«Pio XII rappresentava la Chiesa, sentiva in modo elevatissimo il senso di questa suprema dignità. Amava concretamente non a parole. Non lasciò niente a nessuno perché non aveva niente»

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Non bastano le 24 ore in una giornata per dare l’attenzione necessaria ai fatti del giorno che lo meritano. Anche se ieri non ne abbiamo trovato il tempo – e per ciò chiediamo venia – non possiamo non ricordare, che il 9 ottobre 1958 moriva il Romano Pontefice, il venerabile Pio Decimo Secondo, che San Padre Pio da Pietrelcina vide in Cielo tra gli angeli e i santi.

«Pio XII amava concretamente e non a parole, tutti gli esseri umani soprattutto quelli che soffrivano. Questo amore lo spingeva a voler soffrire come loro, ad imporsi le stesse privazioni cui erano costretti. (…) In pubblico mio zio voleva sempre apparire perfetto, impeccabile. Rappresentava la Chiesa, sentiva in modo elevatissimo il senso di questa suprema dignità. Il suo comportamento e i suoi abiti, esteriormente, erano impeccabili come quelli di un sovrano. Ma in realtà egli era poverissimo. (…) Quando morì non lasciò niente a nessuno perché non aveva niente», ebbe a dire suo nipote, il V Principe e Marchese Don Giulio Pacelli (Roma, 11 maggio 1910-9 ottobre 1984), raccontando anche aspetti inediti dello zio Vicario di Cristo, Successore di Pietro, Romano Pontefice, 260° Vescovo di Roma e Papa della Chiesa Cattolica Romano, 2° Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, intervistato nella primavera del 1973 dal giornalista e scrittore Renzo Allegri, noto per le sue opere su San Pio da Pietrelcina.

Riportiamo di seguito dal sito Tonyassante.com il ricordo di Renzo Allegri e il testo di quell’intervista.

«Il 9 ottobre 1958 si concludeva santamente la vicenda terrena di Pio XII, al secolo Eugenio Pacelli, Sommo Pontefice della Chiesa Cattolica dal 2 marzo 1939. Diciannove anni densissimi: la Seconda Guerra Mondiale con le sue atrocità, il nefasto consolidamento del Comunismo nell’Europa Orientale e del Laicismo materialista ed edonista nell’Occidente capitalista, il risorgere in seno alla Chiesa sotto forma di Nouvelle Théologie dell’esiziale eresia modernista.  Diciannove anni che ci lasciano in eredità monumenti di Dottrina Cattolica più duraturi del bronzo: dall’ecclesiologia (Mystici Corporis) alla mariologia (Munificentissimus Deus sull’Assunta), dalla liturgia (Mediator Dei) fino alla morale familiare e alla pratica della vita cristiana nell’innumerevole quantità di dottissimi discorsi. Tuttavia, a fronte di tanta scintillante gloria, noi sappiamo che con la morte di Pio XII inizia la grande notte, la tenebrosa tirannide della cattività modernista che attanaglia la Chiesa Romana. Con lui scendeva nella tomba – sicuramente per risorgere –  il modo cattolico di intendere il Papato, come  esaustivamente lo descriveva Innocenzo III: “[Il Papa è] il servo costituito al di sopra della famiglia … il Vicario di Gesù Cristo, il Successore di Pietro, il Dio del Faraone; egli è costituito nel mezzo fra Dio e l’uomo; al di qua di Dio, ma al di là dell’uomo; inferiore a Dio, ma superiore all’uomo; su tutti e tutto giudica, ma da nessuno è giudicato” (Innocenzo III, Sermo II in consecratione Pontificis Maximi). In questo senso Antonio Spinosa in un suo libro del 1992 definiva Pacelli “l’ultimo Papa”. E di fronte a un clero asservito al pensiero e ai potentati mondani e a questi asservisce la Chiesa di Gesù Cristo noi possiamo dolorosamente prenderne coscienza. Pertanto per ricordare questa gloria del Romano Pontificato pubblichiamo il ritratto che dell’augusto suo zio faceva Giulio Pacelli. Ritratto dal quale emerge la figura dell’uomo Eugenio Pacelli pienamente consapevole della natura e del peso dell’ufficio di Vicario di Cristo di cui è investito e che quindi annichilisce sé stesso nella persona Papae, tutto ad essa in Cristo sottomettendo» (Giuliano Zoroddu, Radiospada.org).

