San Carlo Borromeo. Il cristianesimo semplice che ama il popolo e l’ininterrotta amministrazione dei Sacramenti agli appestati
In questi tempi di una nuova pestilenza moderna, sotto forma di Coronavirus, è stata più volte evocata la figura del grande vescovo-pastore della città di Milano, San Carlo Borromeo. La sua forza, ancora viva e attuale, e la sfida a cui cercò di rispondere, con tutto se stesso, diventando un modello per l’intero popolo cristiano rimasto fedele a Roma dopo le fratture dolorose dello scisma protestante, è di una provocatoria “attualità”. In tempi di chiese e confessionali chiuse. Ma l’Inferno Dio l’ha chiuso per Coronavirus?
Virus pateravegloria
di Emanuele Boffi
Tempi.it, 3 marzo 2020
Niente celebrazioni causa coronavirus. Non accadde con la peste né sotto i bombardamenti. I virologi facciano i virologi, ma i preti potrebbero fare i preti?
È stato un po’ strano domenica andare a Messa in salotto. Qui nel Milanese ci hanno spiegato che, causa coronavirus, era meglio se ce ne stavamo a casa, e guardarci la Messa sulla Rai. C’era un prete dalla faccia simpatica e perfettamente rotonda, così come il suo accento pesarese, una bella pattuglia di chierichetti, il coro, le signore in prima fila agghindate come a una sfilata e gli uomini incravattati come fossero a un matrimonio (non li biasimo, un certo narcisismo televisivo è peccatuccio assai perdonabile).
A casa tua, dico
Solo che era un po’ strano essere seduti sul divano e “guardare” la Messa. Non solo perché non si è potuto fare la comunione (particolare non esattamente trascurabile, mi pare), immergere le mani nell’acquasantiera e, insomma, perdere tutta quella gestualità che ha senso in chiesa, ma non a casa, a casa tua, dico, con le Barbie e il Ken di tua figlia abbandonati sul tappeto a 20 centimetri da un aggeggio che trasmette ciò che sta avvenendo a 400 chilometri di distanza.
Occhio al pateravegloria
Era un po’ strano perché, anche se le letture erano le stesse, la liturgia la stessa, i movimenti e i gesti dell’officiante gli stessi, la Messa non era la stessa. Non c’era la chiesa e non c’era nemmeno la Chiesa, intesa come comunità, se non in quella porzione minuscola che è la tua famiglia, che va bene, ma la sensazione è quella di perdersi qualcosa. E non si capisce perché dobbiamo perderci questo “qualcosa” solo se siamo in chiesa, ma non al ristorante o al bar o sulla metro. Il virus è più letale mentre reciti il pateravegloria?
La gente alle Messe feriali
Qui in Lombardia, come in altre parti d’Italia, hanno sospeso le Messe feriali, a Padova, mi dicono, pure le confessioni, e qualche domanda non dico “cattolica”, ma di puro buon senso, viene a galla: era proprio necessario? Va bene togliere l’acquasantiera, va bene non stringersi la mano allo scambio della pace, ma se la comunione basta prenderla con le mani anziché in bocca e basta stare a un metro di distanza (avete presente quanta gente c’è alle Messe feriali? dai), c’era bisogno di tutto questo?
Ma fare i preti?
Ho letto diverse interviste a cardinali e arcivescovi che esprimono il loro malumore e invitano a cogliere l’occasione come un’opportunità per riscoprire il valore della liturgia, favorendo un lavoro di “silenzio” e di “introspezione”. Io, che sono un povero cattolico con la fede al lumicino, che mi distraggo a Messa e non vi dico sul divano, che il “silenzio” riesco a farlo solo se sono in mezzo a molti altri in silenzio, mi chiedo cosa tutto ciò significhi e soprattutto se non sia una scusa un po’ arrendevole di fronte a una direttiva emanata dal potere pubblico. Che i virologi facciano i virologi e i politici i politici, ma i preti – se non è chiedere troppo – potrebbero fare i preti?
La processione di san Carlo
L’altro giorno, lo storico Andrea Riccardi ha scritto sulla Stampa un articolo molto arguto e condivisibile, soprattutto “fastidioso” rispetto alla sonnacchiosa docilità con cui i nostri sacerdoti paiono essersi piegati all’emergenza.
