Il Papa emerito Benedetto XVI oggi compie 93 anni. Disse: “Dovremo fare in modo che una idea conti più di una immagine”. Ad multos annos Santità!
Non potrei esprimere meglio la mia riconoscenza per il Papa emerito Benedetto XVI, che non l’hanno fatto oggi due amici, Andrea Gagliarducci e Marco Macini, giovani vaticanisti “della vecchia scuola del giornalismo” (e questo è un complimento, specialmente nei giorni di oggi, in cui tanti con la doppia spunta blu, perdono le penne nel senso virtuale e dovrebbero lasciarle nel senso reale, occupandosi di altro ma non di comunicazione), che fanno parte della squadra di Angela Ambrogetti con ACI Stampa. La comunicazione vera non è passare veline, fare marchette e narrazione.
Prima di cedere il passo ad Andrea e Marco, vorrei ricordare di Angela il suo libro “Sull’aereo di papa Benedetto. Conversazioni con i giornalisti”, edito dalla Libreria Editrice Vaticana nel 2013, l’ultimo anno del suo pontificato (e l’ultimo anno del mio servizio alla Santa Sede, dopo aver servito ancora per alcuni mesi Papa Francesco). In questo volume sono state raccolte le interviste che Papa Benedetto XVI ha tenuto con i giornalisti durante i suoi Viaggi Apostolici (34, a cui ho partecipato tutti). In particolare nel testo si trovano risposte ampie ed esaurienti su argomenti di grande impatto mediatico, quali la crisi economica, gli abusi sessuali, la pedofilia, l’immigrazione, la nuova evangelizzazione, la libertà religiosa.
A differenza del precedente volume della stessa autrice, in cui erano state raccolte le interviste fatte a Papa Giovanni Paolo II, sempre durante i suoi Viaggi Apostolici (146, di cui ho partecipato a 94), lo stile della conversazione non è improvvisato bensì preparato (anche se negli ultimi anni Joaquín Navarro-Valls mi fece sondare su quali argomenti i giornalisti ammessi al Volo Papale avrebbero posti la loro attenzione), in quanto le domande sono state formulate dai giornalisti per iscritto qualche giorno prima della partenza. Tuttavia, anche le risposte di Papa Benedetto XVI – nonostante siano state preparate, e raggruppate e assegnate a dei giornalisti ammessi al secondo dei criteri settoriali, linguistici e geografici – sono sempre dirette e sincere. È un volume per tutti, che permette di conoscere la umanità e trasparenza di Papa Benedetto XVI. Svariate fotografie aiutano il lettore a rivivere l’atmosfera di quegli incontri. Sono presenti inoltre le prestigiose testimonianze di Mons. Georg Gänswein, il Segretario Particolare di Sua Santità, che ha scritto la Prefazione del volume, e di Padre Federico Lombardi, S.I. Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, della Radio Vaticana e del Centro Televisivo Vaticano, che nell’Introduzione fornisce dei chiarimenti sul metodo utilizzato per porre le domande al Santo Padre.
Ad multos annos, Benedetto XVI! La sua eredità
di Andrea Gagliarducci
Vatican Reporting, 16 aprile 2020
“Dovremo fare in modo che una idea conti più di una immagine”, aveva detto Benedetto XVI a Joaquín Navarro-Valls, Direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Ed è stata questa la grande sfida di Benedetto XVI da Papa, e di Joseph Ratzinger da teologo e professore: mettere in luce le idee, portarle avanti, nutrirle, perché attraverso le idee si cerca la verità. Per farlo, utilizza un mezzo di comunicazione straordinario, eppure così sottovalutato oggi: il libro.
Benedetto XVI è un uomo che comunica con i libri, o che comunque dà al suo pensiero il respiro di un libro. Sbaglia chi pensa che i “mezzi” della comunicazione siano neutri. Tutti hanno un loro linguaggio, e tutti vanno letti secondo il loro linguaggio. Ma sbaglia anche chi pensa che il mezzo cambi le persone. Ogni persona dà ad un mezzo il suo respiro, il suo ritmo, le sue caratteristiche. E Benedetto XVI ha il respiro dei libri.