Pio XII visto da vicino
di Renzo Allegri

Ho letto sul Corriere della Sera un articolo che parlava dell’attività di Pio XII a favore delle persone che, durante la Seconda Guerra Mondiale, gli scrivevano per avere notizie di loro cari dispersi. Tra il 1939 e il 1947, in Vaticano arrivarono milioni di lettere. Erano di cattolici, ma anche di protestanti, musulmani, ebrei, credenti e atei. Una anche di Pier paolo Pasolini che chiedeva informazioni sul suo padre prigioniero in Africa. In quegli anni di grande dolore e sofferenza, il Papa era un punto di riferimento al di sopra di tutte le parti. E mi ha colpito il fatto che Egli aveva dato ordine che si rispondesse a tutti. Costituì, a questo scopo, l’“Ufficio Internazionale Vaticano per i prigionieri di guerra”, che era diretto da Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Ad un certo momento, quell’ufficio aveva 600 impiegati che a nome del Papa rispondevano ad ogni tipo di richiesta.

Pio XII fu un grande Papa. Morì nel 1958, a 82 anni.  Il mondo lo pianse e lo esaltò. Ma in seguito, contro di lui si scatenarono violente polemiche, riguardanti il suo atteggiamento tenuto durante il conflitto mondiale nei confronti degli Ebrei. Fu accusato di non aver difeso gli ebrei, di non aver condannato il nazismo, di avere, con il suo silenzio, permesso e favorito lo sterminio ebraico nei Lager nazisti. Accuse che sono state smentite da innumerevoli libri, da innumerevoli documenti, da innumerevoli testimonianze, ma che vengono continuamente ripetute.

Non voglio entrare nel merito di questo argomento, ma vorrei qui ricordare un interessante incontro che ebbi nel 1973 con il Principe Giulio Pacelli, nipote di Pio XII. Gli avevo chiesto un’intervista per scrivere un articolo su Papa Pacelli “visto da vicino”. Lui era cresciuto accanto al celebre zio e io desideravo che mi raccontasse com’era nella vita privata, com’era prima di diventare Papa, come si svolgevano le sue giornate, quali erano i suoi interessi.

Il Principe Giulio Pacelli era molto riservato. Credo non abbia mai concesso interviste. Non so perché abbia accettato di incontrarmi. Avevo sollecitato diverse raccomandazioni importanti per ottenere l’intervista e, evidentemente, qualcuna era andata a buon fine. Mi ricevette nel suo studio e conversammo a lungo. Le sue parole, i suoi ricordi risultarono molto interessanti perché rivelavano aspetti inediti della vita del grande Papa. Ecco i punti salienti di quel nostro incontro, avvenuto nella primavera del 1973.

«Mio zio, Pio XII, aveva un senso profondissimo della propria dignità», mi disse il Principe Giulio Pacelli. «In pubblico era sempre perfetto, controllato, aveva un portamento regale. Nella vita privata era umilissimo, semplice ma ugualmente riservato».

Eugenio Pacelli giovane sacerdote.

Lo ricorda quando era soltanto un monsignore?
Lo ricordo benissimo. Allora vivevamo nella stessa casa, in questa, dove stiamo parlando ora. Mio zio nacque il 2 marzo 1876, in via degli Orsini, a palazzo Pediconi. Poi visse a palazzo Rossini, in via della Vetrina. Nel 1907 mio padre, Francesco Pacelli, fratello di Pio XII, costruì questa casa e trasferì qui tutta la famiglia: i nonni, Filippo Pacelli e Virginia Graziosi, il fratello Eugenio, il futuro papa, allora monsignore di curia, una sorella non ancora sposata, mia madre e noi quattro figli: Carlo, morto tre anni fa, un altro mio fratello che si fece gesuita e morì giovanissimo, io e mio fratello Marcantonio. In questa casa Eugenio Pacelli visse per molti anni. Alcune stanze restarono riservate a lui anche quando fu mandato nunzio in Germania. Abitò qui per un anno anche dopo la sua elezione a cardinale.