«Le chiese non sono solo “assembramento” a rischio, ma anche un luogo dello spirito: una risorsa in tempi difficili, che suscita speranza, consola e ricorda che non ci si salva da soli. Non voglio rammentare Carlo Borromeo, nel 1576-77, il tempo della peste a Milano (epidemia ben più grave del coronavirus e combattuta allora a mani nude): questi visitava i malati, pregava con il popolo e fece scalzo una folta processione per la fine del flagello. Di certo la preghiera comune in chiesa alimenta speranza e solidarietà. Si sa come motivazioni, forti e spirituali, aiutino a resistere alla malattia: è esperienza comune».
Una bomba sotto la panca
Riccardi cita san Carlo, ma, per stare temporalmente più vicini a noi, oggi potremmo citare i cristiani che in Nigeria, Egitto, Burkina Faso, Iraq, Pakistan, Indonesia, Sri Lanka vanno a Messa a Pasqua o a Natale rischiando non qualche starnuto, ma qualche bomba piazzata sotto le panche. Eppure ci vanno, e ogni anno siamo qui a fare la conta delle stragi e dei morti. Eppure in quelle zone la fede cresce, i seminari brulicano di giovani, gli oratori sono pieni di bambini e non di “diversamente giovani” che giocano a canasta, e lo dico col massimo rispetto.
I primi cristiani
Ha scritto ancora Riccardi:
«Il sociologo americano Rodney Stark, scrivendo sull’ascesa del cristianesimo nei primi secoli, nota come fu decisivo il comportamento dei cristiani nelle epidemie: questi non fuggivano come i pagani fuori dalle città e non sfuggivano agli altri, ma, motivati dalla fede, si visitavano e sostenevano, pregavano insieme, seppellivano i morti. Tanto che il loro tasso di sopravvivenza fu più alto dei pagani per l’assistenza coscienziosa, pur senza medicamenti, e per il legame comunitario e sociale. I tempi cambiano, ma le recenti misure sul coronavirus sembrano banalizzare lo spazio della Chiesa, rivelando la mentalità dei governanti».
La fede di interisti e juventini
Insomma, non voglio metterla giù dura né fare la predica, poi ci si può anche arrangiare, per l’amor di Dio, ma è solo che si vorrebbe un po’ più di decisione da parte dei nostri pastori, un po’ più di sangue nelle vene, e non questa mesta rassegnazione, nel difendere il momento della Messa. Almeno una parola, dico, che spieghi bene che quello in chiesa non è un “assembramento” e non avviene per “futili motivi”, come fosse un raduno qualsiasi di sardine.
Non accadde sotto i bombardamenti, non accadde ai tempi della peste e del colera, succede oggi, in un’indifferenza oltremodo remissiva. Quelli che tifano Juve e Inter, cui hanno tolto la loro Messa pallonara domenicale, hanno protestato di più. Si vede che di “vera fede” è rimasta solo quella calcistica.
Al Meeting di Comunione e Liberazione di Rimini del 2011 fu presentata una mostra dal tema “San Carlo Borromeo: la casa costruita sulla roccia”, dedicata alla vita, all’opera e al carisma di uno dei padri rifondatori della tradizione del cattolicesimo degli ultimi secoli. Uno dei quadri della mostra era “San Carlo Borromeo comunica gli appestati” di Antonio d’Enrico detto Tanzio da Varallo.