Per questo, si devono leggere i suoi libri per apprezzarne in appieno il suo ragionamento. E si devono leggere i suoi libri per comprendere la sua vita e il suo pontificato. C’è, in Benedetto XVI, una aderenza cristallina a quello che scrive. Lui scrive perché crede, e crede perché sente che tutto è ragionevole, logico, consequenziale. Ed è così che lo racconta.
Nel giorno del 93esimo compleanno di Benedetto XVI, vale la pena ripercorrere la sua biografia a partire proprio dai suoi libri. Ed è necessario partire da un libro centrale: il secondo volume del Gesù di Nazareth.
La chiave di tutta la vita e la storia di Benedetto XVI è stato questo approccio alla storia di Gesù. Un approccio genuino, vero, che si scrollava di dosso della freddezza del metodo storico critico. I Vangeli sono veri, e dunque raccontano una storia vera. Si deve partire da quella prospettiva, e non da altre prospettive.
Il capitolo sulla Resurrezione del secondo volume di Gesù di Nazareth è stato probabilmente quello più difficile da scrivere, per Benedetto XVI. Come raccontare lo stupore degli apostoli di fronte a un Dio crocifisso. Come definire un Messia che era arrivato, ma aveva portato un mondo nuovo completamente diverso da quello che si pensava? C’era un mondo nuovo, dato dalla Resurrezione. Ma continuava a persistere il mondo vecchio, non era arrivata la fine dei tempi. Si chiedeva ai cristiani di vivere, e di vivere pienamente. E si chiedeva di avere l’apertura di mente di rileggere i segni della storia, reinterpretare la scrittura. Quella di Gesù crocifisso e risorto è una verità che si propone all’uomo. E l’uomo deve saperla cogliere.
La trilogia di libri su Gesù è un progetto che Benedetto XVI aveva accarezzato a lungo. Era parte di un lavoro teologico lungo una vita, che si era nutrito però anche di vita vera. Ratzinger aveva cominciato la sua carriera di teologo dopo una esperienza pastorale come viceparroco nella Chiesa del Preziosissimo Sangue. Fu una esperienza determinante.
L’ascolto delle confessioni gli fece comprendere che non c’è più una Chiesa di pagani diventati cristiani, ma c’era piuttosto una Chiesa di cristiani che si autodefiniscono cristiani eppure sono pagani. Ne venne fuori un saggio, “I nuovi pagani e la Chiesa”, che parte da un dettaglio per guardare all’universale. È l’Europa stessa la culla di questa perdita di identità, è l’Europa che ha favorito questa “paganizzazione”.
Questo tema resta forte in tutto il pensiero di Ratzinger, tanto che nel 1992 scriverà il volume “Una svolta per l’Europa”, e poi nel 2004 “Senza radici” con Marcello Pera.
L’Opera Omnia di Benedetto XVI consta di 16 volumi, ed è significativo che il primo volume pubblicato sia stato “Teologia della Liturgia”, l’undicesimo della serie. Lo ha deciso lo stesso Benedetto XVI, il quale ha spiegato nell’introduzione che “la liturgia della Chiesa è stata per me, sin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita”.
Si comprende da qui la “rivoluzione tranquilla” di Benedetto XVI. Questa non aveva riguardato solo la riforma delle strutture, che era piuttosto una conseguenza. Nasceva proprio dall’esigenza di mettere al centro la fede nella verità di Cristo.
A piccoli passi, il Papa ha chiesto che il crocifisso fosse posizionato al centro dell’altare, poi ha disposto che quanti prendevano la comunione dalle sue mani l’avrebbero dovuta prendere in ginocchio, poi ha liberalizzato il rito straordinario, con una decisione che ha creato polemiche e controversie ma che in realtà era parte di un progetto di unire la comunità cristiana.
