Due storie dalla serie “la Mafia e lo Stato”. Fallito attentato dell’Addaura a Falcone. “Faccia da mostro”, l’ex poliziotto Giovanni Aiello “associato”

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Riportiamo, dalla serie “la Mafia e lo Stato”, storie di depistaggi, calunnie e delegittimazioni, con un seguito di omicidi eccellenti di giudici. Storie “vecchie” del secolo scorso, che dovrebbero far da lezione per oggi. Il primo contributo – fonte AMDuemila – parla del fallito attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone nella ricostruzione di Andrea Purgatori con Saverio Lodato per Atlantide su La7 del 5 maggio 2021. Il secondo contributo – fonte L’Espresso – parla delle stragi siciliane partendo dal libro Faccia da mostro di Lirio Abbate. “Faccia da mostro, l’ex poliziotto Giovanni Aiello, “associato” al fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, scrive Lirio Abbate, “aiutato in passato da chi ha condotto male le indagini o da chi le ha volute condurre in malo modo, depistando”: “La morte si è portata via Giovanni Aiello prima che lo Stato potesse chiarire al di là di ogni dubbio le sue eventuali responsabilità e il suo coinvolgimento in molti, troppi fatti di sangue. Ma non è mai troppo tardi per cercare la verità. Molti dei protagonisti di questa lunga storia possono ancora parlare. E molti personaggi che sono rimasti nell’ombra possono essere adesso illuminati. Chi è stato “coperto” venga adesso svelato”.

Lodato: ”Falcone mi disse: ‘Sica e La Barbera venuti a Palermo per fottermi”’

La trasmissione Atlantide su La7, condotta da Andrea Purgatori, è tornata il 5 maggio scorso ad occuparsi di mafia e sistemi criminali, partendo dalla “casa delle stragi”, nel quartiere di Fondo Pipitone a Palermo, dove Cosa Nostra incontrava agenti e funzionari di polizia, uomini dei servizi segreti e dove si decisero gli omicidi eccellenti di Rocco Chinnici, Carlo Alberto dalla Chiesa, Ninni Cassarà, dei due poliziotti Nino Agostino ed Emanuele Piazza e il fallito attentato dell’Addaura contro Giovanni Falcone.

Proprio questo delitto mancato è stato ricostruito grazie all’importante contributo del giornalista-scrittore Saverio Lodato, editorialista di Antimafiaduemila.com che al tempo, come corrispondente de L’Unità, ottenne da Giovanni Falcone la famosa dichiarazione sulle “menti raffinatissime” che si nascondevano sull’attentato.
“L’attentato all’Addaura nella sua villa rappresenta un doppio simbolo della storia palermitana – ha ricordato Lodato a Purgatori -. Intanto perché segna il punto più alto dell’isolamento di Falcone all’interno del mondo dell’antimafia già tre anni prima della strage di Capaci. Ma sono anche un simbolo perché per la prima volta si dimostra la fallibilità di un attentato organizzato da mani mafiose. Ma oserei dire che c’è anche un terzo livello simbolico che avremmo tutti capito anni dopo, ma che Falcone capì quel giorno. Giovanni Falcone capì che ormai era finita la favoletta della mafia che a Palermo, in Sicilia, da 30, 50, 100 anni organizzava tutto da sola”.

Lodato ha quindi raccontato alcuni particolari di quella giornata: “Vengo a trovare Falcone quasi su sua sollecitazione perché quell’isolamento che precedeva il suo agguato all’Addaura avrà un’ulteriore sottolineatura naturalmente e Falcone ci teneva a dire una cosa: che aveva capito che dietro la mafia c’erano delle menti raffinatissime che guidavano e concordavano in perfetta sintonia quali erano gli obiettivi, scopi e tattiche della stessa mafia. In quell’occasione lui mi fece un nome: Bruno Contrada, uno dei massimi dirigenti del servizio segreto civile. Contrada, come noto, ha avuto modo di ritornare su questa mia dichiarazione e ricordo, precisando molto correttamente che lui non poteva sapere se Falcone me l’avesse detto o meno, ma volendo anche aggiungere che lui non riteneva di appartenere al novero delle menti raffinatissime alle quali faceva riferimento Falcone”.

