Papa Francesco in Armenia: non usare la fede per fare le guerre
Alle ore 20.30 di domenica 26 giugno papa Francesco è rientrato in Italia dal viaggio apostolico in Armenia, recandosi alla Basilica Santa Maria Maggiore per ringraziare la Vergine Maria per il suo Pellegrinaggio, che proprio nell’ultimo giorno ha visto le proteste della Turchia. Nel tempio liberiano il Papa si è raccolto in preghiera presso l’icona della ‘Salus populi romani’ per la 37^ visita. Al popolo armeno il papa ha twittato: “La Chiesa armena cammini in pace e la comunione tra noi sia piena”.
La giornata conclusiva ha visto papa Francesco e il Supremo Patriarca e Catholicos di tutti gli Armeni, Sua Santità Karekin II, firmare una dichiarazione congiunta in cui si dichiara pretestuosa una visione delle fede che fomenta l’odio, ricordando che “in una solenne liturgia nella Basilica di San Pietro a Roma il 12 aprile 2015, nella quale ci siamo impegnati ad opporci ad ogni forma di discriminazione e violenza, e abbiamo commemorato le vittime di quello che la Dichiarazione Comune di Sua Santità Giovanni Paolo II e Sua Santità Karekin II menzionò quale ‘lo sterminio di un milione e mezzo di Cristiani Armeni, che generalmente viene definito come il primo genocidio del XX secolo’ (27 settembre 2001)”.
La dichiarazione sostiene che il popolo armeno non ha mai dimenticato la propria fede, nonostante le persecuzioni subite nei secoli, che devono essere conservate come memoria per costruire un mondo di solidarietà, pace e giustizia: “Tuttavia, siamo purtroppo testimoni di un’immensa tragedia che avviene davanti ai nostri occhi: di innumerevoli persone innocenti uccise, deportate o costrette a un doloroso e incerto esilio da continui conflitti a base etnica, politica e religiosa nel Medio Oriente e in altre parti del mondo.
Ne consegue che le minoranze etniche e religiose sono diventate l’obiettivo di persecuzioni e di trattamenti crudeli, al punto che tali sofferenze a motivo dell’appartenenza ad una confessione religiosa sono divenute una realtà quotidiana. I martiri appartengono a tutte le Chiese e la loro sofferenza costituisce un ‘ecumenismo del sangue’ che trascende le divisioni storiche tra cristiani, chiamando tutti noi a promuovere l’unità visibile dei discepoli di Cristo”.
Nella dichiarazione si rafferma che è grave far risaltare le religioni come fomentatrici di odio e si ribadisce che i popoli hanno bisogno di pane e non di armamenti: “Imploriamo i capi delle nazioni di ascoltare la richiesta di milioni di esseri umani, che attendono con ansia pace e giustizia nel mondo, che chiedono il rispetto dei diritti loro attribuiti da Dio, che hanno urgente bisogno di pane, non di armi. Purtroppo assistiamo a una presentazione della religione e dei valori religiosi in un modo fondamentalistico, che viene usato per giustificare la diffusione dell’odio, della discriminazione e della violenza.
La giustificazione di tali crimini sulla base di idee religiose è inaccettabile, perché ‘Dio non è un Dio di disordine, ma di pace’ (1 Cor 14,33). Inoltre, il rispetto per le differenze religiose è la condizione necessaria per la pacifica convivenza di diverse comunità etniche e religiose. Proprio perché siamo cristiani, siamo chiamati a cercare e sviluppare vie di riconciliazione e di pace. A questo proposito esprimiamo anche la nostra speranza per una soluzione pacifica delle questioni riguardanti il Nagorno-Karabakh”.
I due ‘capi’ delle Chiese sorelle confermano i progressi avvenuti in questi decenni, auspicando di sviluppare più intensamente le relazioni con una più decisiva collaborazione non solo nella preghiera, ma anche nella teologia: “Esortiamo i nostri fedeli a lavorare in armonia per promuovere nella società i valori cristiani, che contribuiscono efficacemente alla costruzione di una civiltà di giustizia, di pace e di solidarietà umana. La via della riconciliazione e della fraternità è aperta davanti a noi. Lo Spirito Santo, che ci guida alla verità tutta intera, sostenga ogni genuino sforzo per costruire ponti di amore e di comunione tra noi”.
Ancora una volta la Chiesa ha auspicato la riconciliazione tra le nazioni e la collaborazioni tra le religioni, cosa che in sottofondo è apparsa non gradita alla Turchia, che attraverso il vice premier, Nurettin Canlikli, ha criticato l’uso del termine ‘genocidio’ per tutto il Caucaso e il Medio Oriente: “Possiamo ravvisare tutti i segni e i riflessi della mentalità dei crociati nelle azioni del Papa… Non è una dichiarazione obiettiva che corrisponda alla realtà”.
Ma la storia non vuole i colpevoli, in quanto cerca di ristabilire della verità, come ha affermato il presidente armeno, Serzh Sargsyan, nel saluto iniziale al papa: “Noi non cerchiamo colpevoli… Vogliamo semplicemente che le cose siano chiamate con il loro nome, il che consentirà due popoli confinanti di muoversi verso una vera riconciliazione e un comune futuro prospero, riconoscendo il passato e abbracciando il perdono e una coscienza pulita”.
