiano circa 150.000 e il francese meno di 100.000, inclusi i vari week-end e hit-parade… Come lingua ufficiale, l’inglese serve più di 40 paesi: il francese 27, l’arabo 21 e lo spagnolo 20. Ma l’inglese è anche la lingua delle comunicazioni (intese nel senso generale del termine). Il motivo è semplice e ha da fare con “aperture”: l’inglese moderno si è evoluto dalla famiglia di lingua germanica (a cui appartiene anche il neerlandese e il tedesco), poi maggiormente influenzato dal francese e dal latino normanno, da cui prende in prestito molte parole, ma anche dall’anglosassone e dal greco. Nel corso del tempo, la lingua inglese ha adottato parole di molte altre lingue e questo l’ha reso la lingua internazionale, con moltissimi sinonimi, che permettono di dare libero sfogo all’apertura mentale.

Postscriptum

1. Quasi dimenticavo, e pure avevo fatto un appunto al riguardo: quello che nei tempi che corrono (mala tempora currunt…) manca soprattutto, è – non dico il sarcasmo o l’ironia, ma – semplicemente l’umorismo. Cosa che si nota soprattutto nei social. Quindi, termino con una battuta sulla mia madrelingua, il neerlandese (che voi, sbagliando, chiamate olandese). Non so quante parole ha, ma è sicuro che il neerlandese non è una lingua che serve per comunicare (storicamente siamo più bravi come pittori, si sa). Il neerlandese è una lingua che serve per non farsi capire, non solo nelle riunioni internazionali (quando parliamo tra di noi nella nostra lingua, nessuno ci capisce), ma anche tra di noi.

epa05768964 A boy look at a giant mural depicting British writer William Shakespeare (1564-1616) created by graffiti artist James Cochran, also known as Jimmy C, near the Shakespeare’s Globe theatre in London, Britain, 03 February 2017. EPA/FACUNDO ARRIZABALAGA

2. Abbiamo sentito dire che riguardo Shakespeare, che “talune fonti dicono che fosse stato francese”. Vero è che c’è un mistero che aleggia intorno a quello che viene indicato forse come il più grande drammaturgo di tutti i tempi: chi era veramente l’autore delle straordinarie opere di William Shakespeare? L’attore di Stratford, venerato dagli inglesi, ma semi-analfabeta, di cui restano un testamento che nulla dice delle opere, e alcuni contratti per prestare soldi a usura. Oppure quella lunga lista di possibili alter ego che da 400 anni viene proposta dai quattro angoli della terra: Francis Bacon, il III Conte di Southampton, persino lo stesso Marlowe?
William Shakespeare, il padre della letteratura inglese, era in realtà francese. Almeno secondo il pesce d’aprile lanciato il 1° aprile 2010 dalla BBC, tra i tanti che avevano invaso i mass media britannici. Un non meglio precisato «esperto» aveva affermato alla tv pubblica britannica che Mary Shakespeare, da nubile Arden, madre del poeta e drammaturgo, era in realtà Mary «Ardennes», dal nome dell’omonima foresta nel nord della Francia. I deputati dell’Assemblea nazionale francese – aveva aggiunto – avevano «avviato un’inchiesta» e l’ex ministro degli Affari culturali francese Jack Lang avrebbe detto di «rallegrarsi nell’apprendere che Shakespeare è francese». Il ministro aveva sottolineato che la rivelazione non era che una «conferma di quello che alcuni esperti francesi già pensavano». È allo studio, aveva concluso Lang, «come onorare questo grande drammaturgo. Naturalmente, abbiamo Racine e Moliere ma gli troveremo un posto nel nostro Pantheon nazionale dei grandi autori». E dire che c’è chi ai pesci d’aprile ci crede.
Poi, c’è Shakespeare “siciliano”: «Negli ultimi anni si è fatta strada l’ipotesi che il “vero” Shakespeare sia in realtà uno studioso di origini siciliane: John Florio, figlio di Michelangelo, un erudito in esilio, scappato all’inquisizione da Messina e nascosto a Venezia e a Verona, prima di approdare a Londra.
Lì nasce John, sfrutta l’immensa cultura classica del padre e viene accolto dal conte di Southampton insieme a un giovane attore, Will di Strafford.
Saranno per molti anni protetti del potente aristocratico, abiteranno lo stesso castello e la somma è presto fatta. L’unico possibile vero autore delle meravigliose opere è John Florio.
Concepire quelle opere senza una cultura classica formidabile è impossibile. Come faceva l’attore a conoscere alla perfezione la toponomastica di Messina (Molto rumore per nulla), Venezia (Il mercante) o Verona (Romeo e Giulietta) o Padova (La bisbetica domata). I dubbi si sono moltiplicati a cominciare dai giudizi di Mark Twain, e poi Charles Dickens, Harry James e persino Freud, comprovati dagli studi più recenti di molti ricercatori italiani e britannici: Saul Gerevini, Corrado Panzieri e Giulia Harding. Il regista Stefano Reali sta preparando una fiction, prodotta in Spagna, che narra non solo i rapporti tra Florio e Shakespeare ma anche l’incontro tra Miguel de Cervantes e John Florio, avvenuto a Messina mentre il genio spagnolo era ricoverato in ospedale dopo il ferimento nella battaglia di Lepanto. Anche Reali condivide la tesi di tre anglisti.
“Non esiste una smoking gun – dice il regista – ma una serie stringente di indizi che hanno sostanza di prova. Florio conosce la novellistica rinascimentale italiana, il greco e il latino che l’attore di Stratford sconosceva. Poi il giallo si infittisce. Conosciamo il testamento olografo di Florio che lascia l’utilizzo dei suoi manoscritti al conte di Pembroke, la cui famiglia ha negato fino ad oggi l’accesso ai manoscritti. Il professor Panzieri ha chiesto il permesso a Tony Blair e alla regina Elisabetta II, ma senza successo”. Il motivo è presto detto: “Il brand Shakespeare – spiega il regista – per gli inglesi vale alcuni miliardi di sterline ed è impensabile che vi rinuncino. Persino gli scrittori elisabettiani, contemporanei di Shakespeare fanno riferimento alla possibile frode, ma nessuno poteva sospettare che era così facile fare soldi con il teatro.
Fu Giordano Bruno a consigliare Florio e Shakespeare di costruire un teatro più capiente e smontabile, il Globe. E quando il successo crebbe a dismisura, dopo la morte dell’autore e dell’attore, i Pembroke, pubblicarono il first-folio, capirono che potevano dare in affitto le opere in loro possesso ai kingsman e nacquero così le royalty, il diritto d’autore”. Quello che è sicuro è che Florio è l’autore del dizionario inglese-italiano, che regala al vocabolario inglese più di 200.000 nuovi vocaboli, e che la voce “Florio” dell’enciclopedia britannica nel 1880 constava di 25 pagine, 10 anni dopo solo due. Il muro dell’establishment stratfordiano continua a difendersi» (Franco Nuccio – ANSA, 25 marzo 2019).

E con queste annotazioni, in parte sociolinguistica e in parte fantastorica, chiudo, ricordando di andare a leggere “Il delirio” [QUI] a firma della Dott.ssa Valentina Villano. Buona lettura e buona serata.

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