Certo è che dopo quel fallito attentato contro Falcone si scatenò un “fortissimo ‘tam tam’ per dire che eravamo di fronte ad un attentato finto; che questo attentato se lo era organizzato Giovanni Falcone in preda al suo protagonismo per poterlo sventare e raggiungere il culmine della sua celebrità. Tempo dopo, dopo il 1989, ebbi modo di chiedere a Giovanni Falcone un giudizio su alcuni dei massimi rappresentanti della lotta alla mafia a Palermo. E anche in quella occasione Giovanni Falcone fu ‘tranchant’. Era arrivato, nell’88, il nuovo capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e si era insediato da qualche mese il nuovo alto commissario Domenico Sica”. Proprio quel La Barbera che “sarà l’autore principale, il regista e l’esecutore principale della creazione del finto pentito Scarantino. Si saprà dopo che era appartenente ai servizi e che era a libro paga di Cosa nostra. Tutto questo allora non si sapeva. Ma Giovanni Falcone di fronte a questi due nomi – Sica e La Barbera – mi disse testualmente: ‘Sono venuti a Palermo per fottermi’”.

Secondo il giornalista “il giorno del fallito attentato all’Addaura è l’inizio dell’agonia di Falcone. Ma è anche l’inizio del tramonto della favola che Cosa nostra facesse o potesse fare tutto da sola. Da quel momento in avanti sarà sempre più chiaro che Cosa nostra era il braccio armato, il braccio militare di pezzi deviati dello Stato, dei servizi segreti, delle istituzioni, di pezzi della massoneria, di pezzi di un’imprenditoria siciliana e non solo. Questo blocco di potere viene in qualche modo svelato dall’attentato all’Addaura perché Falcone capisce che non è solo la mafia.

Il fatto stesso che a 32 anni di distanza non abbiamo ancora la certezza sul giorno esatto in cui dovesse accadere l’agguato, se cioè doveva accadere il giorno della scoperta del tritolo, quando in questa villa erano presenti ospiti di Giovanni Falcone la dottoressa Carla Del Ponte ed il giudice Claudio Lehman che venivano dalla Svizzera per incontrare Falcone, o il giorno prima, ci dice quanto sia stato difficile individuare questa verità”.

Rispondendo ad una precisa domanda di Purgatori su quella che fu la reazione, al tempo, degli organi di informazione, Lodato ha ricordato amaramente che al tempo si era affezionati “ad una narrazione comoda che la mafia faceva tutto da sola, non prendesse input da nessuno anche se l’agguato all’Addaura aveva dimostro esattamente il contrario. Falcone, ancora in vita, poco prima dell’agguato che culminerà a Capaci con la strage, viene accusato da moltissimi giornali e televisioni di essere stato colui che aveva richiamato Tommaso Buscetta – in quel momento sotto protezione in America – per farlo venire clandestinamente a Palermo armandogli la mano per fargli uccidere i Corleonesi che stavano sterminando la vecchia mafia di allora”. Ed infine ha concluso: “Se parliamo di depistaggio l’Addaura è la sede, l’atto di nascita della grande madre di tutti i depistaggi che poi sarebbero venuti negli anni a venire con la strage di Capaci e quella di via d’Amelio”.

Fonte: AMDuemila, 6 maggio 2021.

La rubrica di Saverio Lodato su AMDuemila: QUI.

Ecco chi è la donna del mistero nelle stragi siciliane: per la prima volta svelata la sua identità
Addestrata nella base di Gladio, compare al fianco dell’ex agente sospettato di essere un sicario. Oggi il suo nome viene alla luce grazie al libro Faccia da mostro
di Lirio Abbate
L’Espresso, 3 maggio 2021


La “guerrigliera” che accompagnava agli incontri, con uomini della ’ndrangheta, l’ex poliziotto Giovanni Aiello, meglio conosciuto come “Faccia da mostro”, è una napoletana che ha fatto parte di Gladio. Seguendo la storia di quest’uomo dal volto sfregiato e dal passato inesplicabile si è arrivati a svelare l’identità di una donna misteriosa che oggi ha 64 anni e si chiama Virginia Gargano.

Il boss calabrese Nino Lo Giudice ha detto ai magistrati che “Faccia da mostro” andava ai suoi incontri a bordo di un fuoristrada: «E veniva sempre con una donna, una sua… lui diceva che era una sua amica, ma comunque faceva parte pure dei servizi segreti e la chiamava Antonella […]. Antonella parlava che era un’azionista, era una guerrigliera, che avevano fatto addestramento in Sardegna ad Alghero, nei pressi di Alghero, che era dei servizi segreti». Sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, la procura antimafia di Catania ha avviato un’indagine su di lei, nell’ambito della stessa inchiesta per concorso esterno alla mafia che ha visto indagato Giovanni Aiello. La donna è stata intercettata dai carabinieri fra il 2013 e il 2014. La sua foto era stata inserita dagli investigatori in un fascicolo nell’ambito di un’attività di analisi compiuta dal Servizio centrale antiterrorismo della polizia di Stato e mostrata ai collaboratori di giustizia. E così è emerso, incrociando i dati, che Virginia Gargano rientrava in un elenco di probabili elementi appartenenti alla struttura Stay Behind. In poche parole, Gladio.

