L’Urbi et Orbi di Papa Francesco. Sud Sudan
Era la fine di febbraio, Benedetto XVI ancora regnante, quando veniva dato l’annuncio che la Santa Sede aveva deciso di stabilire relazioni diplomatiche con il neonato Stato del Sud Sudan. D’altronde, il lavoro che era stato fatto sul campo dalla Chiesa perché si arrivasse al riconoscimento dello Stato era stato grandissimo. Ma anche lì sono arrivate le violenze, provocate da un colpo di Stato ancora non meglio precisato. E Papa Francesco non poteva rivolgere un pensiero alla quasi neonata nazione.
Ha detto Papa Francesco nell’Angelus, pregando Dio: “Favorisci la concordia nel Sud-Sudan, dove le tensioni attuali hanno già provocato diverse vittime e minacciano la pacifica convivenza di quel giovane Stato”
Le vittime sono state varie centinaia, e gli osservatori stranieri hanno parlato di una possibile guerra civile nel più giovane Stato del mondo. L’escalation di violenza è iniziata nello stato di Jonglei, con un attacco alla base ONU.
La fondazione di un nuovo Stato, in fondo, non è mai facile. Ma il Sud Sudan ha avuto diverse difficoltà che lo hanno caratterizzato: una corruzione endemica, la miriade di tribù in lotta tra loro, la povertà, l’assenza di sviluppo anche stradale (ci sono solo 110 chilometri di strade) e le tensioni con il vicino Sudan al Nord. In più, il Sud Sudan ha petrolio, e questo lo rende uno Stato particolarmente appetibile.
E’ stato il petrolio, e non certo la questione religiosa, a provocare la resistenza del Nord a dare una indipendenza al Sud. Un Sud che comunque dipendeva economicamente dal Nord, dato che il petrolio poteva essere trasportato dagli oleodotti che si trovavano nel più evoluto Nord. La guerra civile che ne è conseguita ha fatto 2 milioni di morti e allontanato 4 milioni di persone da casa.
Nelle circostanze drammatiche della solita guerra africana, la Chiesa si è distinta con un lavoro grandissimo sul campo. Da ricordare quello di padre Cesare Mazzolari, che l’indipendenza del Sud ha fatto appena in tempo a vederla, e poi ha chiuso gli occhi celebrando Messa nel 2011. Come se il suo compito fosse concluso. La fondazione che porta il suo nome è uno dei pochi punti di riferimento nel Paese, una delle poche identità in uno Stato da costruire dopo il referendum che gli ha dato l’indipendenza.
La Santa Sede è stata, come spesso accade, capofila. Da subito, ha chiesto la cooperazione tra gli Stati del Nord e del Sud. Nel 2011, la Santa Sede invitava “la Comunità internazionale a sostenere il Sudan e il nuovo Stato indipendente perché in un dialogo franco, pacifico e costruttivo trovino soluzioni giuste ed eque alle questioni ancora irrisolte ed augura a quelle popolazioni un cammino di pace, di libertà e di sviluppo”.
Ma l’attenzione della Santa Sede verso il Sudan viene da lontano. Giovanni Paolo II riuscì a visitare il Sudan nel febbraio 1993, unico tra i Paesi dominati dalla legge del Corano che il pontefice polacco sia mai riuscito a toccare. Già dall’aeroporto – dove fu ricevuto dal presidente Omar Hassan Ahmed al Bashir – Giovanni Paolo II aveva invitato le autorità ad “ascoltare la voce dei nostri fratelli oppressi” e avvertito che egli non avrebbe taciuto, perché “quando la gente è debole, povera e indifesa, devo levare la mia voce in loro favore”. E poi Papa Wojtyla aveva sottolineato: “I sudanesi, liberi nelle loro scelte, possano trovare la formula costituzionale che permetta loro di superare le contraddizioni e le lotte nel rispetto della specificità di ogni comunità”. Egli non potè andare nel Sud, ma alle comunità cristiane «al Sud era rivolto innanzitutto il suo pensiero: “Io spero con tutto il cuore che la mia voce vi raggiunga, fratelli e sorelle del Sud.”
Parole che già lasciavano precludere al referendum per l’indipendenza. Una indipendenza che è stata votata dal 99 per cento della popolazione. A differenza del Nord a maggioranza musulmano che si identifica in molti modi con il mondo Arabo, il Sud Sudan è primariamente cristiano e animista, e associato più che altro con l’africa sub-sahariana.
Ma se il petrolio era stata la causa della guerra civile, il petrolio è anche la causa del crescente interesse delle nazioni estere come la Cina, che hanno cominciato a investire con forza. Questo ha accresciuto le tensioni interne, favorite anche dalla relativa pace con il vicino del Nord. Così è successo che Salva Kiir, un politico dal 2005 a capo dell’establishment politico del Sud Sudan, ha preso la drammatica decisione di cacciare il suo interno gabinetto, compreso il vicepresidente Riek Machar, un possibile candidato alle presidenziali del 2015. E sarebbero le forze leali al vicepresidente deposto – sempre stando alla versione di Kiir – ad aver tentato un colpo di Stato, che sarebbe fallito.
Le cose non sono però così semplici. Machar ha negato di aver preso parte al colpo di Stato, e ha accusato Kiir di aver usato gli scontri tra i soldati come un impeto per mettere da parte l’opposizione. Gli scontri non sono terminati, perché sono le tribù stesse di Machar e Kiir ad aver continuato gli scontri. Il rischio è quello che gli attacchi etnici facciano crescere i contrattacchi di vendetta. E così, il Sud Sudan è sull’orlo della guerra civile, nell’indifferenza del mondo.