Il grido lacerato dell’umanità ferita
Chi è quel “Dio” che ti dice di autodistruggerti per assassinare i fratelli in umanità così da aver parte con lui alla vita in un “paradiso” che non esiste?
L’egoismo, generato dalla superbia e dalla presunzione, genera sempre odio, discordia, divisione e distruzione. Il suo vero nome è “schizofrenia”. I mali peggiori sono determinati da un duplice egoismo: quello “individuale” che innesca divisioni nel rapporto interpersonale e quello “sociale” in cui il desiderio del dominio e del possesso determina, in tutti gli ambienti, profani e sacri, il grande caos che legittima guerre feroci.
I rapporti tra individui e società non sono sempre costruiti sulla necessità della convivenza in concordia ma spesso sulla dinamica dell’opposizione. Non si cammina insieme all’altro per ricercare il bene comune e per costruire la civiltà dell’amore ma si vive soltanto per affermare se stessi e far prevalere gli interessi personali.
In un mondo assediato da conflitti d’ogni tipo, parlare di Mistero d’Amore potrebbe sembrare “utopia”, cioè, “discorso senza luogo”. L’arte della fede insegna e conferma che il Mistero d’Amore ha il suo luogo: il cuore, la profondità dell’uomo interiore, lì dove l’Amore pone il suo sigillo.
Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Gaudium et Spes, raccogliendo il grido di dolore di Pio XII e dei suoi successori, ha dato un forte richiamo ai popoli e ai loro responsabili, quello di dichiarare guerra a qualsiasi tipo di guerre: “Mai più guerra; mai più guerra!”. Fu questo anche il grido di vita che ribadì Giovanni Paolo II ad Assisi, il 24 gennaio 2002, in occasione della giornata di preghiera per la pace nel mondo:
Mai più violenza!
Mai più guerra!
Mai più terrorismo!
In nome di Dio, ogni religione porti sulla terra:
Giustizia e Pace,
Perdono e Vita,
Amore!
L’appello della Chiesa è il grido di sempre dell’intera umanità ferita e lacerata dalla violenza, dall’uso delle armi, dalle morti ingiuste e dagli assassini crudeli. Chi semina morte nei fratelli non è degno di chiamarsi uomo: il suo nome è Satana! San Luca ci racconta che quando i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo per togliere di mezzo Gesù, fu quello il momento in cui Satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era uno dei Dodoci (cf 22, 1-3). Satana è il seminatore di distruzione e morte!
Se nel mondo, la carneficina umana aumenta, non può che sconvolgere e indignare l’indifferenza internazionale di fronte a questa specie di macabro orologio della barbarie omicida.
L’esistenza e la diffusione di sofisticati e insidiosi strumenti di morte contraddice gli sforzi che si compiono per la limitazione e il controllo delle più potenti armi di distruzione di massa, in vista di un generale impegno di disarmo. La messa al bando delle armi richiama sia la responsabilità dei fabbricanti sia quella dei mercanti i quali, pur di trarne profitto, compiono gesti vili e obbrobriosi finalizzati a uccidere i fratelli. Le armi di qualsiasi tipo sono sempre strumenti intrinsecamente perversi e iniqui, il loro uso obbedisce alla logica satanica della viltà e del disprezzo. Non possono essere fabbricate né vendute né disseminate senza ledere i principi del diritto, della giustizia e dell’etica.
L’estensione, poi, del triste fenomeno delle popolazioni cacciate dalle loro case e dai loro campi a causa di eventi bellici e la moltiplicazione indegna di profughi e rifugiati, rende ancora più assurda questa minaccia quotidiana che incombe e sovrasta persone investite dal flagello delle guerre.
È urgente, è necessario, è indispensabile, pertanto, che emergano quei sani principi morali capaci di valutare gli aspetti tecnici e operativi per poterli situare nella superiore esigenza del rispetto della dignità umana, della vita e della pace.
Siamo pienamente convinti che armi omicide siano anche le calunnie, le falsificazioni, le lettere minatorie, l’odio, la noncuranza, l’espulsione e ogni gesto diabolico che distrugge l’inviolabile dignità della persona umana che è dono squisito dello Spirito! Sono, inoltre, da rigettare tutte quelle false cortesie connesse ai ruoli e agli incarichi, mentre rimane disattesa, in chi li esercita, la ricezione del bisogno e, in non pochi casi, della persona stessa.