L’importanza di questo quadro, che illustra il celebre episodio in cui Carlo Borromeo nell’epidemia della Peste del 1576 officia la comunione agli appestati, fu spiegato da Danilo Zardin in un articolo su Il Sussidiario del 17 agosto 2011, da cui cito una parte:
Carlo Borromeo è stato uno dei protagonisti di primo piano della potente ondata di rinnovamento del cattolicesimo europeo del Cinque e Seicento. E se si vuole capire davvero il mondo di cui siamo eredi, vi è da dire che il dialogo con le speranze e gli ideali scaturiti dalla forza di una fede incarnata nell’orizzonte della vita di tutti è assolutamente non scavalcabile: sia che si parli di politica, di economia o di arte, di musica, di scienza, di filosofia, di cultura. San Carlo è riconosciuto come uno dei grandi leaders che hanno dato impulso all’ardita impresa di rinsaldare il legame tra la coscienza cristiana e la ragione, la presenza della Chiesa e la vita intera della società, capovolgendo debolezze e arretramenti che avevano segnato il declino della cristianità medievale ma si presentavano ormai come una camicia di forza insopportabile, davanti a un risveglio che portava a dilatare il fermento di una nuova vitalità fino agli estremi confini di un universo per la prima volta spalancato in senso planetario. Tutto ciò, oggi, può sembrare epico, grandioso e persino commovente.
Ma lo splendore delle avventure di uomini vissuti quattro secoli fa non sarebbe nemmeno percepibile senza un tramite che ci rimetta in contatto diretto con esse. C’è bisogno di un ponte gettato sopra il baratro delle enormi distanze, che faccia risorgere per noi e ci renda di nuove “contemporanee” le cose successe in un’epoca che poi abbiamo dovuto lasciare alle spalle per procedere spediti in avanti.
Non ci interessava tanto ribadire l’esaltazione dei suoi grandi meriti e sottolineare per l’ennesima volta la vastità dell’influsso esercitato con il suo culto reso universale nel mondo. Piuttosto ci premeva mettere in luce che cosa ha generato l’intensità eccezionale della sua tempra di uomo. Da quali vene segrete sono venute fuori la fecondità della sua azione instancabile e il fascino di una testimonianza capace di una presa così duratura nel tempo? Come ha fatto a fiorire il carisma di una dedizione ostinata all’ideale diventato un tutt’uno con la sua esistenza, fino al culmine di una donazione totale di sé per il bene di una umanità amata con l’amore di un padre pieno di compassione e di benevolenza?
Predicazione, educazione alla fede, riforma del clero, liturgia, sacramenti, proposta del “vivere cristiano” come regola accessibile a tutti, anche nello spazio della famiglia e del lavoro quotidiano dei laici; realismo di una sapienza capace di investire tutti gli aspetti della realtà e di segnare l’inizio di un nuovo incontro tra la religione e il mondo profano. Ci furono consensi, adesioni, entusiasmi. Ma anche resistenze, contestazioni, polemiche, un attentato a colpi di arma di fuoco… Successi e sacrifici intrecciati uno dopo l’altro, fino al culmine drammatico della peste violenta che colpì la città nel 1576 e fece del vescovo Carlo il punto di riferimento per tutti, lo scudo di protezione sotto il quale raccogliersi per ristabilire una nuova amicizia tra il popolo e la legge troppo trascurata di Dio. Anche da qui venne lo scavo in una maturità sempre più acuta, sempre più coinvolgente. Dove alla fine su tutto trionfa, come roccia sicura a cui appoggiarsi per costruire una vita proiettata verso il suo bene più autentico, l’incandescente carità dell’amore di un uomo che risponde a una chiamata e cambia se stesso. Risponde con la sua fragile libertà allo spettacolo dell’amore “sconfinato” e totalmente gratuito di Dio, che si espande dalla croce e dalle piaghe di Cristo come dono che dà senso a ogni ricerca e ad ogni dolore dell’uomo mendicante di tutto.
Faccio seguire il racconto di Giovan Pietro Giussani – sui celebri episodi della vita di San Carlo Borromeo, che nella terribile epidemia di peste del 1576 amministrò e fece amministrare i Sacramenti agli appestati – nella speranza che possa essere di aiuto, e di esortazione, a non sviare ulteriormente dal cammino della pietà e della fede nella potenza divina.
Per evitare di essere nuovamente etichettato da “reazionario”, “massone” (sic!) e “adoratore di statue”, aggiungo per inciso, che la mia condivisione del testo del Giussani del 1610 che segue, non vuol dire che intendo sottovalutare o negare le misure di precauzione e di ricerca scientifica per contrastare la diffusione e cercare la cura della pestilenza dei nostri tempi.
Innanzitutto, intendo sottolineare – non escludendo altro – che per un credente la preghiera incessante e il mettersi fiducioso nelle mani del Signore, deve essere la sua prima preoccupazione.
