Perosi e il Motu proprio di Pio X

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Gli ideali di restaurazione del concilio Vaticano I diedero l’apertura all’evoluzione del movimento ceciliano che ispirò, tramite padre Angelo De Santi sj, la stesura del Motu Proprio “Tra le sollecitudini” di Pio X. Dopo appena tre mesi dalla sua elezione, avvenuta il 4 agosto 1903, il 22 novembre dello stesso anno, papa Sarto emanò il Motu Proprio sulla musica sacra. Il documento fu redatto, dunque, a due mani: da Pio X e da padre De Santi.

La prima metà del XX secolo ha assistito, nel campo della musica sacra, a un cammino unanime di rinascita liturgica che ha trovato i suoi punti di forza nell’applicazione entusiasta e fiduciosa delle piste indicate autorevolmente dal Motu Proprio. È fuori dubbio che l’intervento del Papa risentiva dei condizionamenti del periodo storico e culturale in cui era inserito, mentre la prassi sapeva cogliere lo spirito del documento per andare oltre i suoi stessi limiti. In particolare, certe prese di posizione radicali, come contro il “convenzionalismo” teatrale, trovavano spiegazione nella necessità di frenare con determinazione gli abusi e gli eccessi dell’epoca.

Allo stesso tempo, l’esigenza di difendere l’integrità del testo liturgico tenne ancora lontana la lingua viva. La Schola cantorum fu, di preferenza, ancora “clericale“. I laici potevano essere ammessi tra i cantori soltanto se erano “uomini di conosciuta pietà e probità di vita”, dovevano vestire la cotta ed essere separati da grate. Anche il repertorio religioso popolare fu escluso dalla liturgia ufficiale, ma solo nel documento, mentre nella prassi ci sarà tutto il rifiorire di canti popolari religiosi, in lingua viva, destinati al popolo, ma anche ai Cori formati da laici.

Per comprendere la prospettiva in cui si muove il Motu Proprio, occorre non dimenticare che tale documento si affianca, o ne è una diretta conseguenza, all’opera di rinnovamento promossa da Solesmes e dalle Associazioni ceciliane che puntavano lo sguardo sulla travagliata ricerca di un “ideale di musica sacra”. Tale ricerca fu l’impegno del movimento riformatore che indicava in negativo i mali da combattere e in positivo le caratteristiche da perseguire. Proprio questa impostazione, dal negativo al positivo, fu un primo indice della mentalità del tempo che, prima di tutto, voleva colpire gli abusi con determinazione e, poi, dare qualche indicazione in positivo che, di fatto, restò marginale. Si sa che, nella mente di chi recepisce un documento, resta in primo luogo il negativo, mentre il positivo rimane spesso nelle buone intenzioni; ciò favorisce una mentalità di chiusura e di difesa piuttosto che di apertura agli aspetti positivi della novità.

Vediamo, in sintesi, i vantaggi e gli svantaggi del Motu Proprio. I vantaggi: l’impulso verso il “disgelo liturgico”, l’estirpazione di enormi abusi, la valorizzazione di uno stagionale aggiornamento stilistico che coincide, di fatto, con il modello perosiano, e il dono di un canto gregoriano in via di restaurazione, perché più conforme alle fonti originali. Gli svantaggi: l’assolutizzazione del documento e il clima di difesa apologetica, l’arresto del linguaggio musicale, la mancanza di apertura verso il nuovo e la fissità di prassi nella musica celebrativa.

La risposta al Motu Proprio trova la sua attuazione nella figura di Lorenzo Perosi, tenace sostenitore del documento e, in quel tempo e a suo modo, anche geniale innovatore. Nell’alveo della mitologia palestriniana, Perosi concorda il gusto di una solennità vocale e il sapore melodico dell’opera, con un linguaggio semplice e istintivo, personale e comunicativo. La sua indole, in certo modo “anticontrappuntista”, lo distanzia dalla scuola polifonica tedesca e gli consente di armonizzare temi di una cantabilità elevata e accessibile, semplice e nobile. Scrive Luigi Garbini: «Perosi appare sulla scena come l’ultimo anello di una catena di musicisti che, pur avvertendo l’urgenza di una riforma della musica liturgica, sono stati all’interno dello spirito del tempo, senza perdere la propria individualità artistica» (Breve storia della musica sacra, il Saggiatore, pag. 376).