In più nel colloquio con i giornalisti durante il viaggio di ritorno, papa Francesco ha precisato: “In Argentina quando si parlava di sterminio armeno sempre si usava la parola genocidio e nella cattedrale di Buenos Aires, nel terzo altare a sinistra, abbiamo messo una croce di pietra ricordando il genocidio armeno. Io non conoscevo un’altra parola. Quando arrivo a Roma sento l’altra parola ‘Grande Male’ e mi dicono che genocidio è offensiva.
Io sempre ho parlato dei tre genocidi del secolo scorso: quello armeno, quello di Hitler e quello di Stalin. Ce n’è stato un altro in Africa ma nell’orbita delle due grandi guerre ci sono quei tre. Alcuni dicono che non è vero, che non è stato un genocidio. Un legale mi ha detto che è una parola tecnica, che non è sinonimo di sterminio. Dichiarare un genocidio comporta azioni di riparazione. L’anno scorso, quando preparavo il discorso per la celebrazione in San Pietro, ho visto che san Giovanni Paolo II ha usato la parola, e io ho citato tra virgolette ciò che aveva detto.
Non è stato ricevuto bene, è stata fatta una dichiarazione del governo turco che ha richiamato in pochi giorni l’ambasciatore ad Ankara, ed è un bravo ambasciatore! E’ tornato alcuni mesi fa. Tutti hanno diritto alla protesta. Non c’era la parola nel discorso. Ma dopo aver sentito il tono del discorso del presidente armeno, e per il mio uso della parola, sarebbe suonato molto strano non dire lo stesso che avevo detto l’anno scorso.
Ma venerdì scorso ho voluto sottolineare un’altra cosa: in questo genocidio, come negli altri due successivi, le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte. Durante la Seconda Guerra mondiale, alcune potenze avevano la possibilità di bombardare le ferrovie che portavano ad Auschwitz, e non l’hanno fatto”.
In ciò papa Francesco ha compiuto gli stessi gesti di san Giovanni Paolo II durante il viaggio apostolico del 2001, che nella dichiarazione congiunta con Sua Santità Karekin II aveva affermato: “Il martirio per amore di Cristo divenne così una grande eredità per molte generazioni di Armeni. Il tesoro più prezioso che una generazione poteva trasmettere alla successiva era quello della fedeltà al Vangelo cosicché, con la grazia dello Spirito Santo, i giovani divenissero risoluti quanto i loro antenati nel rendere testimonianza alla verità.
Lo sterminio di 1.500.000 di Cristiani Armeni, che generalmente viene definito come il primo genocidio del XX secolo, e il successivo annientamento di migliaia di persone sotto il regime totalitario, sono tragedie ancora vive nel ricordo della generazione attuale. Gli innocenti che furono massacrati senza motivo non sono canonizzati, ma molti di loro sono stati certamente confessori e martiri per il nome di Cristo…
A motivo della sua fede e della sua Chiesa, il popolo Armeno ha sviluppato un’unica cultura cristiana, che di fatto è un preziosissimo apporto al tesoro del cristianesimo nel suo insieme… Questa testimonianza sarà ancor più convincente se tutti i discepoli di Cristo potranno professare insieme l’unica fede e sanare le ferite della divisione fra loro. Che lo Spirito Santo guidi i Cristiani, ed anzi tutte le persone di buona volontà, sulla via della riconciliazione e della fraternità.
Qui, nella Santa Etchmiadzin, noi rinnoviamo il nostro impegno solenne a pregare e a operare per affrettare il giorno della comunione fra tutti i membri del gregge dei fedeli di Cristo, con riguardo autentico per le nostre rispettive tradizioni sacre”. Sempre la Chiesa ha ribadito il massacro degli armeni alle cancellerie europee, come ha dimostrato l’impegno di papa Benedetto XVI, che aveva scritto al Sultano la sua preoccupazione:
“Maestà, tra le afflizioni che ci procura la grande guerra nella quale si trova coinvolto il potente impero di Vostra Maestà assieme alle grandi nazioni d’Europa, ci spezza il cuore l’eco dei dolorosi lamenti di un intero popolo, che nel territorio governato dagli ottomani è sottoposto a indescrivibili dolori. La nazione armena ha già visto molti dei suoi figli giustiziati, mentre molti altri sono stati arrestati o mandati in esilio.
Tra di loro ci sono anche numerosi religiosi e perfino alcuni vescovi… Noi crediamo, Maestà, che eccessi di questo genere si siano verificati contro la volontà del governo di Vostra Maestà. Per questa ragione ci rivolgiamo, colmi di fiducia nella Vostra Maestà, invitandovi fervidamente, nella Vostra sublime Magnanimità, a dimostrare compassione e a intervenire a favore di un popolo che proprio grazie alla religione nella quale si riconosce, viene invitato a servire fedelmente e devotamente la persona della Vostra Maestà.
Dovessero risultare tra gli armeni dei traditori della patria o persone responsabili di altri crimini, costoro dovranno essere giudicati e puniti in conformità al diritto vigente. Possa quindi la Vostra Maestà in virtù del suo grande senso di giustizia non lasciare che degli innocenti ricevano la stessa pena di chi è colpevole e possa la Vostra sovrana clemenza raggiungere anche coloro che hanno commesso delle mancanze”. Ma la supplica di papa Benedetto XV non trovò riscontro positivo né dal Sultano né dalle diplomazie europee, come ha detto papa Francesco.