Per il resto, mentre ci laviamo “con estrema cura per almeno 20 secondo, più volte all’ora” le mani, approfittiamone a farci un esame di coscienza a che punto sta il livello della nostra fede.
Verso la fine del 1605 Giovan Pietro Giussani fu incaricato dalla Congregazione degli oblati di Sant’Ambrogio e stimolato dal Cardinale Cesare Baronio (storico, Oratoriano di San Filippo Neri e Cardinale Bibliotecario di Santa Romana Chiesa), di comporre una Vita di Carlo Borromeo. A conferma della fiducia che il Cardinale Federico Borromeo (cugino di Carlo e Arcivescovo di Milano dal 1595 al 1631) ebbe in Giussani, giunse la nomina al Collegio dei conservatori della Biblioteca Ambrosiana (inaugurata il 7 settembre 1610), come uno dei tre rappresentanti del clero cittadino, carica che conservò a lungo.
Nel 1610 Giussani pubblicò, in sincronia con la canonizzazione da Papa Paolo V, a soli 26 anni dalla sua morte, la “Vita di San Carlo Borromeo”, il cui autografo è conservato nella Biblioteca Ambrosiana. Nella dedica del volume a Papa Paolo V da parte della Congregazione degli oblati di Sant’Ambrogio, fondata dal Borromeo, si dice che Giussani fu incaricato dalla Congregazione di compilare il volume perché era stato intimo del santo e suo collaboratore nel governo della diocesi di Milano. Nella prefazione ai lettori, Giussani stesso precisa di aver conosciuto San Carlo fin da ragazzo, quando tornò da Roma per guidare la diocesi di Milano (quindi la conoscenza del Borromeo risalirebbe al 1560, cioè vent’anni prima dell’ordinazione suddiaconale) e di averlo poi seguito, in “lunga, et intima servitù”, fino alla morte. Giussani aggiunge che San Carlo lo mise spesso a parte dei gravi problemi del governo della diocesi e che, oltre alla Congregazione degli oblati, molti altri lo avevano spinto a scrivere questa biografia; in particolare dal Cardinale Cesare Baronio ricevette anche alcuni consigli su come impostare lo scritto. Prosegue dicendo che, a differenza delle molte biografie del santo già uscite, la sua intendeva rispettare maggiormente l’ordine cronologico degli avvenimenti, che mancava nelle altre. Inoltre, sempre su consiglio del Cardinale Baronio, Giussani riporta di aver tradotto dal latino in volgare lettere e brevi pontifici, affinché lo scritto fosse comprensibile a tutti. Infatti, “La Vita di San Carlo Borromeo” ebbe una fortuna notevole.
San Carlo Borromeo
e l’ininterrotta amministrazione
dei Sacramenti tra gli appestati
di Giovan Pietro Giussani
da “Vita di San Carlo Borromeo”, 1610
Aveva fin da principio della peste fatta determinazione san Carlo di fare tutti gli uffici di buon pastore verso il suo gregge e amministrargli anche i santissimi sacramenti in evento di bisogno; e sovvenendogli come alcuni morivano di pestilenza senza aver ricevuto il sacramento della confermazione (non essendo egli solito in tempo di sanità di amministrarlo a fanciulli di manco età di nove anni affinché lo ricevessero con qualche cognizione e riverenza) e dispiacendogli assai che passassero da questa vita privi di tanto bene si risolvé di volerlo amministrare, benché non sia sacramento di necessità alla salute, e pensò di darvi principio in Milano.
Fece adunque avvisare che ognuno che non fosse cresimato si preparasse a riceverlo degnamente; e facendo provvedere delle cose necessarie, andava vestito pontificalmente per tutte le contrade della città amministrandolo alle porte delle case, mentre ancora si faceva la quarantena, con quella maggior riverenza ch’egli poteva in quell’occasione; e trovò gran numero di persone che non erano cresimate le quali riceverono questo sacramento con molto contento e con segni di particolare divozione. È tanto grande e piena di popolo la città di Milano che sebbene il santo arcivescovo cresimava ogni anno nel tempo della Pentecoste in diverse chiese della città gente assai, si trovarono però ancora molte migliaia di persone che in questa occasione furono confermate non senza fatica del beato pastore e fu tenuto che molti infermi di mal contagioso fossero unti da lui perché girò in tutte le parti della città eziandio ov’era il sospetto della pestilenza.
