Paolo VI, difensore della Chiesa

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Sono le 12,10 del 21 giugno 1963 quando il cardinale Ottaviani inizia a pronunciare il nome del successore di Giovanni XXIII: Joannes Baptistam….; la folla (oltre centomila persone sono presenti sulla piazza San Pietro) inizia a battere le mani. Ha capito che il futuro pontefice è l’arcivescovo di Milano, il card. Giovanni Battista Montini, eletto al sesto scrutinio, dopo due giorni di Conclave.

Il suo programma è subito chiaro: “Difenderemo la Chiesa dagli errori di dottrina e di costume”. Il pontificato di Paolo VI si caratterizza immediatamente per la volontà di portare a termine il discorso innovativo iniziato dal suo predecessore. Nella sua prima enciclica, quella programmatica, “Ecclesiam suam” disegna la missione della Chiesa secondo tre cerchi: dialogo ecumenico, dialogo culturale e con la società moderna e dialogo comunitario interno.

Il primo impegno, e sicuramente il più importante  è quello di portare a conclusione il Concilio Vaticano II, già avviato Papa Roncalli, partendo dalla Chiesa affinché conquisti una più chiara coscienza di sé, si rinnovi e, non ultimo, avvii le basi per un dialogo con le altre chiese cristiane. Un evento  storico il Concilio  perché per la prima volta viene mostrato all’umanità intera il vero volto di Cristo e della sua Chiesa rendendo l’annuncio del Vangelo più comprensibile agli uomini.

Uomo di spirito caritatevole e mite ma capace di scelte controcorrente e coraggiose Giovanni Battista Montini ha saputo tenere a freno sia le spinte conservatrici che quelle innovatrici guidando l’assemblea conciliare a votare quasi all’unanimità tutti i documenti approvati, garantendo, comunque la libertà dei padri conciliari; rimuovendo anche ostacoli di procedura e superando resistenze curiali. Qualche volta, però, anticipa il Concilio stesso con decisioni prese dall’alto, come la riforma della Curia romana, che diventa così sempre più internazionale, oppure l’istituzione del Sinodo dei vescovi che istituisce nel settembre 1965 dandone comunicazione ai padri conciliari. E ancora con il motu proprio “Integrae servandae”, pubblicato alla vigilia del Concilio, con il quale procede alla riforma del Sant’Uffizio che diventa più rispettoso del diritto degli accusati alla difesa. Altre decisioni personali riguardano l’apparato centrale della Chiesa che viene totalmente riformato con la creazione dei Segretariati per i non cristiani e per i non credenti, che diventano organi permanenti della Chiesa nel rapporto istituzionale con il mondo contemporaneo, anche nelle sue componenti lontane dal cristianesimo o dalla religione.

Il Concilio, che si chiude l’8 dicembre 1965,  significa per la Chiesa Cattolica Romana, l’apertura di una nuova era. Paolo VI negli anni successivi cerca di concretizzare i risulti del concilio. Il 26 marzo 1967 pubblica la lettera enciclica Populorum Progressio che ben si colloca accanto a quel coraggioso documento conciliare che è la Gaudium et Spes (7 dicembre 1965). Nel 1971 è la volta della lettera apostolica  Octogesima Adveniens, che rivela ulteriormente la condanna dell’ideologia marxista e del liberalismo capitalistico, ma anche la sua sensibilità sociale. Particolare coraggio e spirito pastorale anima poi Paolo VI nella questione della regolamentazione delle nascite (enciclica Humanae vitae) e del problema della fede e dell’obbedienza alla gerarchia. Un documento che segna, forse, il maggior momento di isolamento di questo pontefice.

“Non abbiamo mai sentito – dice – come in questa congiuntura il peso del nostro ufficio. Abbiamo studiato, letto, discusso quanto potevamo; e abbiamo anche molto pregato”.

Uno dei momenti forti del suo pontificato è l’anno giubilare del 1975, caratterizzato dal massiccio concorso di 8 milioni di pellegrini. L’anno santo si chiuse l’8 dicembre con la pubblicazione dell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, il più lungo documento del suo pontificato.

Non è stato, per Montini, molto facile ricevere l’eredità di Giovanni XXIII perché uomo umile: soltanto dopo la sua morte si viene a sapere che indossava il cilicio, una cintura molto ruvida portata sulla pelle per penitenza.

Giovanni Battista Montini vuole annunciare il Vangelo a tutti. E per questo decide di viaggiare. A dicembre del 1963 annuncia di voler visitare la Terra Santa: un pellegrinaggio che inizia il 4 gennaio del 1964, il primo in assoluto di un pontefice dopo quello di San Pietro. Nel corso di questo viaggio incontra il patriarca ecumenico Atenagora, un incontro considerato ormai un evento  storico e  memorabile dal punto di vista ecumenico. Il 2 dicembre dello stesso anno parte nuovamente: questa volta la destinazione è l’India. Il 4 e 5 ottobre 1965 è a New York per il XX anniversario dell’ONU dove si presenta come portavoce di una “Chiesa esperta in umanità” che offre un patrimonio etico bimillenario per aiutare con umiltà, e senza pretese temporalistiche di dominazione, la ricerca della pace, della giustizia e della sicurezza. Tra i viaggi di questo pontefice  ricordiamo quello a Bogotà, a Kampala, al santuario mariano di Fatima, in Turchia, a Ginevra per il 50° anniversario dell’Organizzazione internazionale del Lavoro e per un incontro con il Consiglio Ecumenico delle Chiese, nelle Filippine, a Manila, dove è vittima di una aggressione, probabilmente pilotata e abilmente frenata per indurlo a moderare le sue aperture verso la Cina di Mao Zedog già contenute – come sostiene Giancarlo Zizola – nel discorso preparato per la tappa di Hong Kong. Una intimidazione che “di fatto riesce, il discorso viene fortemente rimaneggiato”. Molti anche i viaggi in Italia: Orvieto, Montecassino, Taranto, Subiaco, Venezia, Udine. Un peregrinare – sostengono Andrea Maria Erba e Pierluigi Guiducci – che rappresenta un segno tangibile di una particolare attenzione ai nuovi tempi. In questo senso una caratteristica del pontificato di Papa Montini è quella di valorizzare le Chiese locali, attraverso un incoraggiamento “sul posto”. Una linea seguita poi da Giovanni Paolo II che ha compiuto oltre cento viaggi internazionali in tutto il mondo.

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