Dinanzi a questi eventi di distruzione e di morte, anche se “gemiamo interiormente” facendo esperienza di tribolazione e pianto, la speranza ci soccorre e ci libera da ogni paura di morte. Bisogna, però, sperimentare la continua prova umana di saper vincere in ciascuno di noi lo sdoppiamento che c’è tra l’”io virtuoso”, in cui l’uomo trova l’equilibrio, e l’”io odioso”, causa della sua frantumazione.
Se la speranza è attesa di pace, la fede ci assicura che noi uomini non siamo “esseri estranei” ma figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza e destinati a condividere la risurrezione del Figlio suo Gesù che subì la morte per ridonare a tutti la vita.
Nella luce pasquale di Cristo, il ricordo dei morti non è nostalgia di chi li pensa finiti per sempre, la memoria orante è speranza di chi crede che all’uomo “la vita non è tolta ma trasformata”. I defunti, viventi in Cristo, attendono, infatti, che si realizzi pienamente la beata speranza della gloriosa risurrezione con Lui. Divinizzati, infatti, dallo Spirito siamo eredi del Regno dei cieli.
Il cristiano, pur vivendo il dramma quotidiano della morte, anche se è inferta dal fratello assassino, con il disfarsi fatale e irreversibile del corpo, guarda il morire come il termine della vita che segna il passaggio alla gloria della risurrezione nel Signore, “Redentore vivo”. Giobbe, pur vivendo drammaticamente la prova dolorosa che ha consumato la sua vita, spalanca, tuttavia, il cuore alla speranza e canta la sua antifona di fede: Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro (Gb 19,23-27). Per il cristiano, Gesù è il Redentore che è risurrezione e vita per chi crede e spera in Lui. Quel che consola è la sicurezza cristiana che, oltre la vita terrena, l’amore non muore, ma permane perché porta in sé il germe dell’immortalità che è la vita divina.
Il nostro cuore, inchiodato alla croce, crede fermamente che il fratello in umanità, passato dalla vita terrena all’eternità, continua a rimanere accanto a noi, anzi, è più presente che mai nel mondo invisibile e reale della comunione dei santi. Il nostro spirito, crocifisso al dolore, penetra nel Regno dell’Amore ineffabile e scopre che Dio è il Padre di tutti che opera attraverso interventi arcani: Mistero imperscrutabile, inaccessibile, drammatico, ma profondamente consolante. Soltanto l’amore della fede è capace di interpretare Dio! Questa fede d’amore diventa il linguaggio d’ogni creatura e ci fa intravvedere, come Mosè sul Sinai, il fuoco d’amore che brucia e non consuma in mezzo ai rovi spinosi della sofferenza.
San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, dipinge la scena consolante di quell’ultimo giorno in cui saremo consegnati al Padre nelle braccia spalancate di Cristo: Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come, infatti, in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però a suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza (15,20-24).
Quando i Padri della Chiesa cercano di configurare la vita del cielo e il segno della gloria, quasi sempre, si riferiscono al gesto del cantare. Sant’Agostino così descrive la vita della gloria: «Là riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo» (La città di Dio, XXII, 3, 5). Quello che sulla terra si attua sacramentalmente nella divina Liturgia, in cielo è già piena realtà. Quello che in terra si contempla mediante la fede, in cielo si vive nella beata visione e nel canto dell’Amen e dell’Alleluia. Amen, dice ancora Agostino, che è contemplazione della Trinità, Alleluia che ne è il godimento. Amen, premio di fede, Alleluia, premio d’amore. Così, il tempo e lo spazio, nati dal Fiat creativo, alla fine dei tempi, saranno immersi nell’Amen glorificativo dell’Alleluia. Allora, il grido lacerato dell’umanità ferita e mortale si trasformerà in canto di gioia perché Dio sarà tutto in tutti.
La vocazione dell’uomo, creato a immagine e somiglianza del Padre, redento dal sangue del Figlio e divinizzato dal Soffio dello Spirito, ha come fine il fascino di creare il paradiso in terra attraverso la concordia universale, anticipando e pregustando il Paradiso dell’eternità beata.