Quando poi uscì a visitare la diocesi come si dirà nel capitolo seguente volle cresimare ancora gli appestati per non lasciarli morire senza questo sacramento e vi diede principio nella terra di Sesto posta sulla strada di Monza ove la peste aveva fatto grandissima strage. Mentre egli cresimava in questa terra vide molti infermi di quel male contagioso i quali mostravano desiderio di essere cresimati. Egli dimandò parere a Lodovico Moneta che cosa dovesse fare Il buon sacerdote non volle dargli consiglio alcuno in una cosa tanto pericolosa ma gli rispose che l’avrebbe aiutato quando l’avesse fatto. Mentre se ne stava così sospeso non sapendo far risoluzione ecco che molti di quegli infermi mossi da straordinario desiderio di quel sacramento gli si avvicinarono per essere unti e correndo i ministri che li curavano e sgridandoli con molte minacce per farli ritirare, san Carlo disse allora ciò vedendo: “Orsù non mettiamo più in dubbio questo fatto poiché non a caso ma per volontà divina si sono i poverelli presentati: lasciateli venire che vogliamo consolarli”. Con molta fortezza di animo adunque egli cresimò tutti quelli che vennero da se stessi ed avendo terminato ne vide alcuni altri non poco discosti che non si erano mossi dal proprio luogo e dimandando perché non venivano gli fu risposto ch’erano troppo aggravati dal male e pericolosi di morte. Rispose egli: “Dobbiamo dunque lasciarli morire senza questo sacramento? Fateli pur venire” e gli unse tutti. Non mise poi più difficoltà alcuna ma andò continuando nelle altre terre a cresimare tanto gli appestati quanto i sani indifferentemente ancorché fossero in caso di morte. Però gli occorse di cresimare più volte dei moribondi e nel castello di Trezzo uno gli cadé ai piedi morto subito che l’ ebbe finito di ungere.
Nelle visite ch’egli faceva degli infermi amministrava parimente il sacramento del battesimo perché alle volte trovava figliuoli nati alle capanne e dalle madri sospette ed infette di peste e per il pericolo che vi era della vita li battezzava in quella necessità e li mandava poi alle nutrici deputate per allevarli. Trovò una putta nera come un carbone in una capanna, nata da una donna appestata ed egli la battezzò e la fece allattare dalle capre ma di questo caso ne parleremo in un altro luogo per uno stupendo miracolo ch’egli fece poi dopo morte invocato dalla medesima persona da lui battezzata.
Si compiacque la Maestà divina di consolare il servo suo in quello ch’egli molto desiderava permettendogli occasione di amministrare ancora i sacramenti della comunione ed estrema unzione a curati ed altri sacerdoti che servivano agli infermi come già aveva promesso loro di fare.
Gli venne riferito che il curato di san Raffaele in Milano si era infermato di peste e che stava male ed egli incontamente andò a visitarlo al letto- E conoscendo l’infermità esser gravissima e mortale l’avvisò di prepararsi per ricevere i santi sacramenti di sua mano, assicurandolo come non l’avrebbe abbandonato in quella sua infermità e che però se ne stesse di buon animo.
La mattina seguente ritornò per comunicarlo e dargli l’estrema unzione, al cui fine celebrò la messa in quella chiesa e comunicò il chierico di questo sacerdote che morì di peste: dipoi mutò i paramenti per inviarsi ad amministrare i sacramenti all’infermo nella propria camera. I ministri che lo servivano furono assaliti allora da tale spavento per l’orrore di un simil fatto che tutti in volto pallidi e tremanti divennero, essendovi presenti tra gli altri monsignor Seneca e l’abate Bernardino Tarugi i quali siccome non osavano impedire la pietosa azione del santo così non ardivano di seguirlo e di cooperargli in un azione tanto pericolosa.