Com’era la sua giornata lavorativa, allora?
Si alzava prestissimo. Alle sei e tre quarti diceva la Messa e io gliela servivo. Ricordo quelle Messe con vivissima emozione. Il volto di mio zio si trasfigurava. Egli pronunciava le parole latine con una soavità e un raccoglimento commoventi. Il momento dell’elevazione era una cosa straordinaria. La Messa durava tre quarti d’ora ed era seguita da un lungo ringraziamento. Poi mio zio andava in Vaticano.
Tornava all’una e mezzo e tutta la famiglia lo attendeva per il pranzo. Si andava a tavola alle due, tutti insieme. Mio zio mangiava pochissimo. Conversava con cordialità ed era una miniera di notizie, di aneddoti, di esperienze interessanti. Conversava con suo padre, con sua madre, con i fratelli, ma anche con noi che eravamo piccoli. Era affettuosissimo con noi. Ci chiedeva come andava la scuola, parlava dei classici latini e greci che stavamo studiando, citava a memoria brani di Tito Livio, Giulio Cesare, Sofocle, Aristofane, Plutarco. Aveva una memoria incredibile. Qualche volta, dopo pranzo, si fermava un po’ a giocare con noi. Poi, dopo un breve riposo, usciva per la passeggiata quotidiana di un’ora. Per tutta la vita fu fedele a questa abitudine della passeggiata alla quale non rinunciava per nessuna ragione, neanche quando pioveva o nevicava. Quando era cardinale Segretario di Stato, si faceva accompagnare con l’automobile all’ingresso di villa Borghese e poi si spingeva a piedi fino a piazza di Siena. Divenuto papa, passeggiava nei giardini vaticani. Per non perdere tempo, durante la passeggiata recitava il breviario, oppure leggeva. Camminava con passo spedito, elastico. Teneva il busto eretto: era un gran camminatore, e non era facile stargli dietro.
Al ritorno dalla passeggiata, restava con noi ragazzi per venti minuti, mezz’ora: guardava i compiti che stavamo svolgendo, ci dava dei consigli, correggeva gli errori e poi si ritirava nelle sue stanze e lavorava fino alle nove di sera. A quell’ora tutta la famiglia si radunava di nuovo per la cena. Al termine lo zio dava la buona notte a tutti e tornava nel suo studio, dove lavorava ancora fino all’una di notte. Questa era la sua giornata; e questo ritmo di lavoro tenne per tutta la vita con meticolosa diligenza.

Era molto attaccato alla famiglia?
Sì, siamo stati educati a essere molto uniti tra noi, e anche lui aveva questo amore per la famiglia. Il lavoro assorbiva tutto il suo tempo e lo portava spesso lontano, ma nei momenti più lieti e più tristi della vita familiare, cercava di non mancare mai. Ricordo quando morì il nonno, il padre di Pio XII. Allora ero molto piccolo, ma ricordo bene. Il nonno era ammalato di polmonite. Nella grande camera si sentiva il rantolo dell’infermo, che non riusciva a respirare, e la voce dello zio, triste ma ferma, che recitava le preghiere dei moribondi. Lo zio restò accanto al nonno per tre giorni di seguito, fino alla fine. Partecipo ai funerali, e il suo volto scavato era sconvolto dalla sofferenza.
Quando morì sua madre, Eugenio Pacelli era in Germania. Arrivò appena in tempo per darle un bacio prima che fosse chiusa la bara. Anche allora aveva il volto segnato dalla sofferenza atroce, ma non lo sentii mai pronunciare una parola di sconforto. Il suo dolore trovava sfogo nella preghiera.

