La strumentalizzazione di un morto. Tafazzismo o totale cecità? Certamente mancanza di rispetto, per il morto e per la verità. E verso gli stranieri in Italia
Annalisa Chirico – non una comunicatrice qualsiasi – scrive su Twitter: «Strumentalizzare un suicidio è sempre sbagliato. Quando poi si mischia la questione con il razzismo, con Enrico Letta che chiede “perdono” a dispetto delle parole dei genitori (e una lettera di 3 anni fa), non capisci più se sia tafazzismo o totale cecità. #SeidVisin». Annalisa Chirico è una giornalista, saggista e opinionista televisiva italiana. Laureata in Scienze Politiche. Dirige LaChirico.it – Diventa chi vuoi essere. Firma sul Foglio. Presiede Fino a prova contraria – Until proven guilty, movimento per una giustizia equa ed efficiente, per un Paese più giusto e competitivo. Fondatore e Amministratore delegato di AC Advocacy & Communication srl.
La giornalista Azzurra Barbuto·l’ha riassunto in modo lapidario, ma efficace, rompendo gli schemi del politicamente corretto, con un Tweet: «Quanto è razzista la sinistra: se un nero si toglie la vita essa ritiene che lo abbia fatto perché è nero».
Dopo i funerali a Nocera Inferiore ieri, sabato 5 giugno 2021 del calciatore 20enne Seid Visin, di origine etiope, adottato da una famiglia italiana, residente a Nocera Inferiore, che si è suicidato, condividiamo la riflessione dell’amico e collega Renato Farina, che oggi su Libero Quotidiano scrive: «Povero Seid, si uccide e la sinistra lo sfrutta. Una lettera del giovane etiope trasformata in manifesto politico. Ma i genitori addottivi: non si è tolto la vita a causa del razzismo».
«Era un uomo meraviglioso e qui viveva benissimo», dice il padre adottivo, Walter Visin, definendo «sciacallaggi e speculazioni» le interpretazioni sulla possibile causa del suo suicidio. «Razzismo? Qui era benvoluto da tutti, la chiesa oggi era piena di famiglie in lacrime». Non aggiunge altro: i drammi interiori che hanno spinto il figlio a togliersi la vita sono un dolore che Walter non può e non vuole condividere.
Lo scrive Il Messaggero, riferendo che la politica, di ogni schieramento, interviene: «Chiediamo perdono» scrive il Segretario PD Letta, mentre il Segretario della Lega Salvini ricorda che «è un cretino chi disprezza per il colore della pelle». «Oggi parlano tutti e giustamente di ambiente, a volte mi chiedo se saremo in grado di salvarci da noi stessi», è la riflessione del Ministro Patuanelli (M5S). Il Ministro Carfagna (FI): «La disperazione che emerge dalla lettera di questo ragazzo è una macchia che deve riempire di vergogna chiunque coltivi il disprezzo verso l’altro». +Europa rilancia sullo ius culturae, Fratoianni (SI) punta l’indice contro «i post cinici dei politici sui turisti dei gommoni e sul colore della pelle». Il Sindaco di Nocera Inferiore preferisce non aggiungere altro: «È l’ora del silenzio». Troppo comodo, è ora di dire la verità, nel rispetto per il giovane Seid e finirla con la strumentalizzazione dei morti.
Il tafazzismo è il masochismo tipico di Tafazzi, il personaggio televisivo ideato da Carlo Turati e interpretato da Giacomo Poretti, componente del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, comparso per la prima volta nella trasmissione Mai dire Gol nel 1995. Il suo interprete più attuale è tale Enrico Letta, al momento Segretario del PD. Tafazzi è stato definito, dallo stesso trio, lo “zero comico assoluto”.
Nonostante la palese e completa insulsaggine del personaggio, il nome Tafazzi è entrato, nel linguaggio comune (tafazzista, tafazzismo), come antonomasia del comportamento masochistico e la cosa è spesso indirizzata all’ambito politico. Già attestato a Repubblica del 16 maggio 1996, p. 11, Commenti (Curzio Maltese). «In Italia alcuni, gli entusiasti della “semplificazione bipartitica” (fino al tafazzismo di certi maestri di pensiero piddino), diranno: è l’alternanza, bellezza! Nella governabilità il ciclo è ciclo, morto il blairismo lì viva il blairismo da noi» (Anubi D’Avossa Lussurgiu, Liberazione, 3 maggio 2008, p. 1, Prima pagina).
Povero Seid, si uccide e la sinistra lo sfrutta
di Renato Farina
Libero, 6 giugno 2021
Seid Visin, 20 anni, si è ucciso. Le fotografie sul campo di calcio mostrano un volto dolcissimo su un fisico perfetto, di quelli che le ragazze ti rincorrono. Adesso è facile intravedere nella piega dei suoi occhi una premonizione, il presagio di una scelta di brutale dolore. E gli specialisti delle «cronaca di un delitto annunciato» hanno rintracciato con sicurezza scientifica il movente: il razzismo. Davvero volete chiuderlo nella bara per il comodo delle vostre analisi sociologiche sul popolo italiano forgiabile per tutti gli usi? Ieri comunità esemplare di cui essere orgogliosi nel mondo per la sua capacità solidale di resilienza alla pandemia. Oggi plebaglia infame che getta dalla rupe Tarpea i bravi ragazzi colpevoli di essere neri. E la riduzione a merce, da piazzare un tanto al chilo, di ciò che non dovrebbe rientrare nel catalogo della propaganda, perché attiene al mistero della libertà. Seid non era anzitutto un ragazzo nero, era un ragazzo.
