Actio Ecclesiae et opus musicum 4° Il Direttore

Condividi su...

Come dice Thomas Carlyle, colui che dirige un coro deve avere, innanzi tutto, la capacità di un power of insight, cioè, di saper “veder dentro”, di intuire, intus legere;che è capacità propria dei mistici immersi nelle profondità del Mistero. Al di là della facoltà razionale, il direttore di musica deve saper leggere dentro la combinazione delle note e dei ritmi nel pentagramma, esprimendo il potere misterioso dell’in-canto che c’è all’interno della partitura.

Questa capacità strategica, piuttosto che tattica, concentrerà la sua attenzione sul peso dei suoni nella danza dei ritmi: la crescita del volume e della tensione armonica, il controllo della velocità e della dinamica, la percezione di ciò che è verticale dal punto di vista degli accenti, combinato con il discorso orizzontale per tutto ciò che riguarda il fluire della musica-canto nel confluire dell’esecuzione, ricreando e interpretando il pensiero del compositore. Mozart diceva, giustamente, che la musica più profonda sta all’interno delle note perché lì c’è l’infinito ineffabile.

Il vero direttore, inoltre, deve essere in grado di tirar fuori dagli esecutori il meglio delle loro possibilità, non solo artistiche ma anche umane. Il cantore è una persona, non un oggetto. Questo avviene attraverso una profonda conoscenza tecnica della materia vocale e musicale. E’ la tecnica artistica che porta alla luce la segreta bellezza delle cose. Su quell’isola di solitudine, che è il podio, il direttore deve essere capace di gestire la bellezza sonora con grande responsabilità di ri-creatore. Toscanini, scherzando, soleva dire: “Dirigere, può farlo qualsiasi asino. Fare musica dirigendo è, invece, appannaggio di pochi”. In effetti, il direttore, deve possedere una dolce e forte personalità, con spiccate doti di comunicativa mediante il gesto nobile e deciso, tranquillo, sicuro e appropriato, armonizzando l’espressione del viso con il respiro che esce dallo sguardo e dall’entusiasmo del cuore. Per chi vuole dirigere bene, è deleterio per il corpo e per lo spirito, quella sorta di gestualità, nevrotica e inespressiva, indecisa e confusa, che s’arrampica sugli specchi dell’incompetenza e dell’incertezza provocando così nervosismi e malumori, dando l’impressione di declassare gli esecutori che resterebbero soltanto dei “guidati” da un comandante autoesaltato.

Il vero direttore, cosciente del suo ruolo e sapiente nel saperlo esercitare, innanzitutto deve ben conoscere “tutta” la musica e poi possedere quella capacità tecnica, interpretativa, comunicativa e spirituale per fare rivivere le partiture dagli esecutori. Chi legge uno spartito musicale deve saper percepire con lo sguardo e con l’udito, avere l’attitudine di indagare e indugiare sui suoni e sui colori per esplorare l’invisibile attraverso l’udibile, in un’avventura congiunta tra sensibilità e pensiero, tra finezza di percezione e arditezza d’immaginazione.

Il suono è un mistero! Anche se è fatto da vibrazioni d’aria, all’interno della sua realtà fisica, c’è la rivelazione del suo mistero. Questo processo percettivo richiede di guardare e di sentire tutti gli “insieme sonori” determinando il complesso delle unità nascoste. Esplorare dentro un testo musicale significa raggiungere il grado più alto che Wittgenstein chiamava la sensibilità alle connessioni formali, esse permettono di mettere in evidenza le sequenze vive delle forme e dei colori dei suoni. La partitura, incarnando la creatura di chi l’ha generata, torna ad acquisire il volto non comparabile e unico di un altro soggetto. Solo così la ri-creazione diventa co-creazione libera e responsabile, attraverso l’incontro-dialogo tra compositore e ri-creatore, che, crescendo nel tempo dell’infinito, continua a rivivere.

Quando si legge una partitura musicale, l’interprete deve riempirla della propria esperienza. Leggendo immersi nella “logosfera” del testo ci si sente calati in un sogno più vero di ciò che ci circonda. La lettura, infatti, non è mai monologo ma incontro con l’autore che svela e rivela il suo pensiero. La partitura è segno di vita cui si deve continuare a dare vita, custodendone il senso per salvaguardare e riconoscere l’epifania di chi l’ha creata. Il compositore, dunque, è all’origine della creazione, l’esecutore è l’interprete che, nel tempo, ricrea l’opera musicale. Ri-dire oggi quanto si è detto ieri, comporta usare i nuovi linguaggi con rinnovata esperienza estetica che non è soltanto mero ricordare ma fare rivivere l’opera come nuova creatura. L’estetica della musica, così, è integrata nell’etica dell’esecutore e a essa adeguata attraverso una corretta interpretazione. Per raggiungere queste finalità è necessaria la concordanza corresponsabile tra chi dirige e chi esegue.

