Nostalgia di cielo
Nostalgia, dall’etimo greco nòstos, “ritorno” e algia, “dolore”, definisce un elemento compositivo tratto dal dolore ed è desiderio invincibile di tornare a vivere in un luogo che è stato di soggiorno abituale e che ora rimane lontano. Quando la nostalgia assume forma patologica, è chiamata “nostomania”.
È celebre il titolo del poema che canta l’eroe greco Ulisse: Nòstoi, cioè, I Ritorni. Caratteristica del libro è la nostalgia. L’eroe, dopo aver compiuto un lungo periplo, ritorna al suo punto di partenza. Sappiamo che, nel pensiero greco, la storia è concepita come un infinito ripetersi di cicli chiusi e la legge che la domina è quella del mito dell’eterno ritorno. Il tempo, considerato ciclo chiuso in se stesso, è privazione dell’eternità, è invecchiamento e degradazione. Il tempo è chiamato krònos, il mostro che divora persone e cose. Da qui nasce l’invincibile nostalgia di un ritorno periodico al tempo mitico delle origini; questo è un modo per sottrarsi alla degradazione del tempo profano e poter partecipare all’“eternità” del tempo primordiale.
Tra i filosofi greci c’erano gli stoici che identificavano la vera felicità nella virtù e la sapienza nella serena accettazione del dolore e della morte la quale, annullando lo spazio e il tempo, poteva essere volontariamente ricercata per raggiungere la perfezione. Siamo alle porte della Rivelazione. Il cristianesimo, infatti, al “suicidio” contrapporrà il “martirio”. Cristo, dalla morte, farà esplodere la risurrezione e la vita, e la croce in trono di gloria.
Per la Santa Scrittura, il tempo della storia è visto come epifania di Dio. Dio ha nostalgia dell’uomo e, nello spazio e nel tempo, entra in dialogo con la sua creatura costruendo la storia con Lui. Anzi, Egli stesso diventa storia: rivelandosi, agisce, agendo, si rivela. Il tempo è vissuto non come circolo chiuso in se stesso o come ostacolo che impedisce all’uomo di raggiungere la perfezione, ma come luminosa spirale di speranza proiettata verso l’eschaton: il tempo ultimo in cui l’umanità si immergerà nell’eternità di Dio. Cristo, incarnandosi, diventa il punto centrale dell’incontro dell’umanità redenta con la Divinità beata. La nostalgia si trasformerà definitivamente e diverrà incontro d’amore unico, irrevocabile e definitivo con Dio. Il tempo presente, carico d’eternità, è, infatti, tensione verso un avvenire di cui possiede già la realtà. A una nostalgia senza speranza, la Bibbia oppone la sicurezza dell’attesa colma di fede e d’amore.
Tutta la vita di Cristo, dall’incarnazione alla risurrezione, è orientata verso la sua piena glorificazione. Se la Croce è glorificazione di Cristo (cf Col 2,15), se la Risurrezione è trasfigurazione della sua umanità, l’Ascensione fa entrare il Crocifisso-Risorto nella pienezza della Vita di Gloria. San Paolo associa sempre la Risurrezione con la Glorificazione (cf Ef 1,20; Rm 8,34). Anche san Pietro afferma di Gesù che Dio lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato la gloria (1Pt 1,21). L’Ascensione rientra, quindi, nel cuore stesso del glorioso mistero pasquale. Se, nell’incarnazione, Gesù aveva conferito alla natura umana la prima condizione divina, nel mistero dell’Ascensione, l’ha portata al culmine della sublimazione e della glorificazione. Quella stessa gloria data dal Padre al Figlio, ora, è riservata anche ai fratelli del Figlio. Capo e membra avranno in comune la stessa gloria.
Nella Colletta dell’Ascensione preghiamo che «in Cristo che ascende al cielo, la nostra umanità è innalzata accanto» al Padre. San Leone Magno, col suo tocco di luce, così descrive la condizione del credente nella gloria futura: «E poiché, dunque, l’ascensione di Cristo è la nostra elevazione, la speranza di tutto il corpo si fissa là dove lo ha preceduto la gloria del suo capo» (Sermo 73). Questa nostalgia di cielo, che è sublime speranza d’attesa vissuta nella fede e nell’amore, è il tesoro di gloria che racchiude l’eredità fra i santi, e a noi è assegnata dal Padre (cf Ef 1,18).
Come il mare unisce ciò che divide, così l’Ascensione di Gesù accorda divino e umano, mistero e storia, immanenza e trascendenza. Quando termina l’azione storica di Gesù, ha inizio il pellegrinare terreno della sua Chiesa. Verticalità e orizzontalità, divinità e visibilità, partenza e ritorno sono uniti dall’attesa che è il tempo della sicura speranza che crede e che ama.
