Il canto dell’ Attesa

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Il cuore che spera possiede “già” il “non ancora” della pienezza d’amore che attende. Il libro dell’Apocalisse chiude con la promessa dello Sposo: Sì, vengo presto! E la sposa risponde: Vieni, Signore Gesù! (22,20). Questo grido invocativo risuona in un canto aramaico della Chiesa dei primi secoli che attendeva impaziente la parusia: Maranà tha!

Il canto della speranza sgorga dalla pienezza del cuore che crede e dalla forza della fede che ama. L’uomo senza speranza fa soltanto spettacolo di un credere vacuo, apparente e coreografico. Il canto della fede che spera è espressione viva di entusiasmo interiore che incendia il cuore e dà voce alla profezia e alla lode, al rendimento di grazie e allo stupore, alla gioia e alla contemplazione, alla supplica e al pentimento. Questa esperienza sempre entusiasta dell’uomo biblico percorre tutta la santa Scrittura: dal canto di gioia di Adamo, all’Amen dei redenti nell’Apocalisse; dall’appassionata difesa di Dio da parte di Mosè e dei profeti, al Magnificat di Maria, sino all’ebbrezza della Chiesa a Pentecoste. Si tratta di un canto ora di chi si trova direttamente coinvolto nell’azione di Dio, ora di chi desidera farne memoria viva. Questo canto non è finalizzato a creare una qualche atmosfera coreografica e superficiale ma è inno sublime che, mentre celebra nell’entusiasmo della fede le meraviglie di Dio, allo stesso tempo le annunzia agli altri uomini come speranza realizzata.

Se gli ebrei, seduti lungo i fiumi di Babilonia, piangendo, appendono le loro cetre ai salici amari e si rifiutano di cantare, è perché la drammatica vita d’esilio li ha allontanati da quella patria in cui soltanto potevano fare esperienza del loro Dio. Al contrario, Maria di Nazareth, Elisabetta, Zaccaria, Simeone, Anna, esplodono nel grido di gioia e di lode, perché sperimentano le ragioni della speranza compiuta nella propria vita.

Il canto della speranza, come tensione e attesa, è slancio verso quel futuro che trasfigura il presente. È aurora dell’atteso nuovo giorno che tutto illumina con la sua luce in splendore. La speranza non si esaurisce dentro il destino individuale dell’uomo ma avvolge e coinvolge il cammino dell’umanità intera verso il futuro di gloria.

La speranza cristiana, scrive Paolo a Timoteo, è attesa di un orizzonte di felicità che Dio stesso ha promesso e che coinvolge tutti gli uomini. Paolo, infatti, ha ricevuto dal Signore la missione di annunziare la salvezza offerta a tutti: Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (1Tim 2,3-4). La fede, infatti, garantisce la realtà del futuro promesso perché, attraverso di esso, l’uomo pone la sua fiducia in Dio da cui ogni futuro dipende: La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede (Eb 11,1). Fede non è soltanto slancio verso l’avvenire, ma anche anticipazione e pregustazione della realtà che si attendono. La fede, attrae il futuro all’interno del presente, così che esso non è più soltanto il “non ancora”, perché, immerso nel presente che attende il compimento, ha già in grembo i semi del futuro. La nostra esistenza, infatti, è stata talmente arricchita di verità e di bontà dal Verbo fatto carne della nostra natura che niente più ci manca.

Se la fede ha la priorità nella declinazione della vita teologale, la speranza ha il primato esistenziale nella vita del cristiano: senza la fede, la speranza si riduce a mera utopia; senza la speranza, la fede è morta ed è incapace di tradursi in vita concreta. La fede, infatti, vede ciò che è, la speranza intuisce ciò che sarà, l’amore ama e armonizza ciò che è con ciò che sarà. In tal senso, la speranza è forza liberante che spinge in avanti il cammino faticoso della storia.

L’uomo che vive di speranza impara a stupirsi dinanzi alle sorprese di Dio che quotidianamente opera all’interno delle vicende umane. Lo stupore esplode in quella pienezza di canto che sgorga dall’entusiasmo del cuore: canta chi percepisce di essere inserito nell’azione salvifica di Dio e nella luce delle sue epifanie. Il canto del credente non è gesto di vuota spensieratezza, di superficiale ilarità o di puro estetismo che talvolta degenera in pericolosa idolatria che sgretola la divina Agape: al contrario, è espressione di un cuore ricolmo d’amore e di gratitudine per le rivelazioni di Dio che crea e redime.