Non ha mai visto suo zio piangere?
Nei momenti più dolorosi per la famiglia aveva gli occhi lucidi, ma la sua tremenda forza di volontà riusciva sempre a dominare il dolore. Una sola volta lo vidi piangere, e fu in un’occasione lieta: il giorno del mio matrimonio. Mi sposai il 25 luglio 1940. Da un anno egli era papa. Quando gli avevo chiesto se accettava di benedire il mio matrimonio, aveva acconsentito e mi aveva abbracciato; ma poiché nella sua vita non aveva mai voluto favorire i parenti, volle che la cerimonia fosse celebrata nella sua cappella privata alla presenza dei parenti più stretti. Eravamo, infatti, una ventina di persone. Alla cerimonia fungeva da assistente monsignor Montini, l’attuale pontefice. Al Vangelo, mio zio fece un breve discorso. Cominciò a parlare della nostra famiglia e ricordò soprattutto mia madre, morta quando avevo dieci anni (lui l’aveva conosciuta benissimo perché, insieme a sua madre, mandava avanti la nostra numerosa famiglia). Mentre ricordava queste cose, mi guardò e la commozione ebbe il sopravvento, La sua voce si ruppe in un singhiozzo, e cominciò a piangere dirottamente, senza riuscire a frenare le lacrime. Dovette interrompere il discorso, attendere che la commozione passasse. Poi riprese a parlare. Fu l’unica volta che lo vidi piangere.

Conversando con lui, gli davate del tu o usavate il lei?
Lui dava del tu a noi, ma noi usavamo il lei, secondo una tradizione di famiglia, come facevamo anche con i nonni e con i nostri genitori.

Alla morte di Pio XI, suo zio si aspettava di venire eletto papa?
No, nel modo più assoluto. C’era una tradizione nella storia della Santa Sede che fino allora era quasi sempre stata rispettata: il cardinale segretario non poteva mai diventare papa. Si pensava che fosse troppo legato al predecessore e che, per il bene della Chiesa, fosse necessario un cambiamento radicale. Mio zio e Pio XI erano stati affiatatissimi, e questo non era un mistero per nessuno. Alla morte di Pio XI, mio zio era stato cardinale camerlengo, aveva cioè retto la Santa Sede fino al Conclave, sbrigando le pratiche rimaste in sospeso. Erano dieci anni che lavorava senza risparmiarsi ed era molto stanco. Aveva deciso di prendersi un periodo di vacanze in Svizzera. Prima di entrare in Conclave, aveva fatto preparare le valigie. Aveva deciso di partire immediatamente, appena eletto il nuovo papa. Invece, dopo un Conclave eccezionalmente breve (meno di una giornata), venne eletto lui. Le vacanze in Svizzera non le fece più.

Lei continuò a vederlo anche dopo la sua elezione a pontefice?
Lo incontravo in Vaticano, anche perché io ero guardia nobile e prestavo servizio accanto a lui. Andavo anche a trovarlo, ma non aveva molto tempo per i parenti. Il lavoro per la Chiesa lo assorbiva giorno e notte. Mio fratello Carlo andava da lui tutte le sere: era consigliere generale dello Stato del Vaticano, e così parlavano dei problemi del Vaticano e anche degli avvenimenti della nostra famiglia.

Papa Pio XII in piazza San Giovanni in Laterano il 13 agosto 1943.