Attendiamo, quindi, Colui che è già vicino, che sta accanto a noi e la cui fedeltà non verrà mai meno. Lo afferma Gesù stesso: Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo (Mt 28,20c). Tra l’et incarnatus e dopo l’et ascendit in coelum, rimane la missione della Chiesa che, da Gerusalemme sino ai confini del mondo, ha la missione di evangelizzare: Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato (vv. 19-20a). La missione degli Undici recupera e unisce la distanza tra Dio e l’uomo. Il comando della missione ha come impegno primario di andare in tutto il mondo per realizzare la viva e trasformante presenza di Cristo tra noi e di portare gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo al seguito dello stesso Signore. Gli Apostoli, nonostante i dubbi, le incertezze e le paure, hanno saputo accogliere il comando di Gesù: Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo. Grazie a loro oggi noi siamo cristiani.
La gloria dell’Ascensione è per la comunione col Padre, per l’unità fra il Cristo glorioso e i suoi discepoli. L’Ascensione al cielo è sublime icona che rivela e insegna che il cristiano deve vivere come egli visse, e così saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3,2).
Il vero credente non rinuncia alla speranza di un futuro di gloria per ripiegare su realtà intra-storiche, ma si proietta in quella stessa direzione in cui tende lo Spirito: è proprio Lui il criterio ultimo della testimonianza del discepolo che non è uno spettatore né di cerimonie religiose né di uno stile di vita apparentemente cristiana. Lo spettatore vede soltanto con distacco le cose da lontano e non vi prende parte, il testimone, invece, si lascia coinvolgere dagli eventi che vede e che vive offrendo se stesso e la verità che conosce sino alla testimonianza piena che comporta il martirio. Lo spettatore è un codardo, il testimone è un martire. La fecondità dell’invio, la forza per fare discepole tutte le genti, la testimonianza coerente degli inviati, è frutto dell’aiuto dello Spirito: Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni (At 1,8). Il momento della passione-morte di Gesù è tutt’uno con quello della risurrezione-glorificazione. Anche la vita del discepolo è modellata su quella del Maestro perché, in Cristo, l’umano entra nel divino e vi rimane per sempre.
Siamo persuasi che il Vangelo è l’unica verità che ci coinvolge, ci costringe a pensare e a vivere in modo aperto e disponibile verso Dio. Viene da qui la fine di ogni paura e di ogni delusione. Da qui nasce e fiorisce il coraggio di un impegno credente, la missione e la capacità di restituire a Cristo la sua creazione come santa e immacolata secondo il volere del Padre suo.
Dopo l’ascensione, Gesù non è più da vedere, ma da attendere, da annunziare e da testimoniare con fede viva nella speranza certa: niente esiste nella vita che non abbia un destino di gloria! La grandezza della potenza glorificatrice di Dio è già qui in opera nei sacramenti e in modo specialissimo nell’Eucaristia, Pane di Vita eterna e coefficiente di risurrezione gloriosa perché è comunione con il Corpo e il Sangue di Cristo asceso al cielo (cf 1Cor 10,16-17). Nell’Eucaristia, pregustazione della vita di gloria, la nostalgia del cielo è appagata dalla trasformazione iniziata nel battesimo e protesa verso la fine quando, terminati spazio e tempo, saremo simili a Cristo nella gloria beata (cf 1Gv 3,2). Con lo Spirito di sapienza e di rivelazione che il Padre della gloria ci offre in dono, la nostalgia dell’attesa si trasforma misteriosamente in quella luce di visione che ci fa comprendere a quale speranza siamo chiamati e quale tesoro di gloria racchiude l’eredità fra i santi (cf Ef 17-18). Gesù Cristo: egli stesso, Padre della gloria, ci dona lo spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui; egli illumina gli occhi della nostra mente, quegli occhi che soli possono comprendere la meta del cammino e la beata speranza a cui siamo stati chiamati.
È necessaria l’ascensione, lo slancio verso l’alto che dall’immagine conduce alla verità. L’immagine è nello spazio e nel tempo, la verità è lo Spirito, quello Spirito del quale Gesù dice che non ha né luogo né tempo circoscritto in questo mondo, ma, come il vento, raggiunge improvviso ogni uomo senza che si possa dire da dove venga e dove vada.
Maria Assunta in cielo è il simbolo più alto e più vero dell’accoglienza e del traguardo della redenzione umana. Lei ci assicura che il credente non è in preda a una vaga e vana nostalgia del cielo, non vive nell’attesa di colui che non verrà mai. L’Assunzione della Vergine Madre, che sorge dall’Ascensione del Figlio, fa apparire Maria come primizia e immagine della Chiesa (cf 1Cor 15,20-26). Presso il trono della Gloria c’è l’umiltà regale di Maria. Siamo certi che non attendiamo invano il Cristo che è venuto e ha promesso di ritornare quando, alla fine dei tempi, saremo sciolti dalla morte e dai suoi confini. Mentre viviamo l’attesa, Egli continua a restare con noi nel sublime Mistero della sua Presenza sacramentale. Gesù non è né il lontano, né l’assente, ma il “Presente” nell’“Oggi” che non ha tramonto. La fede ci assicura che non attende invano colui che spera amando.