Padre Alberto Maggi: chi non muore si rivede

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Nell’aprile 2012 padre Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria e fondatore del Centro Studi Biblici ‘Giovanni Vannucci’ a Montefano (MC), è trasportato d’urgenza per una dissezione aortica all’ospedale ‘Torrette’ di Ancona, dove trascorre tre mesi fra esami, cartelle cliniche e pericolose operazioni chirurgiche.

Nel libro l’autore racconta il suo rapporto con i medici e gli infermieri del reparto in cui è ospitato, il difficile confronto con la malattia, il dialogo online con i fedeli, la presenza costante di amici, il lieto fine della salute ritrovata. Protagonista del libro è l’amore per la verità sempre fortificata da una fede fatta di Spirito e sentimento che l’autore riesce a comunicare in ogni gesto e frase.

Anche io sono stato ricoverato lì nel mese di novembre scorso, leggendo il libro nella fase post operatoria; è stata una bella esperienza la condivisione di alcune riflessioni sul libro con il personale medico e paramedico; infatti mentre lo leggevo, infermieri e dottori si fermavano a dialogare con me sul significato della malattia e della salute in chiacchierate libere e franche ed ho scoperto molte cose sulla vita, che prima davo per scontato.

Incuriosito da queste ‘confidenze’ ospedaliere, che hanno prodotto, all’interno del reparto (me lo hanno detto i medici!), benefici grazie al suo modo di raccontare il Vangelo, ho posto all’autore alcune domande sul libro: “Il titolo del libro è il saluto che ho rivolto ai medici entrando in sala operatoria per un intervento molto rischioso con alte probabilità di morire durante l’operazione. Il mio saluto voleva esprimere sia la mia piena fiducia nell’operato di tutta l’équipe medica sia la mia serenità nell’affrontare anche il rischio della morte.

Avevo appena ultimato un saggio sull’ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita, ma sentivo che mancava qualcosa. Poi sono stato ricoverato d’urgenza per una dissezione dell’aorta: tre interventi devastanti, 75 giorni con un piede di qua e uno di là. E’ stato allora che ho capito cosa mi mancava: l’esperienza diretta e positiva del morire. E ho anche capito perché san Francesco la chiami sorella morte: perché la morte non è una nemica che ti toglie la vita, ma una sorella che ti introduce a quella nuova e definitiva.

Nei giorni in cui ero ricoverato nel reparto di terapia intensiva, con stupore mi sono accorto che le andavo incontro con curiosità, senza paura, con il sorriso sulle labbra. Oltretutto percepivo con nettezza la presenza fisica dei miei morti, di coloro che mi avevano preceduto e ora venivano a visitarmi… Chissà perché quando qualcuno muore gli si augura l’eterno riposo, come se si trattasse di una condanna all’ergastolo. Io penso invece che chi muore continua a essere parte attiva dell’azione creatrice del Padre”.

Con quale senso è opportuno vivere la malattia?
“Anche se sembra paradossale, la malattia può essere un’opportunità positiva nella vita della persona. Grazie alla malattia si possono scoprire dimensioni nuove della propria esistenza, si svelano ricchezze e valori ai quali la quotidianità aveva abituato e per questo non gli si dava più importanza. Per questo dopo un periodo di malattia si può uscire più ricchi e guardare con occhi diversi la vita, con uno sguardo carico di stupore e meraviglia.

Inoltre la certezza che il Signore tutto trasforma in bene, e che lui non manda mai pietre che schiacciano, ma solo pane che alimenta la vita, è per il credente un sostegno durante la malattia, una forza positiva che aiuta a non cedere alla tentazione di lasciarsi andare o cadere nella depressione. Si vive per gli altri, e anche la malattia va vissuta come un dono d’amore per gli altri”.

Allora perché in noi è forte la paura di morire?
“Perché si pensa che sia una fine, e non un inizio, una perdita e non un guadagno. Si ha paura che tutto finisca, che si lascino persone, affetti, tutto. La morte non mette fine alla vita, ma è il momento che consente di entrare nella piena e definitiva dimensione della propria esistenza. La morte non distrugge la persona, ma le consente di manifestare tutta la ricchezza che attendeva solo il momento opportuno per liberarsi e fiorire, come il chicco di grano che solo quando cade in terra trova le condizioni adatte per trasformarsi in una splendida spiga dorata.

Purtroppo, abituati a contrapporre la vita alla morte, non comprendiamo invece che nascita e morte sono entrambe parti importanti dell’unico ciclo vitale: non si muore mai, si nasce due volte, e la seconda è per sempre. Inoltre la morte non allontana il defunto dalle persone care, ma lo rende ancora più vicino, perché la sua non è un’assenza, bensì una presenza ancora più intensa, e l’amore verso i suoi cari non viene meno ma potenziato dall’amore di Dio”.

Però oggi è in voga il mito di vivere sempre più a lungo: è un peccato?
“La vita biologica di ogni creatura ha un inizio, una crescita che conduce il corpo al suo massimo sviluppo, per poi iniziare inesorabilmente la parabola discendente, come viene descritto in maniera molto efficace, anche se brutale, da san Paolo nella sua seconda Lettera ai Corinti (4, 16): ‘Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, il nostro [uomo] interiore si rinnova di giorno in giorno’. Questa parabola discendente del corpo si potrà forse rallentare ma non certo impedire. Non è certo la quantità di anni vissuta quel che rende matura la persona, ma la qualità di vita di questi anni”.

Cosa significa, quando si è malati, credere nella resurrezione dei morti?
“Per Gesù la risurrezione non è un premio concesso nel futuro, ma una realtà del presente. Gesù non assicura che chi crede avrà la vita eterna, ma afferma che chi crede ha già la vita eterna, ovvero una vita che si chiama eterna non tanto per la durata, infinita, ma per la qualità indistruttibile che consente di continuare la propria esistenza oltrepassando la soglia della morte. La certezza di questa qualità di vita dona al malato la serenità adatta per affrontare la sua situazione, nella certezza, come scrive san Paolo, che ‘né morte né vita potranno mai separarci dall’amore di Dio’(Rm 8,38-39)”.

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