Caso Meriam: l’Europa si mobilita

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Al pellegrinaggio Macerata – Loreto, svoltosi sabato scorso, il segretario della Santa Sede, card. Pietro Parolin, è intervenuto sulla vicenda di Meriam Yahia Ibrahi Ishag, ricordando che: “C’è stato già l’intervento della Corte Internazionale. La Santa Sede, naturalmente, segue molto da vicino la vicenda cercando la maniera più efficace per un intervento a favore della sua liberazione”.

E dopo queste parole è stato letto il messaggio di Daniel Wani, il marito di Meriam, che si è detto commosso del sostegno di tanti cristiani europei: “Ringrazio i tanti giovani che pregheranno per Meriam e per i miei figli. Il vostro supporto, insieme a quello di tutta la comunità internazionale, è fondamentale per affrontare questa dura prova. Vi ringrazio anche a nome di mia moglie…

Non riesco ad esprimere la gioia che ho provato quando ho saputo che i cristiani in Europa stanno pregando per mia moglie. Io e Meriam sentiamo che i vostri cuori stanno pregando per noi. Saremo pazienti e forti e non ci arrenderemo mai. Possa Dio benedire tutti voi e Meriam, e salvare la sua vita”.

Intanto, la Corte d’appello sudanese ha avviato il riesame del caso e secondo l’associazione Italians for Darfur ci sono ‘notevoli possibilità’ che la donna sudanese condannata a morte per apostasia ‘possa tornare libera’. Nei giorni scorsi anche il presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano ha invocato la liberazione di Meriam Ibrahi, la giovane madre cristiana condannata alla pena capitale in Sudan.

Il Capo di Stato ‘segue con viva partecipazione, in raccordo con il governo’ la vicenda della donna, riferisce una nota del Quirinale, che prosegue auspicando che “che possano essere tempestivamente confermate le recenti dichiarazioni dell’ambasciatore del Sudan in Italia riportate dalla stampa e relative a una revisione della sentenza”. Ed il Senato americano, con una risoluzione bipartisan all’unanimità da repubblicani e democratici, ha chiesto la ‘liberazione immediata e incondizionata’:

“Il Senato condanna l’accusa di apostasia e di morte contro Meriam Yahia Ibrahim Ishag e chiede l’immediato e incondizionato rilascio di lei e dei suoi figli”. In contemporanea le ambasciate di Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Olanda hanno emesso un comunicato congiunto chiedendo il rispetto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

In carcere dal mese di febbraio insieme ai suoi figli (Martin, di 20 mesi e la secondogenita, Maya, partorita in prigione il 27 maggio) con le catene ai piedi, Meriam è stata accusata il 15 maggio da un tribunale di Karthum di adulterio e apostasia per aver sposato un uomo cristiano, rinnegando così la fede del padre musulmano (in realtà il padre ha abbandonato la famiglia quando Meriam era una bambina, ed è stata cresciuta ed educata dalla madre cristiana).

La settimana scorsa, l’onp Justice Centre Sudan, che si sta facendo carico delle spese legali di Meriam, ha ipotizzato una motivazione meramente economica dietro la denuncia: “Crediamo che i familiari abbiano presentato la denuncia perché vogliono prendere il controllo dei suoi affari. Se Meriam resta in prigione potrebbe perdere tutto e i parenti sarebbero i primi a beneficiarne”.

Al marito di Meriam è stato anche negato l’affidamento del figlio Martin perché, essendo ritenuto non valido il matrimonio tra un cristiano e una musulmana, il bambino è considerato illegittimo. Invece senza nessuna pietà si è espresso suo fratello, Al Samani Al Hadi Mohamed Abdullah, che, in una intervista alla Cnn, ha detto di aver denunciato la sorella alle autorità perché ‘nella nostra famiglia siamo musulmani’.

Ha poi sostenuto che Meriam Yehya Ibrahim è nata come Abrar Al Hadi, ma ha cambiato il nome dopo essere stata drogata dal marito, Daniel Wani, un cristiano. Il fratello della giovane ha spiegato che “se Meriam si pente e torna alla nostra fede islamica noi saremo la sua famiglia ma se lei si rifiuta dovrebbe essere giustiziata”.

Amnesty International si è immediatamente mobilitata. Infatti Manar Idriss, ricercatore sul Sudan di Amnesty International, ha dichiarato: “Il fatto che una donna sia condannata a morte a causa della religione che ha scelto di professare e alle frustate per aver sposato un uomo di una presunta religione diversa è agghiacciante e orrendo. L’adulterio e l’apostasia non dovrebbero essere considerati reati.

Siamo in presenza di una flagrante violazione del diritto internazionale dei diritti umani. Amnesty International considera Meriam una prigioniera di coscienza, condannata solo a causa della sua fede e identità religiosa. Chiediamo il suo rilascio immediato e incondizionato”.

Ed il Sudan (nord) rimane all’11° posto della lista dove più si perseguitano i cristiani, con un livello di persecuzione definito estremo. Mentre nel Sudan (sud) secondo un rapporto di Amnesty International sono stati uccisi e stuprati molti civili, che contiene testimonianze di sopravvissuti ai massacri e alla violenza sessuale commessi nel corso di un conflitto che ha costretto oltre un milione di persone a lasciare le loro case e ha trascinato il più giovane paese della comunità internazionale verso un disastro umanitario:

“Le nostre ricerche hanno rivelato l’inimmaginabile sofferenza di molti civili impossibilitati a scappare dalla crescente spirale di violenza: persone massacrate proprio nei luoghi in cui si erano rifugiati, bambine e donne incinte stuprate, anziani e ammalati uccisi nei letti d’ospedale. Entrambe le parti in conflitto hanno mostrato il totale disprezzo per i più elementari principi del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario.

Coloro che, lungo tutta la catena di comando, hanno perpetrato, ordinato o tollerato questi gravi abusi, alcuni dei quali costituiscono crimini di guerra e crimini contro l’umanità, dovranno essere chiamati a renderne conto”.

Una donna di Gandor ha descritto ad Amnesty International come sua cognata, di appena 10 anni, sia stata stuprata da una decina di soldati. Un’altra donna ha raccontato di essere stata stuprata insieme ad altre 17 donne dai soldati governativi a Palop: “Ero incinta di tre mesi ma mi hanno violentato così tante volte che il bambino è uscito. Erano in nove. Se avessi rifiutato, mi avrebbero uccisa”.

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