Quarantatré anni fa si suicidò a Milano un altro ventenne, era di Avanguardia operaia, tutti si accanirono a dare interpretazioni ideologiche. Il grande Giovanni Testori rispose dal fondo di quell’abisso con una domanda: «S. ha scelto la morte. Quale amore cercava?». Un enigma che nessuno può rinchiudere nel perimetro del già saputo. Invece su Seid Visin tutti credono di sapere tutto. Sono disposti a esibire le prove. Hanno identificato la mano assassina. Non qualcosa dentro Seid ma un mostro fuori di lui, e cioè l’odio razziale, e via con l’identificazione degli istigatori di questo suicidio, la pista porta a destra, al popolo che vede male i migranti, gli stranieri, e su su ai leader, alle politiche di chiusura dei porti eccetera.
Promessa del calcio
Seid chi era? Nato in Etiopia, adottato da una famiglia di Nocera Inferiore (Salerno) a sette anni, accolto dal puro amore di genitori splendidi. Bravissimo calciatore, una promessa autentica, selezionato per il Milan, in camera con Donnarumma nella squadra giovanile, il massimo. Rinuncia però al calcio professionistico, non è chiaro perché, ma vuole studiare. Cosa voleva di più? Cosa cercava?
Ed ecco la lettera depositata nel suo cassetto due anni fa. Sensibile com’era percepì l’enorme differenza tra l’esperienza dell’amore appreso in casa e quella del gelo esterno. Lo ha descritto così: «Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone». La sua denuncia era sincera. Basta questo a chiudere il suo caso catalogandolo come delitto razziale? Chi lo ha amato di più lo nega. I genitori del ragazzo hanno dichiarato alla testata locale salernitana Telenuova: «Il gesto estremo di Seid non deriva da episodi di razzismo». I genitori sono pazzi? Censurano il figlio? Coprono omertosamente i mandanti? Impossibile. Hanno voluto che la lettera così amara di Seid fosse letta durante i funerali. Ma guai a consegnare il figlio ai cortei dell’ideologia. Semplicemente rifiutano l’autopsia dell’anima di Seid.
Dinanzi al suicidio di questo ragazzo, in realtà, due risposte tremende sono in gara per il primato della meschinità. La prima è quella dell’indifferenza, la morte degli altri che scivola via. Non mi assolvo. Essa è la più comune, se siamo onesti sappiamo che pochi secondi, e poi si passa ad altro, avendo ciascuno di noi già i suoi guai. Ma questo menefreghismo urta così tanto contro la nostra umanità che, appena uno se ne accorge, si vergogna, e non osa cercare pulpiti per menarne vanto.
In ginocchio
La seconda risposta, che invece esalta sé stessa, consiste nel salire sulle spalle di quel dolore disperato per gridare: guardate Seid, il razzismo l’ha ucciso, se voi foste stati come me, sarebbe vivo e felice. Lo stanno facendo i mass media (Repubblica ha titolato: «Il suicidio di Seid Visin, vittima di razzismo»), Saviano che se la prende con Salvini e Meloni, i politici lestissimi a trasformare il togliersi la vita a vent’ anni in una ghiotta occasione di marketing. Un punto in più nella partita a biliardo del consenso. In questo caso una morte così vale un filotto di birilli, uno strike al bowling. Ma neanche questa nostra polemica dev’essere il centro del caso di Seid. Sarebbe a sua volta meschinità, ideologia dell’anti-ideologia. In ginocchio. Ecco, mettersi un momento in ginocchio. Seid Visin, due anni fa, aveva denunciato in una lettera la sua sofferenza per il clima di ostilità verso gli stranieri in Italia.
Il testo integrale della lettera che Said Visin aveva inviato ad alcuni amici e alla sua psicoterapeuta nel gennaio 2019
Dinanzi a questo scenario socio-politico particolare che aleggia in Italia, io, in quanto persona nera, inevitabilmente mi sento chiamato in questione. Io non sono un immigrato. Sono stato adottato quando ero piccolo. Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera.
Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone. Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro.
Dopo questa esperienza dentro di me è cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco. Il che, quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati, addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler affermare, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato.
L’unica cosa di troneggiante però, l’unica cosa comprensibile nel mio modo di fare era la paura. La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano “Capitano Salvini”. La delusione nel vedere alcuni amici (non so se posso più definirli tali) che quando mi vedono intonano all’unisono il coro ”Casa Pound”. L’altro giorno, mi raccontava un amico, anch’egli adottato, che un po’ di tempo fa mentre giocava a calcio felice e spensierato con i suoi amici, delle signore si sono avvicinate a lui dicendogli: “Goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo paese”.
Con queste mie parole crude, amare, tristi, talvolta drammatiche, non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaporare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente “Vita”.