I cristiani cantano perché Cristo risorto e glorioso vive in loro e li salva; cantano, sia che si trovino nella gioia sia che soffrano nel pianto; cantano perché il cuore è ricolmo di fiducia e di speranza. Lì dove il canto muore, cedendo il posto o al mutismo o alla vanagloria dell’arte canora, lì muore la speranza. L’uomo senza speranza è incapace di vivere in fraterna concordia evangelica perché, attratto da falsi miraggi di divinità costruite da mani d’uomo, disperso in mille confusi frammenti avvizziti come foglie secche su terreni di peccato e di morte, cammina vagabondo per vie sbagliate.

Dopo il passaggio del Mar Rosso, Mosè e gli Israeliti intonano il cantico di vittoria perché la speranza della liberazione è finalmente realizzata: Voglio cantare in onore al Signore, perché ha mirabilmente trionfato… Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. È il mio Dio e lo voglio lodare, il Dio di mio padre e lo voglio esaltare! (Es 15,1.2). Senza fede in Dio che salva per amore, non si può effondere il canto d’amore fedele al Dio della speranza.

La celebrazione liturgica è il luogo privilegiato in cui lo stupore della fede si fa entusiasmo di preghiera in canto. Mentre, credendo, prego, imparo la sublime arte di sperare. “Culmine e Fonte” della speranza rimane sempre il mistero dell’Eucaristia, “farmaco d’immortalità” e “seme d’incorruttibilità”. Ecco perché tutte le Preghiere eucaristiche si chiudono con il ricordo della gloria verso la quale tende ogni celebrazione del mistero pasquale: «… e con tutte le creature, liberate dalla corruzione del peccato e della morte, canteremo la tua gloria» (IV Prece eucaristica).

Il canto della preghiera liturgica è tutto carico di attesa e di pregustazione escatologica perché partecipa all’Alleluia del Risorto che rivela e anticipa il termine della storia. Ogni canto della preghiera liturgica deve esprimere la quieta tensione tra un’incarnazione nell’affascinante e drammatica trama dell’oggi storico e la nostalgia colma di speranza dell’incontro con la terra promessa di un futuro annunziato e, in qualche modo, già presente, il cui desiderio e la cui realizzazione nella gloria è dono ineffabile dello Spirito Santo.

La necessità della vigilanza per la non conoscenza del tempo in cui il Signore verrà all’incontro con i suoi servi è veglia d’attesa paziente e fiduciosa che, nella perseveranza della preghiera, canta la speranza d’amore con l’inno “sempre antico e sempre nuovo” della fede. Nell’attesa, il canto della speranza comporta il vegliare operoso che è beatitudine: Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli (Lc  12,37). Il vegliare cristiano si pone all’interno della prima e della seconda venuta del Signore. La vita cristiana inizia dalla prima venuta, si sviluppa come cammino verso la seconda, si conclude nell’ultimo e definitivo incontro col Signore. Allora, quei servi che saranno rimasti svegli, se pur oppressi dal sonno, come gli apostoli sul Tabor, potranno vedere e godere la gloria del Trasfigurato che trasfigurerà i corpi mortali (cf Lc 9,32). Vegliate, vigilate: è l’invito di Cristo che ci prepara all’incontro con Lui. Vegliare e vigilare, dunque, sono i verbi dell’attendere amando. “Vegliare” è l’atteggiamento di chi è proteso verso l’incontro sperato che fa cantare il cuore tenendolo desto. “Vigilare” fa percepire e intravedere, attraverso i chiaroscuri dell’attesa, la venuta del Kyrios, il Signore-Padrone, nell’alveo misterioso di quel silenzio che è canto di speranza e di vita.

Quando i Padri della Chiesa cercano di configurare la vita del cielo e il segno della gloria, quasi sempre, si riferiscono al gesto del cantare. Sant’Agostino così descrive la vita della gloria: «Là riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo» (La città di Dio, XXII, 3,5). Quello che sulla terra si attua sacramentalmente nella divina Liturgia, in cielo è già piena realtà. Quello che già in terra si contempla mediante la fede, in cielo si vive nella beata visione.

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