Mons. Conti: il Concilio Vaticano II e la sua recezione nelle diocesi

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In occasione della ricorrenza della conclusione del Concilio mons. Luigi Conti, vescovo dell’arcidiocesi di Fermo, Membro della Commissione Episcopale della CEI per il clero e la vita consacrata; membro della Commissione mista Vescovi-religiosi-Istituti Secolari, e fino allo scorso anno presidente della Conferenza Episcopale Marchiana, ha svolto un incontro presso il centro culturale ‘San Rocco’ della città sul Concilio Vaticano II con una propria e diretta testimonianza, in quanto dal 1965 al 1968 è stato docente di musica agli allievi del Pontificio Seminario Romano Minore, e fino al 1978 è stato ufficiale della Congregazione per i Vescovi:

“Sarebbe sufficiente dire che lì, dentro il Concilio, sono nato come presbitero. Infatti gli anni della mia formazione teologica sono stati nutriti sì dai manuali classici ma, simultaneamente hanno respirato l’innovazione che il Concilio stava introducendo nella Chiesa, non solo ad intra ma anche, e soprattutto, nel dialogo con il mondo. Dopo di che il magistero conciliare ha accompagnato integralmente il mio ministero presbiterale ed episcopale.

I miei 50 anni di messa coincidono con i 50 anni dalla fine del Concilio”. Attraverso simpatici episodi ha raccontato il Concilio Vaticano II, in quanto nella terza sessione del Concilio ha accompagnato il vescovo di Urbania, sua terra natale, mons. Capobianco a Roma: “Che cosa facevo io, intimidito chierico, tra tanti big della Chiesa universale? Semplice: custodivo il mio anziano vescovo e durante le sedute conciliari stavo, con altri seminaristi e dipendenti vaticani, tra i ‘tubi innocenti’ sotto le impalcature della navata di San Pietro dove sedevano i 250 Vescovi…

Lì sotto preparavo il caffè o l’uovo sbattuto, poiché i Vescovi seppur sobri non disdegnavano la ‘pausa caffè’, in quello che alcuni, con fare divertito, chiamavano il ‘Bar Jona’. E’ stata per me una vera esperienza di ‘partecipazione al Concilio’ (infatti molto si discuteva e decideva fuori delle sedute ufficiali, nelle case religiose dove i Vescovi erano ospitati) e ne ho ricavato una grande passione per questa Chiesa dal volto coraggioso”.

Ma ha soprattutto apprezzato i documenti conciliari quando il card. Poletti lo destinò parroco in periferia: “Nel 1968 apparve una lettera aperta al sindaco di Roma e indirettamente alla Chiesa. Aveva per tema i mali della città. Non senza contrasti con la gerarchia della Chiesa la inviarono, dalle baracche dell’Acquedotto Felice, un prete e gli alunni (di una scuola simile a quella di Barbiana) al sindaco democristiano della città cattolica per eccellenza, per denunciare le tante e insopportabili ingiustizie e discriminazioni, le intollerabili povertà che non si volevano vedere.

A seguito di quella denuncia scaturì poi la ‘lettera ai cristiani di Roma’ firmata da tredici preti romani, all’inizio degli anni ’70, nella quale essi denunciavano i ritardi nella applicazione del Concilio che non giungeva alle periferie”. Infatti mons. Conti alloggiava nel quartiere popolare di Centocelle ed era tutto nella Chiesa in ‘animazione’ con don Franzoni, don Sardelli, don Lutte, fino al convegno del 1974 sulle ‘Responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia nella diocesi di Roma’:

“Fu animato da don Luigi Di Liegro e da Mons. Clemente Riva, con la discreta supervisione del Card. Poletti. Si registrò allora, non senza aspri contrasti, la fine dell’ ‘Exeant omnes’. Erano infatti maturi i tempi per una presenza del laicato (si pensi a Giuseppe De Rita e Luciano Tavazza) non più passiva. Anche se manca ancora una ricostruzione ‘pacifica’ di quell’evento, la Chiesa di Roma si scoprì capace di muoversi non solo in direzione di San Pietro e dell’abbraccio accogliente del colonnato del Bernini ma soprattutto verso le periferie di un territorio che tendeva già allora a sforare il Grande Raccordo Anulare.

Ricordo un libro del sociologo Ferrarotti che parlava di ‘Roma da capitale a periferia’. Le periferie, piene di immigrati dal Sud, senza lavoro e con tante baracche, erano la parte dolente della cosiddetta ‘città sacra’, una metropoli che perdeva anima e coesione. Oggi, a quarant’anni da quel momento, ricordo che si diceva, con un certo entusiasmo: Il Concilio è arrivato a Roma”.

Da qui ha narrato le esperienze vescovili nelle diocesi di Macerata e Fermo, dove ha incontrato la ricchezza dei movimenti ecclesiali: “Devo peraltro sottolineare che, nonostante l’appello al Concilio che ciascuno di essi fa, nessuna aggregazione laicale ha pienamente incarnato la novità da esso introdotta. Solo in una sinergia e comunione tra di essi sarebbe forse possibile riconoscere i tratti dell’ecclesiologia della ‘Lumen Gentium’ e ne deriverebbe una reale capacità di riconfigurare, in termini di comunione, la dimensione strutturale e istituzionale delle parrocchie e della stessa Chiesa locale: dimensione irrinunciabile, seppure da innovare.

‘Intanto però la Parola di Dio cresceva e si diffondeva’ come negli Atti degli Apostoli e si diffondeva anche l’idea che il Concilio Vaticano II chiedeva una conversione pastorale: una evidente ‘provocazione’ nei confronti di quelle parrocchie, e di conseguenza nell’intera diocesi, che permanevano in un atteggiamento di ‘autoreferenzialità’.

In particolare si affacciavano, nell’orizzonte pastorale, esperienze innovative come la Caritas e Capodarco. Mi è sembrato tuttavia che sia i movimenti che curavano l’iniziazione e formazione ad una fede adulta, sia le strutture caritative che respiravano la ‘Gaudium et Spes’ correvano e, corrono tuttora, il rischio di una ‘implosione’ in mancanza di una sinergia e di una comunicazione espressive di integrazione reciproca e quindi di comunione”.

Mons. Conti ha concluso l’incontro con una riconoscenza verso i papi del Concilio Vaticano II, fino a papa Francesco: “Sono trascorsi 50 anni dalla conclusione del Concilio ed è proprio vero: la recezione del magistero conciliare si realizza nel suo sviluppo, soprattutto nella testimonianza della carità. Si avvicina, per me, il compimento di questa memoria lungo i sentieri aperti dal Concilio e perciò custodisco con affetto il volto delle Chiese particolari che mi hanno generato, plasmato e protetto nella fede, nella speranza e nella carità”.

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