Pio XII, durante la guerra, si adoperò per aiutare i poveri, per salvare gli ebrei perse­guitati. Lei ricorda qualche episodio particolare?
Quello che mio zio fece durante la guerra non sarà mai conosciuto completamente. Dopo la sua morte sono state scritte calunnie orribili, ma fortunatamente i documenti storici che ogni tanto vengono alla luce fanno giustizia.
Per prima cosa, subito dopo la sua elezione, mio zio cercò di impedire che l’Italia venisse coinvolta nella guerra. Per tradizione i pontefici ricevono le visite dei sovrani degli altri Stati, ma non le ricambiano mai. Mio zio ricevette la visita del re d’Italia e volle ricambiarla, il 28 dicembre 1939, recandosi in visita solenne al Quirinale. La guerra divampava in tutta Europa. Il presidente Roosevelt aveva scritto a mio zio alcune lettere invitandolo ad adoperarsi per tenere l’Italia fuori dal conflitto. Mio zio era convinto di quanto diceva il capo di Stato americano e si recò a far visita al re con il preciso scopo di scongiurarlo a non portare l’Italia in guerra. In quella visita sperava di incontrare anche Mussolini, ma il capo fascista non andò, mandò, quale suo rappresentante, Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri. Io accompagnai mio zio, in quella visita. Egli tenne un discorso molto commovente, dicendo che il Tevere non divideva più il Vaticano dal Quirinale. Il re e la regina piangevano commossi. Nell’aprile del 1940 tentò ancora di salvare l’Italia e inviò una lettera autografa a Mussolini, ma anche questo non servì a niente.
Mio zio fu l’unico difensore di Roma, durante la guerra. I documenti che il Vaticano sta per pubblicare lo dimostrano ampiamente. Ci sono decine e decine di lettere di Pio XII, inviate agli alleati, nelle quali chiede che Roma venga considerata “città aperta”. Si appella al fatto che è la capitale religiosa dei cattolici, la sede del successore di San Pietro, che ogni pietra è un ricordo storico, un monumento artistico. Dopo che gli alleati decisero di intervenire con i bombardamenti su Roma, egli, inviando lettere e note diplomatiche, riuscì a far spostare continuamente la data del primo bombardamento preservando la città sana e salva ancora per sei mesi. Quando gli alleati non vollero più ascoltare la sua voce e fecero cadere le prime bombe su Roma, il 19 luglio 1943, Pio XII uscì dal Vaticano subito, prima ancora che venisse dato il segnale del cessato allarme, e si recò tra la gente colpita nel quartiere Tiburtino. Durante quel bombardamento io ero a casa. Uscii immediatamente anch’io e mi recai al Verano per vedere se era stata colpita la tomba di famiglia e così, per strada, incontrai mio zio, in mezzo a una folla di povera gente che piangeva e pregava con lui. Quello che vidi sul suo volto in quei momenti non lo potrò mai dimenticare. Io che lo conoscevo bene, capivo quanta sofferenza ci fosse nel suo animo e quanto desiderio di aiutare, di consolare, di far sentire a quella gente che il papa voleva loro bene. Stringeva le mani delle persone che gli stavano più vicine e sembrava non riuscisse a staccarsi da loro.
Durante l’occupazione tedesca di Roma, Pio XII salvò migliaia di persone dalla morte, dalle torture, dai campi di concentramento. Soprattutto ebrei ricercati dai nazisti. Ogni giorno in Vaticano arrivavano decine e decine di persone, di ogni categoria sociale, che chiedevano il suo aiuto, il suo intervento ed egli ascoltava tutti. Il primo generale comandante le truppe tedesche in Roma era un bavarese cattolico e attraverso quello mio zio salvò molta gente. Potrei fare i nomi delle persone salvate, ma non vale la pena. Forse qualcuno non ha piacere di far sapere, oggi, di essere stato salvato da Pio XII. Però sa di dover la vita a quel papa.
Ad un certo momento si sparse la notizia che gli ebrei avevano bisogno di oro. I nazisti avevano promesso salva la vita a tutti gli ebrei abitanti in Roma, in cambio di oro. Il rabbino si rivolse anche al Vaticano e Pio XII diede ordine di dare tutto l’oro richiesto, e l’oro fu dato. I nazisti presero l’oro e poi presero anche gli ebrei.
L’episodio di questo oro dato da Pio XII agli ebrei è ricordato in maniera blasfema, in un film italiano. Si vede un rabbino, spaventato e macilento, che si reca in Vaticano, di notte, a chiedere aiuto. Incontra un prelato, rubicondo, vestito sfarzosamente, con anelli d’oro alle dita e una pesante croce d’oro massiccio e diamanti sul petto, che gli fa la elemosina. L’autore del film ha voluto insinuare che Pio XII, donando un po’ d’oro agli ebrei, non aveva privato sé stesso del benessere e della tranquillità economica. Ma è una calunnia.
Pio XII amava concretamente e non a parole, tutti gli esseri umani soprattutto quelli che soffrivano. Questo amore lo spingeva a voler soffrire come loro, ad imporsi le stesse privazioni cui erano costretti. Durante la guerra sapeva che molti uomini soffrivano la fame, ed egli si privava del cibo che avrebbe potuto avere in abbondanza. Quando cominciarono i bombardamenti, molta gente restò senza casa e fu costretta a affrontare i rigori del freddo senza riscaldamento, con pochi vestiti in condizioni di grave indigenza. Pensando a quelle famiglie, Pio XII, durante la guerra, non volle che il suo appartamento fosse riscaldato. Aveva le mani e i piedi gonfi, pieni di geloni. Faticava a scrivere a macchina, a tenere la penna in mano, non stava bene di salute, ma non volle il riscaldamento. Quando in Italia cominciò a scarseggiare lo zucchero e il caffè, mio zio smise di prendere caffè e fino al termine della guerra non bevette più una sola tazzina di caffè. Le scorte di zucchero e di caffè che c’erano in Vaticano e quelle che arrivavano, le mandava agli ospedali della città per gli ammalati.
In pubblico mio zio voleva sempre apparire perfetto, impeccabile. Rappresentava la Chiesa, sentiva in modo elevatissimo il senso di questa suprema dignità. Il suo comportamento e i suoi abiti, esteriormente, erano impeccabili come quelli di un so­vrano. Ma in realtà egli era poverissimo. Dopo la sua morte, scoprimmo che il suo corredo di biancheria era misero: aveva soltanto tre camicie, logore e rat­toppate, alle quali cambiava spesso i polsini inamidati perché, quelli, si vedevano. Aveva due o tre paia di scarpe che faceva continuamente aggiustare e risuolare. Durante gli anni della guerra diede ai poveri tutto quello che aveva, tutto il denaro che riceveva. Quando morì, non lasciò niente a nessuno, perché non aveva niente. Come tutti hanno potuto constatare osservando le fotografie pubblicate dopo la sua morte, dormiva in una camera disadorna, su una branda di ferro.

