Le strane vie di Dio

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 I miei pensieri non sono i vostri pensieri,

le vostre vie non sono le mie vie (Is 55,8).

 Non basta credere in Dio. Credere è accogliere l’arcano metodo di Dio che esce dai nostri schemi, rompe le nostre opportunità, le nostre attese e le nostre pretese. C’è sempre la tentazione di ridurre Dio alle nostre categorie convenienti, di fissargli le strade e determinargli gli appuntamenti.

Il credente, invece, si sforza di mettere la propria esistenza dalla prospettiva di Dio per essere sempre disponibile al compimento del suo piano che lo trascende.

Lo “strano comportamento” di Dio è narrato nella parabola del Regno dei cieli, attraverso le vicende di una giornata lavorativa nella vigna di un padrone. Al chiudersi della giornata, qualunque sia stato il tempo trascorsovi e la fatica sopportata, tutti i lavoratori ricevono un denaro: il prezzo già pattuito. Alla protesta per un’apparente ingiustizia di un torto subito, bisogna evidenziare la liberalità e la gratuità del padrone che non deve rendere conto a nessuno del suo modo di agire. Questo è lo stile e il modo di operare di Dio. Egli concepisce e opera al di là di qualsiasi misura che è la sovrabbondanza, gesto che fa saltare i limiti del debito per sostituirlo con la stragrande generosità.

Il Padrone della vigna è Dio Padre: ogni chiamata sgorga dal suo cuore. La vigna è la Chiesa: ogni chiamata è per un servizio di lavoro all’interno della stessa Chiesa. La vite è Cristo: solo Lui dona vita e fecondità ai tralci. Rimanere innestati in Lui è condizione necessaria e indispensabile per portare frutto. In rapporto al dono dei talenti, tutti siamo chiamati a lavorare nella vigna del Signore nell’ora in cui Egli vuole. Tutti, con sofferta riflessione, con fremiti d’entusiasmo, con piena e responsabile decisione, abbiamo accolto l’invito divino offerto come dono di grazia e d’amore.

 

I miei pensieri non sono i vostri pensieri,

le vostre vie non sono le mie vie (Is 55,8).

Una pagina drammatica della Santa Scrittura la leggiamo in Geremia 38,4,10. Il brano ci racconta uno dei momenti più terribili del popolo d’Israele, nel tempo in cui era vicina la distruzione totale di Gerusalemme e la deportazione. Il re Nabucodonosor, dieci anni prima, aveva assediato la città e distrutto il tempio. Il profeta Geremia si trovava già in carcere e continuava ad annunziare la parola del Signore che invitava il re, i capi e i sacerdoti ad arrendersi e a lasciarsi deportare in Babilonia per iniziare una nuova vita. Il volere di Dio annunziato dal Profeta non è né capito né accolto. Non credono a Geremia, anzi, lo accusano dicendo: Si metta a morte quest’uomo, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in città e scoraggia tutto il popolo dicendo loro simili parole, poiché quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male (v. 4). Geremia nega e risponde che, al di là di questa sconfitta, c’è la speranza di una vita nuova. Essi allora presero Geremia e lo gettarono nella cisterna di Malchia, un figlio del re, la quale si trovava nell’atrio della prigione. Calarono Geremia con corde. Nella cisterna non c’era acqua ma fango, e così Geremia affondò nel fango (v. 6).  Il brano racconta tutta una serie di azioni drammatiche contro il Profeta. Mentre è tenuto prigioniero, gli aguzzini lo prendono, lo violentano, lo afferrano e lo gettano, come se fosse un oggetto da cui liberarsi, nella cisterna ricolma di fango. Sono i gesti diabolici fatti ai profeti, uomini scomodi da allontanare e da annullare. Essi, però, rimangono sempre nelle mani di Dio che completa, dopo le varie prove della sofferenza, il misterioso itinerario di liberazione.