Ed ecco che mentre san Carlo in abito pontificale col sacramento in mano s’inviava verso l’ammalato, sopraggiunsero Giovanni Battista Capra vicario di provisione che fu poi senatore, accompagnato da Alfonso Gallarato suo luogotenente, fatto similmente senatore, e da molti altri cavalieri milanesi del consiglio generale della città; i quali avendo presentito che il cardinale voleva impiegarsi in fare questa funzione tanto spaventosa erano venuti in nome della città per pregarlo a non voler mettere a sì gran rischio la vita sua. Però inginocchiati tutti avanti di lui lo supplicarono con molte lagrime in nome della città ad aver riguardo alla persona sua e a non esporsi volontariamente ad un pericolo tale qual era quello di comunicare un appestato e darvi l’estrema unzione; posciaché quest uffizio lo poteva fare per mezzo di un altro sacerdote, avendone egli condotti seco alcuni apposta per simil effetto, i quali si esibivano di farlo prontamente per salvare a lui la vita. Gli ricordarono che se egli per mala ventura fosse morto infettandosi di quel male contagioso la povera città restava abbandonata affatto ed un tanto numero d infermi di poverelli e bisognosi ed un popolo così grande qual era quello di Milano sarebbe caduto in disperazione e vedevasi la povera città e la diocesi tutta posta quasi in ultima rovina; conciossiachè nella persona di lui stava appoggiata la speranza e l’aiuto di ognuno. Perciò mancando egli ch’era il sostegno del suo caro popolo, correva pericolo che molti si dessero in preda alla disperazione per vedersi privi di quanta speranza avevano in questo mondo; che gli aiuti spirituali introdotti da lui con tanta pietà sollecitudine e fatiche sariano del tutto cessati con detrimento e perdita delle povere anime; che gli altri sacerdoti che servivano a poveri infermi nelle cose sacre con tanta prontezza e carità mossi dall’esempio e calde esortazioni di lui si sariano infiacchiti e perduti d’animo veggendosi mancare il capo e la guida; onde non se ne poteva aspettar altro che mali infiniti da ogni parte. Lo pregavano adunque per le viscere di Gesù Cristo e per quanto amore egli portava alla sua città e popolo che si degnasse di esaudire le loro preci e quando non volesse aver riguardo alla persona sua l’avesse almeno al bisogno estremo di tanti suoi figliuoli spirituali per i quali lo supplicavano con ogni istanza ed affetto possibile.
Stette sempre san Carlo fermo col santissimo sacramento in mano a sentire tutto questo discorso e benché le lagrime che vedeva cader dagli occhi in abbondanza a questi suoi amorevoli cittadini l’intenerissero assai interiormente non si lasciò però movere né indurre a condiscendere alle pie dimande loro, per lo stretto legame dell’obbligo suo pastorale dal quale si sentiva spingere a fare l’uffizio che a lui apparteneva di vero vescovo e pastore. Laonde con un animo intrepido e tutto fermo in Dio con brevi ed amorevolissime parole rispose a quel signori ringraziandoli prima di tanto amore e pietà che mostravano verso di lui dipoi soggiunse pregandoli che non dispiacesse loro se faceva quell’uffizio imperocché era proprio carico suo e che così gli conveniva fare, essendo egli il pastore dei curati; e che non avrebbe potuto giustamente esortare gli altri sacerdoti ne ridurli ad assistere alla cura del poveri infermi se egli ch’era il capo ed arcivescovo loro non avesse soddisfatto prima al proprio debito di tener conto di loro e servirli nelle loro infermità come già con parole aveva più volte promesso.
E quando a Dio nelle cui mani è posta la vita e morte nostra fosse piaciuto di chiamarlo a sé, in quell’occasione non dovevano per questo travagliarsi né affliggersi anzi avevano da confidar di più nella misericordia divina dalla quale dipendeva tutto l’aiuto della città e che quando il Signore avesse levato lui, avrebbe provvisto di un altro pastore miglior di sé, e però si contentassero che seguisse a soddisfare al carico suo.
A queste gagliarde ragioni non seppero i signori replicar altro, né parve loro di far altra istanza vedendolo tanto risoluto nel suo proposito mostrarono solamente con raddoppiare il pianto quanto fosse intenso il dolore che sentivano nel cuore a vederlo stimar più la salute di un privato sacerdote che la propria vita per il dubbio che avevano della perdita sua.