Perché “la Chiesa si costituisce sempre intorno ad un altare”, sottolineava Ratzinger ne “Il Popolo di Dio in Sant’Agostino”, primo volume della serie dell’Opera Omnia che non è altro che la tesi di dottorato che Ratzinger portò a termine nel 1950. E il popolo di Dio – continuava Ratzinger – è un popolo eucaristico.
Togliere questa dimensione spirituale al pensiero di Benedetto XVI è togliergli tutto. Il pensiero del Papa emerito non si può piegare ad interpretazioni politiche. Guarda in alto, chiede al mondo di guardare alla verità e di approcciarsi alla verità con umiltà e volontà di capire.
Un compito difficile, e difficilmente interpretabile da molti. Eppure, basterebbe questo per riuscire davvero a vedere Benedetto XVI dalla sua prospettiva. Un esempio? L’uso della parola “demondanizzazione” durante il suo ultimo viaggio in Germania, nel 2011.
I discorsi di quel viaggio sono probabilmente tra le pietre miliari del Pontificato. Benedetto XVI ha messo a nudo le pretese politiche di chi pensava che l’ecumenismo potesse essere fatto con iniziative di tipo “politico”, come la revoca delle scomuniche, e ha invece portato come dono ecumenico ad Erfurt la comune preghiera a Dio. Ha messo in crisi la Chiesa tedesca che si nutriva della grandezza e della organizzazione delle sue strutture, e ha sottolineato che la fede deve essere il fondamento, mettendo in luce il rischio di rendere una funzione anche il sacerdozio. E ha parlato della demondanizzazione della Chiesa, necessaria proprio per tornare alle origini. Una demondanizzazione così necessari che Benedetto XVI aveva definito le ondate di secolarizzazione come provvidenziali per riportare la Chiesa alla sua essenza.
Ma questa demondanizzazione va letta proprio a partire dalla ecclesiologia di Ratzinger. Un pensiero che si fondava sul pensiero di Agostino e sui Padri della Chiesa, anticipando molti dei temi del Concilio Vaticano II.
Leggendo il tutto da questa ottica, comprendiamo che per Ratzinger essere “attorno all’altare” non significa chiudersi di fronte al mondo, alla collaborazione con gli stati, all’uso del beni per la carità. Non è uno “spiritualismo” che allontana il Popolo di Dio dalla realtà. Al contrario, permette al credente di essere nel mondo, ma non del mondo. È così che il credente porta la “nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel Corpo di Cristo, come un elemento di trasformazione che Dio stesso porterà a compimento quando questa storia sarà ormai giunta al suo traguardo”.
Demondanizzare è trasformare e unire, e per farlo la Chiesa ha un mezzo che ha radici antichissime: il diritto canonico, l’unico diritto realmente globale e universale del mondo, sul quale Benedetto XVI ha incardinato una parte della sua rivoluzione tranquilla.
Antonio Rosmini sosteneva che “la persona umana è l’essenza del diritto”, e Benedetto XVI fece sue queste parole in occasione del ventesimo anniversario della promulgazione del codice di diritto canonico. E poi continuò: “Lo Ius Ecclesiae non è solo un insieme di norme prodotte dal Legislatore ecclesiale. È in primo luogo la dichiarazione autorevole dei doveri e dei diritti che si fondano nei sacramenti e che sono quindi nati dall’istituzione di Cristo stesso”.
Basta riguardare i libri di Ratzinger per rileggere il Pontificato. E serve guardare anche un po’ avanti, a quel terzo volume del Gesù di Nazareth. Perché come la Resurrezione è il compimento della storia, la nascita ne rappresenta l’inizio. In fondo, spiega Benedetto XVI, le parole della scrittura sono “come vagabonde, finché non nasce Gesù”.
In “Immagini di speranza. Le feste cristiane in compagnia del Papa”, Joseph Ratzinger si chiede chi riconobbe Gesù. E trova la risposta nel Vangelo di Matteo: a non riconoscere fu Erode e “tutta Gerusalemme con lui”, ovvero i dotti, gli specialisti dell’interpretazione.