Ho letto che Pio XII amava molto la musica e che in gioventù studiò il violino: è vero?
È vero. Quando ero ragazzo, ricordo che suonava il violino. Lo strumento restò in casa nostra per molto tempo e dovrebbe esserci ancora da qualche parte. Da monsignore si recava ad ascoltare i concerti all’Accademia di Santa Cecilia. L’unico svago che si permise da papa fu quello di ascoltare, ogni tanto, della buona musica. Nel suo appartamento, in Vaticano, aveva un giradischi. Una volta al mese, non di più perché temeva di togliere tempo prezioso al suo lavoro per la Chiesa, ascoltava dei dischi. Gli autori preferiti erano Beethoven e Wagner.

È vero che suo zio faceva ginnastica tutte le mattine?
Tutti lo hanno detto e scritto. lo non l’ho mai visto fare ginnastica Quando abitavamo insieme, in questa casa, nessuno in famiglia si è mai accorto che facesse ginnastica. Era fedele alla sua passeggiata quotidiana e credo che quello sia stato l’umico sport praticato per mantenere sano il fisico. Andava a letto all’una di notte e si alzava alle cinque: non credo gli restasse tempo per fare ginnastica.

Negli ultimi anni della sua vita, pensava alla morte?
Morì a 82 anni. Sapeva che la sua vita ormai era arrivata alla fine, ma non ci pensava. Continuava a lavorare come se ogni giorno fosse il primo del suo pontificato. Faceva spesso questa preghiera: “Signore, tu sai che dedico tutto il mio tempo alla Chiesa. Ti chiedo una grazia: poter avere, prima di morire, un giorno tutto per me, per pensare alla mia anima e prepararmi al grande passo”. Il Signore lo accontentò.
Durante gli ultimi tempi della sua vita, mio zio soffriva di un diverticolo allo stomaco. Ogni tanto i medici dovevano intervenire per levargli i succhi gastrici attraverso una sonda. Un giorno, durante questa operazione, lo zio fu colpito da spasmo cerebrale e perse conoscenza. Restò in coma per 24 ore. Noi gli eravamo intorno e pensavamo che fosse giunta la sua fine. Poi, improvvisamente, la sera dei sei ottobre, si riprese. Riconobbe tutti i presenti e salutò tutti. Il mattino se­guente, sette ottobre, fece venire il confessore e restò con lui fino a mezzogiorno. Nel pomeriggio ricevette monsignor Tardini e Dell’Acqua, suoi collaboratori più stretti. A sera disse: “Ora sono pronto”. Aveva dedicato tutto il giorno a sé stesso come se avesse saputo di essere giunto al termine della sua vita. Trascorse la notte tranquilla. II mattino disse di aver riposato molto bene. Salutò le persone che gli stavano intorno. Dopo un po’ ritornò lo spasmo cerebrale: Pio XII perse di nuovo conoscenza e non la riacquistò più fino alla morte avvenuta alle tre e cinquanta del giorno che stava per sorgere, il nove ottobre.

Fonte: Tonyassante.com.

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