All’interno della celebrazione liturgica, l’assemblea che si raduna ad Patrem per Filium in Spiritu è Chiesa in edificazione permanente. Tutto ciò che produce passività o inattività o fuga dall’impegno personale e comunitario, è anti-liturgico o aliturgico. L’homo liturgicus cristiano è “sacramentale” per cui la specificità della partecipazione alla divina liturgia è “comunione ministeriale”. I cantori, per chi li dirige, non saranno mai anonimi e incoscienti tasti bianchi o neri da percuotere, essi sono, innanzitutto, veri ministri che celebrano il Mistero cantando per “la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli” (cf Sacrosanctum Concilium 10,17; 112, 204). La santa Scrittura ci istruisce che tutto ciò che non ha queste due finalità di base, degenera in un paralizzante formalismo idolatrico, causa principale della mancanza di rispetto vicendevole, di agitazioni varie per risentimenti individuali o collettivi, di alterazioni di spirito provocate da controversie e subdole vendette che frantumano il Corpo di Cristo ecclesiale. Il direttore del coro liturgico ha il dovere di saper liberare il mondo dagli idoli, dalle magie e dagli specchi narcisistici.

Talvolta, partecipando a certe celebrazioni, si ha quasi l’impressione di assistere a spettacoli religiosi, di alto o basso livello, che non offrono visibilità sacramentale del Mistero celebrato che è fondamentalmente incontro cor ad cor tra Dio e l’uomo. Il canto dell’assemblea riunita non è espressione di lode privata, non è ornamento che si aggiunge alla preghiera dall’esterno ma gesto che “manifesta in modo pieno e perfetto il carattere comunitario del culto cristiano” (IGLH, 270). Il canto della preghiera liturgica è canto sinfonico che coinvolge il mistero di Dio e quello dell’uomo in un dialogo-comunione che è esperienza ed espressione d’amore sponsale sigillato dall’Alleluia pasquale e dall’Amen della fede e della speranza. Solo così il fine che è la gloria di Dio si trasforma in concordia di comunicazione per la santificazione dei partecipanti ai santi Riti. In questa luce, il canto non vale se non stabilisce comunicazione e i musicisti non valgono se non riescono a stabilire comunicazione o peggio, se vi si oppongono, canto e musica non avranno mai efficacia sacramentale: anamnesi-epiclesi che contiene la meraviglia delle opere mirabilia Dei e la dossologia che è dòxa Dei.  

Affinché le nostre liturgie non diventino ipocrite o altre dalla loro genuina natura, i ministri musicali sono chiamati a creare quel clima di bellezza sonora nobile e semplice che sappia rivelare la pregnante espressività che rinveniamo alla fonte della liturgia cristiana: la divina liturgia plasmata da nostro Signore Gesù. Si tratta di ricreare, attraverso il rito cristiano del linguaggio amante, quel clima di accoglienza, di amicizia, d’amore fraterno, di fiducia, di verità, di bellezza, di autenticità sprigionatasi dalla persona di Gesù durante l’ultima Cena. Le indicazioni di sant’Ambrogio sono sempre illuminanti: “Tu ti sei mostrato a me faccia a faccia, o Cristo: io ti trovo nei tuoi sacramenti” (Apologia del profeta Davide, 12, 58). La celebrazione della divina liturgia non ha lo scopo di mostrare le belle forme artistiche, anche quelle, ma se quelle, nella misura in cui, attraverso il “sacramento” della bellezza sono simbolo del Mistero celebrato e partecipato.

La bellezza musicale non sarà data mai dall’effetto di un’arte umana che si compiace di sé e perciò si autocelebra. Questa è idolatria pura. Il canto liturgico è icona del mistero celebrato e perciò riflesso della gloria divina che si rivela. Chi esercita il ministero musicale, dunque, deve prima percepire il mistero per poi saperlo esprimere artisticamente in suono e canto. Via estetica e via poietica si armonizzano a vicenda in una sorta di concordia artistico-spirituale. Dio si svela e si rivela, l’artista lo percepisce e lo manifesta. Dio canta il suo Verbo e lo dona, l’artista incarna il Verbo e lo canta.

151.11.48.50