“E la nostra posizione qual è? – si chiede Ratzinger– Siamo tanto lontani dalla stalla appunto perché siamo troppo raffinati e intelligenti per questo? Non ci perdiamo anche noi in una dotta esegesi biblica, nei tentativi di dimostrare l’inautenticità o l’autenticità storica di un certo passo, al punto da divenire ciechi nei confronti del Bambino e non percepire più nulla di lui? Non viviamo anche noi troppo in ‘Gerusalemme’, nel palazzo, racchiusi in noi, nella nostra autonomia, nella nostra paura di persecuzione, sì da non riuscire più a percepire di notte la voce degli angeli, unirci ad essa e adorare?”
Ed è qui che si comprende che il pensiero di Benedetto XVI è un pensiero davvero popolare, perché guarda al popolo. Un popolo reso vivo dalla fede cristiana, in grado di leggere i segni di Dio. Un popolo eucaristico, di credenti, che non vive di contrapposizioni, ma di proposte. Un popolo che accoglie la verità di Dio senza sovrastrutture politiche ed ideologiche, e la porta poi nella vita concreta.
È un popolo che fa il mondo e fa la storia. Ma è un popolo che guarda alle cose di lassù. Rileggere Benedetto XVI è fondamentale. Glielo dobbiamo, per comprendere davvero il suo pontificato. Perché probabilmente quel pontificato non potrà essere capito per anni, in quanto la sua dimensione comunicativa non si fermava nello spazio di un discorso o di un gesto. Era la comunicazione di una vita.
Vale la pena dirlo oggi, nel giorno del compleanno del Papa emerito. Ad multos annos, Benedetto XVI!
Benedetto XVI e il senso della malattia
Oggi il Papa Emerito compie 93 anni, ripercorriamo le sue catechesi sul significato della malattia in questa pandemia di Coronavirus
di Marco Mancini
ACI Stampa, 16 aprile, 2020
Papa Benedetto XVI compie oggi 93 anni. Il Papa emerito è nato, infatti, il 16 aprile 1927 a Marktl am Imm, in Baviera. E in questo difficile tempo di pandemia siamo certi che la preghiera di Papa Benedetto sia incessante. E proprio in questo periodo segnato dall’emergenza coronavirus vogliamo omaggiare – nel giorno del suo compleanno – Benedetto XVI ricordando alcuni suoi interventi circa il senso della malattia.
“L’esperienza della guarigione dei malati – spiegava il Papa nell’Angelus dell’8 febbraio 2009 – ha occupato buona parte della missione pubblica di Cristo e ci invita a riflettere sul senso e sul valore della malattia in ogni situazione in cui l’essere umano possa trovarsi. Nonostante che la malattia faccia parte dell’esperienza umana, ad essa non riusciamo ad abituarci, non solo perché a volte diventa veramente pesante e grave, ma essenzialmente perché siamo fatti per la vita, per la vita completa. Giustamente il nostro istinto interiore ci fa pensare a Dio come pienezza di vita, anzi come Vita eterna e perfetta. Quando siamo provati dal male e le nostre preghiere sembrano risultare vane, sorge allora in noi il dubbio ed angosciati ci domandiamo: qual è la volontà di Dio?”.
“È proprio a questo interrogativo che troviamo risposta nel Vangelo. Gesù – proseguiva Papa Benedetto – non lascia dubbi: Dio – del quale Lui stesso ci ha rivelato il volto – è il Dio della vita, che ci libera da ogni male. I segni di questa sua potenza d’amore sono le guarigioni che compie: dimostra così che il Regno di Dio è vicino, restituendo uomini e donne alla loro piena integrità di spirito e di corpo. Dico che questa guarigioni sono segni: non si risolvono in se stesse, ma guidano verso il messaggio di Cristo, ci guidano verso Dio e ci fanno capire che la vera e più profonda malattia dell’uomo è l’assenza di Dio, della fonte della verità e dell’amore. E solo la riconciliazione con Dio può donarci la vera guarigione, la vera vita, perché una vita senza amore e senza verità non sarebbe vita. Il Regno di Dio è proprio la presenza della verità e dell’amore e così è guarigione nella profondità del nostro essere. Si comprende, pertanto, perché la sua predicazione e le guarigioni che opera siano sempre unite: formano infatti un unico messaggio di speranza e di salvezza”.
