Quando custodire l’umano esige il martirio

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Siamo abituati ad una concezione esclusivamente cristiana o comunque religiosa di martirio, al punto 
da relegarlo ad atto eroico di pochi eletti.
 La storia quotidiana però ci invita a volgere lo sguardo su numerosi martiri di altre religioni e svariati orientamenti culturali.

 Chi è disposto a donare la vita nella lotta non violenta per la giustizia, la democrazia, la pace e i diritti umani non è forse un martire?


Non testimonia forse che si può vivere felici anche senza comodità e consensi ma ripieni di quella inquietudine che ci fa andare oltre noi stessi?
Prendersi cura, fino all’effusione del sangue, di tutto ciò che non viene custodito come umano, ma viene violentato, abusato e ridicolizzato non è forse andare oltre la semplice biologia?

 Qualcuno è rimasto un po’ scettico forse alla notizia della beatificazione di mons. Oscar Romero, ucciso in odium fidei perché fu voce potente dalla parte degli oppressi contro il regime. Come se la santità fosse riservata a coloro che rinchiudono il divino nelle quattro mura di una chiesa e voltano la faccia al povero e allo sfruttato.

San Tommaso stesso precisa: ““Patisce per Cristo non solo chi patisce per la fede in Cristo, ma anche chi patisce per qualsiasi opera di giustizia” (In Epist. Ad Romanos, c. 8°, lect. VII). 

Ma una schiera infinita di uomini e donne coraggiosi testimonia questa verità: Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, Martin Luther King e Dietrich Bonhoeffer. 

Il martire crede che le idee e i valori hanno occhi, piedi, emozioni e lacrime. E per questo vanno difesi, fino all’effusione del sangue.

Tutto questo non è forse divino?

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