Continuò egli adunque il viaggio e giunto alla camera dell’infermo fece fermar di fuori i ministri suoi ed entrato al letto lo comunicò e veggendolo all’estremo della vita l’unse anche con l’olio santo secondo il rito ordinario di Santa Chiesa e con paterne esortazioni lo dispose a fare quell’ultimo transito con molta quiete e conformità alla volontà di Dio. Onde ben armato dei santi sacramenti ed animato dal suo arcivescovo e ricevuta da lui l’indulgenza plenaria e la paterna benedizione passò da questa vita.
[…]
S’era sparsa la peste quasi per cento castelli e terre della diocesi di Milano e vi faceva notabil progresso, il che recava gran travaglio a san Carlo per vedere tanto afflitto il suo gregge e gli accresceva molto le fatiche; e la pastorale sua sollecitudine temendo sempre che non fosse provvisto appieno ai bisogni di tutti i luoghi e persone, con tutto chè avesse usato in ciò ogni possibile diligenza, e con mandare ordini e regole di quanto osservare si doveva per ogni parte ed avesse commesso strettamente ai prepositi plebani, ai vicari foranei ed anche ai curati che con ogni diligenza possibile si curassero gl’infermi e si provvedesse loro con carità cristiana di tutte le cose bisognevoli, massime spettanti alla salute delle anime; e che ad esempio di Milano attendessero a placare l’ira divina con orazioni, processioni ed altre opere pie. Onde non potendo egli per allora abbandonare la città finché le cose non erano bene assettate, mandò frattanto alla visita della diocesi alcuni suoi ministri di molta autorità e prudenza, con ampie patenti di poter andare liberamente per tutti i castelli e ville a loro piacere senza esser impediti dagli ordini fatti dal magistrato secolare, affinché potessero provvedere a quanto faceva di bisogno.
Non mancarono alcuni di mettervi difficoltà con dire che appartenesse al detto magistrato di concedere somiglianti licenze, la quale fu prestamente levata da san Carlo con ragioni tanto ben fondate che quei tali si quietarono lasciando che egli desse simili facoltà a tutti i suoi ecclesiastici.
Provvisto ch’ebbe al buon governo della città ed avendo occupato il suo popolo in quei santi esercizi di sopra narrati, gli parve tempo di poter uscire alla visita della diocesi senz’altro pericolo. Perloché elesse alcuni pochi dei suoi e se ne andò visitando diligentemente tutti i luoghi infetti di peste, mettendovi gli ordini buoni osservati in Milano e provvedendo ai bisogni degli infermi e di chi pativa qualche necessità, inducendo i ricchi ad impiegarsi prontamente in aiuto dei poveri ed a soccorrerli con le facoltà loro.
Pareva che all’apparire di questo benedetto santo ognuno ricevesse la vita e che egli sgombrasse dai petti dei poveri infermi ed afflitti ogni angustia e timore; e con molta ragione, posciaché non si potrebbe esprimere il vivo affetto di carità ch’egli mostrava a tutti nel consolarli, nell’animarli a soffrire con gran coraggio i dolori del pestifero male, le necessità ed altri mali congiunti, per amor di Dio, in penitenza dei peccati commessi e per acquistare i beni inestimabili dell’eterna vita. Quelli poi che ritrovava in caso di morte li disponeva a morir bene, concedeva loro indulgenza plenaria e con paterni conforti li consolava. Faceva buon animo a ministri degli appestati, li esortava a servirli con ogni carità e diligenza ed infiammava i sacerdoti nello zelo della salute delle anime e nel fervore delle opere pie, acciocché non mancassero in cosa alcuna nella buona cura del loro popolo, massime dei poveri infermi.