Nel nome “Geremia”, c’è già inciso l’itinerario della sua vocazione e della sua missione. Il nome ha una doppia radice verbale: o ramah che significa “gettare”, rom che indica il significato inverso, “innalzare”. Geremia è dunque il profeta che Jahwe sceglie per innalzarlo a se e per scagliarlo in mezzo a un popolo ribelle che non lo ascolta, anzi, lo rifiuta e lo elimina.

Intanto Geremia è gettato nella fogna fangosa della solitudine, ma proprio da questo momento prende orientamento la svolta della sua vita. Il fatto richiama anche la drammatica e affascinante esperienza di Giuseppe che, dopo essere stato buttato nella cisterna in mezzo al deserto e in seguito nella solitudine sotterranea del carcere, poi, in un itinerario di grazia, dal buio rinasce alla luce della vita nuova (cf Gen 37,20. 40, 15).

E’ interessante notare che in ebraico, la radice verbale di “cisterna” esprime il significato di esplorare, sperimentare, verificare; e, nella radice aramaica, l’esplorazione avviene attraverso l’odorato. Nella logorante situazione della fossa profonda del dolore, il sofferente non vede, non sente, non tocca e non parla, l’odorato è l’unica via di comunicazione col Signore della vita che si avvicina, riconosce e chiama per nome (Gen 27, 27).

Geremia, anche se vive il suo dramma personale nella reggia, di fatto è in prigione, nel luogo più misero in cui, nella sofferenza più disperante, innalza il suo grido di dolore acuto e profondo verso Dio. Gettato via e sprofondato nel fango, la presenza divina, odora di amorevole paternità e la sofferenza diventa luce di vita nuova. Ed ecco apparire il segno di questa presenza: un servo del re, Ebed-Melek, l’Etiope, un eunuco, persona umile, amabile e forte, viene a portare al Profeta sostegno e speranza. Va incontro al re e con decisa determinazione gli dice: O re, mio signore, quegli uomini hanno agito male facendo quanto hanno fatto al profeta Geremia, gettandolo nella cisterna. Egli morirà di fame là dentro, perché non c’è più pane nella città (v. 9). Nessuna prova può cancellare il bene che Dio traccia, con segni indelebili, sulla persona martoriata. Il servo-re Ebed-Melek annuncia, attraverso il segno del pane legato alla fame, alla carestia e alla morte, che il Signore è l’unico liberatore dei nostri mali, infatti: Il Signore sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto (Sal 145,14). Il re, all’eunuco che lo prega, dà questo ordine: Prendi con te tre uomini di qui e tira su il profeta Geremia dalla cisterna prima che muoia (v. 10). Geremia è tirato fuori dalla prigione di umiliazione, di sofferenza e di morte. Quel fango in cui era sprofondato, al soffio dell’amore divino, diventa argilla di vita; quel buio di solitudine, di smarrimento e di paura si trasforma in luce di parola che consola e orienta verso la realizzazione della vocazione cui Dio lo ha chiamato.

Geremia è figura di Cristo, il Servo-Re, Il Pane che nutre e divinizza, il Salvatore che scende negli inferi della notte per liberare l’uomo dal peccato e dalla morte. Immersi nelle acque battesimali, Cristo ci “tira fuori” ridonandoci il profumo della vita.

Quando i tuoi fratelli, ti buttano giù nel pozzo dell’allontanamento e della dimenticanza, non perdere mai il coraggio di difendere la tua libertà di coscienza e la dignità dell’essere figlio di Dio creato a sua immagine e somiglianza e ricreato a nuova vita dallo Spirito di Gesù.  Il Padre tuo che vede nel segreto ti sta sempre vicino e ti consola con la sua squisita e costante paternità. Se i tuoi fratelli, con i gesti della non umanità, ti “buttano giù” nel pozzo della dimenticanza e della sofferenza, il Padre tuo, che vede nel segreto, ti “tira su” con i gesti della tenerezza  misericordiosa. La Parola di Dio ci insegna che i pensieri e le vie del Signore non sono quelli dell’umano orgoglio che semina vittime di morte ma itinerari di luce che danno risurrezione e vita.

 

 

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