Una delle poche donne a far parte della struttura di gladiatori. Finora il suo ruolo è rimasto segreto. La sua identità coperta. Una vita parallela ancora tutta da scoprire, come quella di “Faccia da mostro”, la cui storia è intrecciata con delitti e stragi che hanno modificato il percorso politico e sociale del nostro Paese. Ci sono voluti quasi trent’anni per arrivare a scoprire la sua identità. E scavando nel suo passato emerge come gli inquirenti della Procura nazionale antimafia abbiano dovuto lottare contro «le cose indicibili» che hanno protetto quest’uomo che ha fatto da cerniera fra Cosa nostra, ’ndrangheta e ambienti istituzionali deviati. La stessa cosa vale per le donne. È bene usare il plurale. Perché in più casi le indagini accertano il coinvolgimento di figure femminili nei delitti e nelle stragi, da quella di Capaci (tracce di Dna femminile sono state rilevate su reperti trovati vicino al cratere dell’autostrada) alle bombe di Roma, Milano e Firenze.

Virginia Gargano è bionda, fisico statuario, viso allungato, labbra sottili. L’accento napoletano. Affiliata a Gladio. Ufficialmente disoccupata, possiede un paio di immobili nei quartieri spagnoli a Napoli, che ha dato in affitto e da cui ricava reddito. Ha vissuto a Caserta per trasferirsi a Reggio Calabria. Nel capoluogo calabrese è stata legata ad un uomo che nel 2018 è stato coinvolto in un’inchiesta su ’ndrangheta, riciclaggio e intestazione fittizia di beni. Lui è il cognato di un imprenditore reggino ritenuto collegato al clan Tegano. Nell’estate del 2013 i carabinieri registrano una conversazione tra la coppia, da cui traspare il carattere forte e deciso di Gargano. Una donna determinata. Una madre di famiglia devota ai figli, ma con un passato ingombrante come quello dell’appartenenza a Gladio, e quindi del suo reclutamento nell’organizzazione, che la cerchia delle nuove amicizie create nella città in cui si è trasferita probabilmente non conosce. Apparentemente si mostra come una casalinga, ma di fatto è un personaggio misterioso e carico di sorprese. Come, del resto, il suo ex marito. Nel 1981 si era sposata con un ex campione di nuoto, nonché ex gladiatore, anche lui della lista di Stay Behind e nipote – a suo dire – dell’ex capo della polizia Vincenzo Parisi.

Gli investigatori catanesi hanno cercato le connessioni fra Virginia Gargano e Giovanni Aiello e a parte le dichiarazioni di ex mafiosi, non sembrano esserci stati fra il 2013 e il 2014 punti di contatto fra i due. Su questa “guerriera” è puntata adesso l’attenzione degli investigatori fiorentini che continuano ad indagare sulle stragi del 1993.

La vicenda di questa donna scorre parallelamente a quella di “Faccia da mostro”: un uomo sfigurato, il volto deturpato dalla cicatrice, il look sdrucito, mai appariscente, l’aria un po’ dimessa, trasandata e disincantata di chi sa che vita e morte alla fine sono solo un grosso gioco. Uno stile alla Charles Bronson, protagonista de “Il giustiziere della notte”. Per trent’anni “Faccia da mostro” è sempre stato un passo avanti agli altri, sospettoso e sfuggente. Molti ne parlano, ma nessuno lo afferra. Si è lasciato dietro una scia di sangue: dal 1985 al 1989 è associato all’omicidio dei poliziotti Ninni Cassarà e Roberto Antiochia; quello dell’undicenne Claudio Domino; dell’agente Natale Mondo; del fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura; dell’agguato all’agente Nino Agostino e a sua moglie Ida Castelluccio. E nel nuovo millennio ai collegamenti con uomini della ’ndrangheta. Fatti scioccanti che hanno segnato la Storia d’Italia. Ad accomunare questi delitti non c’è solo l’uomo dal volto sfregiato, c’è pure una lingua di asfalto crepato stretta tra le case del quartiere dell’Acquasanta, ai piedi di Monte Pellegrino e il mare del golfo di Palermo: è vicolo Pipitone. È il regno dei boss Galatolo e Madonia dove i mafiosi, anche quelli latitanti, si riunivano per i loro summit, dove uccidevano i loro nemici o traditori, da dove sono partiti i gruppi di fuoco, compresi quelli che hanno colpito il prefetto Dalla Chiesa, il giudice Chinnici, il commissario Cassarà e quelli che hanno piazzato la bomba all’Addaura davanti alla casa di Falcone e dove si incontravano uomini delle forze dell’ordine corrotti con i Galatolo e i Madonia. Una terra di mezzo.