Si serviva di quest’occasione della pestilenza per fare gran frutto in tutti i popoli, eziandio nei luoghi sani imperciocché predicava la parola di Dio con molta forza di spirito, atterrendo i peccatori con mostrar loro che Iddio era adirato contro di essi e che perciò aveva messo mano al flagello della peste per castigarli tutti se non emendavano la vita. Riprendeva i vizi liberamente correggeva gli abusi e pregava tutti per le viscere della misericordia di Dio a convertirsi di cuore al Signore ed a far vera penitenza del loro peccati e declamava assai contro i peccati pubblici massime contro quegli uomini empi che profanavano i giorni sacri con giuochi, balli ed opere servili ,ma soprattutto detestava le vane pompe ed i profani ornamenti delle donne mondane, come cosa tutto aliena dalla pietà cristiana e ch’è causa d’infiniti scandali e peccati e che move Iddio a mandare talora castighi severi dal cielo.
Al cui proposito occorse appunto in quel giorni un caso tremendo nella terra d Inzago dove la pestilenza faceva allora grandissima strage. Mentregli visitava questo luogo e riprendeva pubblicamente i narrati abusi e peccati, vide a caso una donna ornata troppo vanamente, alla quale fece una grave riprensione perché in tempo di tanta calamità ella ardisse di comparir in pubblico così sfoggiatamente vestita, soggiungendole somiglianti parole: “Misera che non pensate alla vostra salute e non siete sicura di esser viva domani”. Questa povera sgraziata si trovò morta all’improviso la mattina seguente: cosa che riempì di timore chi lo seppe e l’infelice caso di questa meschina non fu senza frutto notabile degli altri.
Attendeva egli poi alla frequente amministrazione dei santi sacramenti della comunione e della confermazione e tanto cresimava gl’infermi di peste quanto i sani indifferentemente in modo tale che quelle visite furono molto favorite da Dio e partorirono copiosissimo frutto.
Essendosi fabbricate in campagna le capanne nei luoghi infetti di peste al modo di Milano, egli ordinò che anche vi si facessero le cappelle di legname nelle quali si dicesse messa ogni giorno e si amministrassero i santi sacramenti acciò niun anima restasse priva delle cose sacre.
Perché si seppellivano i morti fuori delle terre, ad esempio pure di Milano, consacrava poi in cimiteri quei luoghi con occasione della visita, nella qual funzione fece gravi fatiche e patì assai per il gran tempo che vi spendeva facendo quelle congregazioni con le solite cerimonie compitissime, contuttoché fosse in campagna ed alla scoperta del sole ed anche vi si sentisse fetore talvolta insopportabile per la puzza che usciva dalla moltitudine del cadaveri putrefatti appestati.
Rese tra gli altri luoghi stupor grande la consacrazione del cimiterio fuori della terra predetta d’Inzago, perché la moltitudine de morti ivi sepolti mandava tanta puzza nell’aria per la terra riscaldata che l’avvicinarsi solamente pareva cosa intollerabile; nondimeno il buon servo di Dio andò in persona sopra il luogo e lo consacrò con lunghe cerimonie stando col capo scoperto a raggi cocenti del sole, con tanta quiete come se fosse stato in un ornata chiesa piena di profumi odoriferi.
Onde si vedevano benissimo verificati maravigliosamente in lui gli effetti della carità descritti dall’apostolo san Paolo quando dice charitas patiens est omnia suffert omnia sustinet etc (1Cor, XIII). Gli premeva tanto la cura del suoi infermi sparsi per tanti luoghi della diocesi e la loro assistenza nella città, ov’egli era pur troppo di bisogno per tenere in regola un popolo così numeroso, che cavalcava sempre con fretta grandissima per poter soccorrere ad ogni luogo e fuori e dentro. Perciò faceva la visita della diocesi interrotta, andando più volte ora in una parte ed ora in un altra, dormendo pochissimo la notte e senza spogliarsi, seduto sopra una sedia ovvero sopra qualche banco o tavola. Fuggiva di dormire in letto perché alloggiava per lo più nelle terre appestate come sospetto di peste per non correre rischio di prender male. Mangiava ordinariamente nelle pubbliche piazze e strade stando a cavallo, eziandio che fosse in luoghi sani ov’era servito dai principali nobili, ritirati in quel tempo nelle loro ville, i quali non avevano timore alcuno di avvicinarsi a lui per l’opinione comune ch’egli non potesse infettarsi di pestilenza per grazia speciale di Dio.