Il giovane Lorenzo Perosi non s’improvvisa musicista come i pigri e gli insufficienti. Inizia, infatti, la sua attività artistica nell’abbazia di Montecassino, poi, compiuti gli studi musicali al Conservatorio di Milano e presso la Kirchenmusik Schüle di Ratisbona, approda a Imola. In seguito, prima di essere chiamato a Venezia per dirigere la cappella Marciana, si reca a Solesmes, centro di profondi studi sul canto gregoriano. Infine, approda in Vaticano, come Direttore “perpetuo” della Cappella Sistina.

La grandezza e la creatività della musica di Perosi giustifica ogni sforzo per non lasciare cadere nell’oblio un’esperienza tanto forte e significativa, dal momento che quella musica rimane sempre nel cuore di tutti; un’esperienza religiosa e musicale originalissima, seminata nel solco della contemporaneità.

Il canto gregoriano, da Perosi amato e scoperto sin dalla giovanile esperienza a Montecassino, lascerà in lui un ricordo incancellabile. Egli sentiva profondamente questo canto e lo riteneva il più aderente alle forme liturgiche, sebbene accogliesse allo stesso tempo forme più moderne e già vagliate dallo spirito della musica per la liturgia. Perosi non prese mai parte alle polemiche di allora, ma studiò i codici originali e più tardi si recherà a Solesmes per approfondire il suo studio. Fatto sta che, ancor prima del Motu Proprio che indicava le fonti gregoriane come supremo modello di ogni musica per la liturgia, Perosi aveva già inserito, a suo modo, l’antica ispirazione liturgica del canto gregoriano nella propria calda musicalità.

I risultati più felici di tale saggia e consapevole presa di posizione li troviamo nelle venticinque messe e negli innumerevoli mottetti. Perosi non fece mai opera di freddo archeologo. Non riprodusse tutta l’atmosfera gregoriana con i suoi toni e con i suoi ritmi, insomma non creò un nuovo stile da chiesa – l’auspicato terzo stile –, ma gli bastò prendere dall’antichità ciò che era più consono alla sensibilità musicale del suo tempo senza mai perdere la sua individualità artistica. Una delle caratteristiche dell’esperienza perosiana è proprio il suo essere legato alla tradizione, ma con grande libertà interiore ed esplosiva fantasia.

Perosi soleva dire che, nella musica propriamente sacra, aveva cercato di lavorare non solo in simplicitate cordis ma anche in simplicitate artis. Semplicità di cuore e semplicità di arte: espressione sintetica ed efficace con cui metteva in pratica, in quel tempo e a suo modo, le norme del Motu Proprio di Pio X e anticipava così quanto poi il concilio Vaticano II avrebbe detto con decisione, vale a dire che, nel promuovere e favorire un’autentica arte sacra, era necessario piuttosto ricercare una nobile bellezza che una mera sontuosità (cf SC 124).

C’è una frase particolarmente eloquente attribuita a Perosi: «Gli uomini del mio tempo non vogliono sentire il vangelo: io li costringerò ad ascoltarlo in musica». E a chi gli domandava se l’avesse mai veramente pronunziata, rispondeva: «Non ricordo… ma è certo che in quella frase è contenuto uno dei miei propositi sacerdotali, che ho cercato di attuare nella mia umile opera di musicista». Non dunque una glorificazione accademica o un auto-ascolto compiaciuto per una musica che, nella celebrazione liturgica, canta solo di sé e per sé, ma canto e musica, secondo l’insegnamento illuminante della Sacrosanctum Concilium e, prima ancora, del Motu Proprio di Pio X, che hanno come unico fine «la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli».

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