I collaboratori di giustizia sostengono che “Faccia da mostro” era di casa in vicolo Pipitone. Ma può essere solo e soltanto “associato” a queste tragedie perché a noi è giunta appena l’eco della sua presenza, qualche riscontro nei verbali della polizia e negli interrogatori dei pentiti. Fugaci apparizioni, avvistamenti, tracce del suo passaggio. Ci sono però mafiosi e testimoni che collocano l’uomo dal volto sfregiato in ognuno di questi delitti. E così dopo tre decenni il suo nome salta fuori: Giovanni Aiello Pantaleone, classe 1946. Arruolato in polizia quando aveva diciotto anni, congedato il 12 maggio 1977, a 31 anni, perché dichiarato non idoneo al servizio militare, per gli esiti di una ferita da arma da fuoco alla mandibola destra, sfociati in “turbe nevrotiche post-traumatiche”. Sposato e separato con un’ex giudice di pace. Ha simpatie politiche di estrema destra; è amico del terrorista Pierluigi Concutelli, di cui condivide l’ideologia. E il suo tenore di vita è stato al di sopra delle proprie possibilità economiche, rispetto alla pensione che percepiva.

Negli anni Ottanta, almeno in Cosa nostra, lo cercavano tutti. Negli anni Novanta scompare e non lo cerca più nessuno. Negli anni Duemila si fa fatica a riannodare i fili dei decenni precedenti. Verrebbe da dire che è stato aiutato in passato da chi ha condotto male le indagini o da chi le ha volute condurre in malo modo, depistando.

Per tutti gli anni Novanta, praticamente di lui non si hanno più notizie. È come se il suo compito fosse concluso, come se fosse stato messo “a riposo”. E così è scomparso dai radar, vive solo nei ricordi di chi ha sofferto per causa sua. Vive di sicuro nel cuore e nei pensieri di Vincenzo Agostino, l’uomo dalla lunga barba bianca, il padre di Nino, assassinato perché aveva scoperto il collegamento tra “Faccia da mostro”, il poliziotto Bruno Contrada e i mafiosi Nino Madonia e Gaetano Scotto. Indagando sull’omicidio del poliziotto, il magistrato della Procura nazionale antimafia Gianfranco Donadio arriva a scoprire l’identità dello “sfregiato”. Per il resto l’Italia l’ha ormai dimenticato. Sembra un relitto del passato. Una scoria radioattiva di un’altra era. Nessuno lo cerca più. Non tutti danno credito all’esistenza stessa di questo uomo misterioso. E invece è proprio allora che lo trovano. «Aiello non sarebbe stato mai individuato come quel personaggio estremamente pericoloso appartenente ai servizi segreti [capace] di rapporti criminali con le organizzazioni mafiose, come poi sarà descritto da alcuni collaboratori, se avesse avuto un aspetto fisico direi ordinario, più comune ed anonimo, invece le sue sembianze non sono proprio ordinarie, potremmo dire così, in quanto sia per la struttura del viso, tutt’altro che aggraziata potremmo dire, sia per una cicatrice su una guancia, una evidente deformazione della pelle, la sua immagine si presta ad essere notata e ricordata, ed è un’immagine che poi è associata a quanto si dice sul suo conto, la sua pericolosità, finisce per essere descritta in termini piuttosto impressionanti, è noto il soprannome Faccia di Mostro», dicono i pm Umberto De Giglio e Domenico Gozzo nella requisitoria per l’omicidio di Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio che ha portato nelle scorse settimane alla condanna all’ergastolo di Nino Madonia.

Il 21 agosto 2017 il misterioso ex poliziotto muore sulla spiaggia di Montauro in provincia di Catanzaro. Il suo decesso viene attribuito a cause naturali.

La morte si è portata via Giovanni Aiello prima che lo Stato potesse chiarire al di là di ogni dubbio le sue eventuali responsabilità e il suo coinvolgimento in molti, troppi fatti di sangue. Ma non è mai troppo tardi per cercare la verità. Molti dei protagonisti di questa lunga storia possono ancora parlare. E molti personaggi che sono rimasti nell’ombra possono essere adesso illuminati. Chi è stato “coperto” venga adesso svelato.

Foto di copertina: illustrazione di Emanuele Fucecchi/L’Espresso.

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