Sigillo sul cuore
«Credo poco alla parola “cuore” – scriveva nel suo diario Thomas Mann – eppure, ciò che essa sta a significare esiste». L’uomo senza cuore è creatura senza vita. Il cuore che ama è segno di trasfigurata e trasfigurante risurrezione.
Nella spiritualità orientale, il simbolo del cuore, partendo dalla radice biblica, rappresenta la sede della preghiera, dell’incontro di Dio con l’uomo e degli uomini tra di loro e anche del rapporto tra l’uomo e il cosmo.
La struggente concordia tra due cuori è descritta, con toni elevati, nel capitolo ottavo del Cantico dei Cantici: inno d’amore per eccellenza, idillio sbocciato dal cuore di due giovani nel suo primo fiorire al tempo dell’eterna primavera. È cantico di un amore che percorre, in intima esperienza, tutta la gamma delle sue espressioni: dall’ebbrezza dei baci e delle carezze più tenere, al desiderio invincibile dell’incontro; dalle sofferenze della lontananza, alla gioia incontenibile del ritrovarsi insieme; dalle intense parole d’intimità, alle dolenti espressioni per l’assenza dell’amato.
Il poema biblico, celebrando l’amore nuziale nel suo vero valore di pienezza umana, svela e rivela l’eterno e infinito Amore divino. L’amore vive perché Dio esiste. Chi ama, afferma Giovanni, conosce Dio e lo irradia attraverso il suo stesso amore, rivelandolo ai fratelli (cfr. 1Gv 4,8). L’amore umano rimanda ad altre nozze d’Amore. Il Cantico dei Cantici è, infatti, la descrizione appassionata e appassionante dell’amore nuziale tra Dio e l’umanità, tra Dio e Israele, tra Cristo e la sua Chiesa. Al centro del giardino ci sono Lui e Lei, eterna coppia della famiglia umana. Avvolti dalla tenerezza del vortice d’amore, cantano il cantico dei cantici d’amore.
Vertice ed epilogo del testo poetico, è il capitolo ottavo. Il poeta costruisce un dialogo tra il coro e la donna amata. In una sorta di “deserto poetico”, i due innamorati sono soli, uniti dall’unico amore dell’intima felicità:
Chi sta salendo dal deserto,
appoggiata al suo amato? (v. 5).
L’interrogativo del coro crea un’atmosfera di solenne stupore. Dal silenzio della solitudine nel deserto, appare la giovane coppia. Avvolti dalla tenerezza dell’eterno gesto dell’abbandono, la donna poggia il capo sulla spalla del suo amato. Mentre i due innamorati ritmano i loro passi, Lei intona un inno in tre strofe: la prima descrive il canto sotto il melo, la seconda invoca il sigillo sul cuore, la terza dipinge le grandi acque e le fiamme di fuoco.
Al centro della prima strofa, con elegante tocco poetico, è descritto il melo, l’albero dell’amore già cantato nel secondo capitolo. Il melo, nella cultura antica, è simbolo dell’amore più alto:
Sotto il melo ti ho svegliato;
là dove ti concepì tua madre,
là dove ti concepì colei che ti ha partorito (v. 5b).
All’ombra dell’amore, lo sposo s’addormenta, l’amata lo sveglia e, nel momento dell’intima tenerezza, contemplando lo sposo, le sovviene il ricordo del dono della vita ricevuto dalla madre. Il luogo dell’amore sotto il melo coincide così con lo stesso luogo in cui la madre concepisce e dà alla luce il figlio. Il nuovo amore tra i due innamorati sarà la rinascita alla vita.
La seconda strofa canta il momento della suprema e perfetta concordia di comunione:
Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come il regno dei morti è la passione:
le sue vampe sono vampe di fuoco,
una fiamma divina! (v. 6).
La sposa conferma la sua piena donazione allo sposo. Lei vuole essere supremo sigillo d’amore eterno sul cuore di Lui, come quel sigillo che i nobili ebrei portavano sul braccio (cf. Is 49,16), sul collo, appeso alla collana (cf. Gn 38,18), come anello, sul dito (cf. Ger 22,24). Lei vuole essere lo stesso io dello sposo. L’amore – comunione è il progetto di Dio quando, sin dall’inizio della creazione, consegna Eva al suo Adamo: … e i due saranno un’unica carne (Gn 2,24).
Desiderio insaziabile, com’è ogni vero amore, del tutto simile alla morte, potenza distruttrice che non risparmia nessun mortale, l’amore non dice mai basta, così come lo sheol, la grotta sotterranea che divora i morti e, come la morte, non è mai sazia. L’unione in concordia non può essere frantumata neppure dalla morte. Vita e anti-vita, eros e thanatos, amore e morte, si affrontano sempre in un duello implacabile. Solo l’amore vero, ardente e tenace, riesce a sopravvivere come fiamma di fuoco perenne e inestinguibile. Le fiamme dell’amore sono fiamme di Jhwh, simili a quelle che ardevano, senza consumarsi, sul monte di Dio, l’Horeb (cf. Es 3,2). L’innamorata del Cantico dei Cantici, avvolta da queste vampe, parla al suo diletto e gli consacra cuore e amore. Quello stesso amore che sgorga in pienezza dall’Amore divino.
La terza strofa si apre con il simbolo sapienziale che si rannoda, in antitesi suggestiva, a quello del fuoco, e precisamente l’immagine della violenza provocata dall’irruzione delle grandi acque:
Le grandi acque non possono spegnere l’amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell’amore, non ne avrebbe che disprezzo (v. 7).
Le grandi acque sono metafora del caos e del nulla. Il loro dilagare nell’inondazione porta distruzione e morte. Eppure, l’amore, fondato sulla roccia, riesce a resistere a ogni tsunami violento e distruttivo.
Il canto si chiude evocando un’altra qualità dell’amore: la gratuità. Come la libertà, l’amore non può essere oggetto di scambio, il vero amore non si mercanteggia. Sarebbe indegno, addirittura spregevole, se fosse così. Il mercato dell’amore è umiliazione e morte. Solo la gratuità custodisce l’amore, dono di vita e grazia di libertà.
In un mondo lacerato dall’odio e dalle divisioni e assediato da vendette e da guerre, cantare il mistero d’Amore potrebbe apparire utopia, cioè, discorso senza luogo. L’arte della concordia ci conferma che il mistero d’Amore ha il suo luogo nel cuore di Dio riversato nel cuore dell’uomo: qui il vero Amore pone il suo sigillo. L’amore umano è più che seduzione inerte o immagine evocatrice; in senso vivo e forte, è mysterion cioè “sacramento” dell’amore divino incarnato e donato e accolto dal cuore dell’uomo divinizzato.