Il Papa poi pronunciava parole che oggi sembrano quanto mai attuali. “Grazie all’azione dello Spirito Santo, l’opera di Gesù si prolunga nella missione della Chiesa. Mediante i Sacramenti è Cristo che comunica la sua vita a moltitudini di fratelli e sorelle, mentre risana e conforta innumerevoli malati attraverso le tante attività di assistenza sanitaria che le comunità cristiane promuovono con carità fraterna e mostrano così il vero volto di Dio, il suo amore. È vero: quanti cristiani – sacerdoti, religiosi e laici – hanno prestato e continuano a prestare in ogni parte del mondo le loro mani, i loro occhi e i loro cuori a Cristo, vero medico dei corpi e delle anime! Preghiamo per tutti i malati, specialmente per quelli più gravi, che non possono in alcun modo provvedere a se stessi, ma sono totalmente dipendenti dalle cure altrui: possa ciascuno di loro sperimentare, nella sollecitudine di chi gli è accanto, la potenza dell’amore di Dio e la ricchezza della sua grazia che salva”.
Nel Messaggio per la Giornata Mondiale del Malato del 2012, Benedetto XVI spiegava poi il senso e il significato dell’Unzione degli Infermi.
“Il momento della sofferenza, nel quale potrebbe sorgere la tentazione di abbandonarsi allo scoraggiamento e alla disperazione, può trasformarsi – sottolineava – in tempo di grazia per rientrare in se stessi e, come il figliol prodigo della parabola, ripensare alla propria vita, riconoscendone errori e fallimenti, sentire la nostalgia dell’abbraccio del Padre e ripercorrere il cammino verso la sua Casa. Egli, nel suo grande amore, sempre e comunque veglia sulla nostra esistenza e ci attende per offrire ad ogni figlio che torna da Lui, il dono della piena riconciliazione e della gioia”.
Il Sacramento dell’Unzione degli Infermi – osservava ancora Papa Benedetto – “ci porta a contemplare il duplice mistero del Monte degli Ulivi, dove Gesù si è trovato drammaticamente davanti alla via indicatagli dal Padre, quella della Passione, del supremo atto di amore, e l’ha accolta. In quell’ora di prova, Egli è il mediatore, trasportando in sé, assumendo in sé la sofferenza e la passione del mondo, trasformandola in grido verso Dio, portandola davanti agli occhi e nelle mani di Dio, e così portandola realmente al momento della Redenzione. Ma l’Orto degli Ulivi è anche il luogo dal quale Egli è asceso al Padre, è quindi il luogo della Redenzione. Questo duplice mistero del Monte degli Ulivi è anche sempre attivo nell’olio sacramentale della Chiesa segno della bontà di Dio che ci tocca. Nell’Unzione degli Infermi, la materia sacramentale dell’olio ci viene offerta, per così dire, quale medicina di Dio che ora ci rende certi della sua bontà, ci deve rafforzare e consolare, ma che, allo stesso tempo, al di là del momento della malattia, rimanda alla guarigione definitiva, alla risurrezione”.
“Questo Sacramento – concludeva il Papa – merita oggi una maggiore considerazione, sia nella riflessione teologica, sia nell’azione pastorale presso i malati. Valorizzando i contenuti della preghiera liturgica che si adattano alle diverse situazioni umane legate alla malattia e non solo quando si è alla fine della vita, l’Unzione degli Infermi non deve essere ritenuta quasi un sacramento minore rispetto agli altri. L’attenzione e la cura pastorale verso gli infermi, se da un lato è segno della tenerezza di Dio per chi è nella sofferenza, dall’altro arreca vantaggio spirituale anche ai sacerdoti e a tutta la comunità cristiana, nella consapevolezza che quanto è fatto al più piccolo, è fatto a Gesù stesso”.